cittachecuraUn Patto per la Salute Mentale a Genova

Di Amedeo Gagliardi, portavoce del Coordinamento per Quarto

Di fronte a questi cambiamenti, conviene escogitare novità inimmaginabili, fuori dai quadri desueti che formattano i nostri comportamenti, i nostri media, i nostri progetti annegati nella società dello spettacolo. Troppo spesso vediamo le nostre Istituzioni brillare di una luce simile a quella delle costellazioni che gli astronomi ci dicono morte da molto tempo.

Michel Serres

In fondo, a pensarci bene, la storia del Patto è iniziata da un conflitto. Un conflitto chiaro che ha dato modo alle parti di intraprendere un percorso di riflessione e in seguito di avvicinamento. Ma riprendiamo dall’inizio.

Eravamo in tanti a Quarto, nell’ex Ospedale Psichiatrico, nel giugno del 2012.

Siamo andati in quel luogo per difendere ottanta persone che dopo oltre trent’anni di residenzialità erano state messe all’asta al massimo ribasso a lotti di venti, da una delibera imbarazzante. Dovevano andare altrove visto che la Regione Liguria aveva venduto la loro casa, la parte ottocentesca dell’ex Ospedale Psichiatrico di Quarto. Siamo andati per difendere quelle persone, quel luogo, ma anche per riprendere un discorso di partecipazione, sulla salute, sulla salute mentale, sull’amministrazione della città, sulla convivenza democratica. Nel corso di quell’estate abbiamo organizzato Quarto Pianeta, tre giorni di dibattiti, di musica, di teatro, di convivialità, denunciando che quel luogo non poteva essere ceduto alla logica del profitto, al privato: non c’erano solo ottanta pazienti da difendere ma c’era una storia, di sofferenza ma anche di liberazione e impegno civile, una rivoluzione, forse l’unica in Italia davvero tentata e riuscita. Un luogo che con i suoi 120.000 metri quadrati rimane, come per più di altri settanta in Italia, sospeso. Dopo aver rinchiuso la follia e con essa le storie di tanti uomini e donne, nessuno ha pensato alla sua ri-generazione al servizio della cittadinanza, lasciandolo isolato, vuoto urbano nonostante le grandi potenzialità e il grande pregio architettonico.

Trovare il bandolo della matassa non fu semplice, ma nel formare il Coordinamento, l’idea non fu di fare l’ennesimo comitato contro, ma quella di dare una mano per ricomporre la caduta di stile delle Istituzioni. Perché il mettere a gara al massimo ribasso i pazienti a lotti di venti segnalava non solo un illegittimo atto che il giudice avrebbe in seguito sanzionato, dando ragione ai familiari dei pazienti, ma una deriva culturale dell’amministrazione pubblica che marcava un punto di caduta che in qualche modo coinvolgeva anche noi, la cittadinanza.

Dalla domanda come si è potuti arrivare sino a questo punto? siamo ripartiti.

Il lavoro di discussione prese corpo tutti i lunedì e va avanti ancora oggi. Il desiderio di ricercare un’altra via e la voglia di portare avanti un progetto di utilizzo diverso per un bene comune ci ha tenuto insieme.

Simultaneamente, complice un cambio alla guida politica del Comune di Genova di una Giunta a trazione civica, guidata da Marco Doria, anche le diverse Istituzioni fecero un passo indietro, aprendo un tavolo di confronto inter-istituzionale e invitando il Coordinamento a farne parte. Un dialogo difficile, faticoso ma che alla fine trovò una sintesi: l’Accordo di Programma firmato da Comune di Genova, Regione Liguria, Arte e ASL3, nel novembre 2013. Questo sancì che i due terzi del complesso ottocentesco rimanevano a funzione pubblica. Un Accordo che dava l’avvio ad una nuova vita, almeno sulla carta: continuavano le funzioni sanitarie esistenti, si progettava la creazione della Casa della Salute per il Levante e si potenziavano le funzioni culturali e sociali.

Negli anni successivi il lavoro del Coordinamento è stato quello di allargare l’interesse nella città per il percorso di rigenerazione secondo lo schema immaginato nell’Accordo. Un luogo pensato non più per chiudervi dentro le persone in difficoltà, come è avvenuto per più di secolo, ma per contribuire alla crescita della cultura delle relazioni e dell’accoglienza. Oggi continuano a persistere muri e barriere nei confronti dell’alterità. La paura sembra essere diventata la vera antagonista della libertà. Per questo motivo abbiamo continuato ad organizzare numerosi eventi in campo artistico e culturale su questi temi.

Negli ultimi anni un migliore rapporto con ASL3 ha permesso di avviare tre progetti: uno di questi è il Patto per la Salute Mentale, gli altri due, non meno importanti, sono l’avvio dei lavori per la Casa della Salute e l’apertura dello Spazio 21, le ex cucine, per le attività socio-culturali. Grazie al lavoro volontario siamo riusciti ad aprire questo spazio nonostante l’Accordo di Programma e la questione urbanistica si siano interrotte per il cambio di guida politica e difficoltà di rapporti tra le Istituzioni.

L’idea del Patto nasce dalla sensazione che negli anni si fosse indebolito il confronto culturale e tecnico: un dialogo confinato solo tra gli addetti ai lavori. Era inoltre forte la percezione di una progressiva tendenza a tener conto solo della propria prospettiva con una riduzione della capacità di ascolto. Sentendo il bisogno di rinnovare questo percorso, attraverso un confronto tra le Associazioni dei Famigliari e il Dipartimento di Salute Mentale si organizzava un primo evento formativo nell’ottobre 2017 dal titolo La città che cura. Sostenuti dal successo di questo incontro, veniva avanzata la proposta di rielaborarne il materiale e giungere per l’anno successivo alla produzione di un documento definito Patto per la Salute Mentale. Il Patto vedeva la luce come punto d’incrocio tra operatori del pubblico e del privato, pazienti e familiari, cittadinanza, e le diverse forze istituzionali, sociali, economiche, culturali e associative della città per costruire una sinergia capace di rigenerare senso collettivo attorno al tema della salute mentale. Un programma che potesse ridare vita al lavoro in rete, al lavoro di équipe, e sapesse riconoscere la Salute Mentale come bene comune della città.

L’11 maggio 2018 il Patto La città che cura veniva presentato in un Convegno nello Spazio 21. In quell’occasione veniva approvato e formalmente firmato da circa 70 organizzazioni. Nel documento vengono condivisi alcuni principi generali riguardanti la Salute Mentale, e indicati alcuni obiettivi programmatici per il triennio successivo, proponendo l’attivazione dell’Osservatorio Regionale per la Salute Mentale, della Consulta per la Salute Mentale nel territorio di ASL3 e dell’attivazione dei Circoli territoriali nei diversi Distretti. Il Patto diventava inoltre oggetto di un lungo dibattito all’interno del Consiglio di Regione Liguria e del Consiglio Comunale di Genova, dove veniva votato all’unanimità da tutte le forze politiche.

Il merito del Patto è quello di aver ripreso una discussione pubblica attorno al tema della salute, in questo caso della salute mentale, secondo uno schema abbandonato da anni dalla politica: quello della medicina di territorio e dell’integrazione socio-sanitaria. Politiche abbandonate a vantaggio di una sanità centrata sulle prestazioni, soprattutto ospedaliere e specialistiche. Questa visione è risultata di corto respiro, perché tralascia il tema dell’accessibilità dei servizi e lascia indietro le tante persone che hanno meno mezzi economici e culturali. Persone che progressivamente rinunciano alle cure, lo osserviamo da come nel momento dell’emergenza sono costrette a rivolgersi e a intasare i Pronto Soccorso. Riprendere un discorso pubblico e di partecipazione attorno alle politiche della salute, vuol dire rimettere la questione sociale al centro delle politiche di protezione e di sicurezza, affinché anche la sanità diventi strumento di contrasto alle diseguaglianze sempre più emergenti.

In questi anni come cittadini abbiamo avuto l’occasione di osservare la politica e la pubblica amministrazione da vicino. Al di là dei diversi orientamenti, segnaliamo come risulti indispensabile un cambio di passo, per costruire un’interlocuzione virtuosa tra la cittadinanza e l’amministrazione pubblica. Se pensiamo che tali processi siano utili per rinnovare la funzione pubblica, c’è bisogno di ritrovare coraggio nel rispondere alla complessità che l’innovazione oggi richiede.

Il Patto di fatto è il tentativo di costruire un ponte, un’infrastruttura immateriale, necessaria, per consentire alle Istituzioni e ai cittadini di attraversare in modo confortevole e rapido temi che sono vita concreta, esperienza quotidiana. Costruire questi ponti è complesso e a differenza di quelli materiali, è più importante monitorarne il processo di costruzione e di manutenzione che la scelta del progetto.

In questo senso le parti, a cominciare dalla società civile, hanno bisogno di crescere nella consapevolezza che troppa autoreferenzialità rende vano il contributo all’innovazione, e per altro verso le amministrazioni pubbliche hanno bisogno di ritrovare forza per guardare lontano, altrimenti continueranno a essere percepite come poco utili.

Per questo sarà necessario sviluppare nelle organizzazioni un senso di appartenenza a quel bene comune che insieme alla specifica competenza può diventare spinta ideale, orizzonte necessario per dar gambe ai processi collettivi, rispettando il pluralismo delle parti e restituendo a ognuno responsabilità e cittadinanza.

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