La salute mentale è un diritto umano

di Roberto Mezzina*
Un rapporto sul documento del WHO – Il World Mental Health Report 2022

Il WHO ha lanciato il World Mental Health Report ‘Transforming mental health for all’ in giugno, dopo un lavoro durato quasi due anni. Esso segue dopo oltre un ventennio il precedente ‘New Understanding, New Hope’, che nel 2001 disegnò tre diversi scenari (a livello di risorse e di interventi) per una salute mentale riconosciuta come fatto globale.

L’attuale report è concepito come una guida per tutti, e non solo per gli addetti ai lavori, ed è frutto di un lavoro durato oltre un anno e mezzo da parte di esperti del WHO coadiuvati da un gruppo di consulenti esterni, e da moltissimi revisori. Esso mette a fuoco le questioni attuali e che disegna i nuovi scenari fuori dalle strettoie delle vecchie psichiatrie. Contiene molti esempi di buone pratiche, in maggioranza da paesi a basso e medio reddito, testimonianze dei protagonisti, ossia coloro che sono portatori di esperienza vissuta di disturbo mentale, e analizza le questioni principali, i fattori chiave, tra cui vengono ripetutamente sottolineati l’empowerment e il lavoro multisettoriale, oltre alle buone tecnologie digitali, la cui importanza è stata evidenziata specialmente dal Covid 19.  

La salute mentale è un diritto umano fondamentale ed ha un valore intrinseco: questo afferma con chiarezza il rapporto. Essa si sviluppa lungo un continuum: non si identifica, come viene ribadito, solo su un asse di tipo ‘negativo’, come l’assenza o presenza di disturbo, ma va misurata anche sull’asse positivo del benessere mentale. Livelli che possono anche non coincidere, come dimostrato dalle esperienze di recovery. 

I progressi in questi vent’anni sono stati assai lenti. Oltre un miliardo di persone (una persona su 8) soffre di un disturbo mentale (il 52% sono donne), che corrisponde ad oltre il 14% del carico globale di disabilità (oltre il 5% del carico globale di malattia), ma solo il 2% della spesa sanitaria va alla salute mentale (ricordiamo, in Italia meno del 3%). Nei paesi poveri vi è in media solo un operatore ogni centomila abitanti. Ciò corrisponde ad una copertura appena del 23% dei bisogni di cura nei paesi ad alto reddito per quanto riguarda la depressione, e incredibilmente del 3% in quelli a basso reddito. Il che non è garantito dallo stato: ad esempio a Goa, in India, le donne con depressione spendono la metà del loro salario per ricevere qualche forma di cura. 

Nel mondo, 1 morte su 100 è causata dal suicidio, si verifica nel 58% dei casi in età giovanile, e comunque prima dei 50 anni. Per di più, la mortalità precoce colpisce specialmente le persone con disturbi severi (che vivono 10-20 anni di meno in media).

Il WHO ammette come questi dati siano incompleti, e come sia un gap innanzitutto di informazioni che è drammatico. La ricerca in questo campo spende meno del 5% nei paesi poveri.

Viene riconosciuto un gap a livello di governance: solo 21% dei paesi hanno leggi o politiche in linea coi diritti umani, e 2/3 della spesa sono ancora dedicati agli ospedali psichiatrici.  

C’è un gap infine a livello di servizi. Sussiste la dominanza a livello globale del modello biomedico riduzionista, nonostante esso sia ampiamente deficitario: il 71% delle persone con psicosi non ricevono cure, esse comunque sono di solito solo farmacologiche, e solo il 34% dei paesi può dimostrare di mettere in atto interventi psicosociali. 

Le barriere non sono solo costituite da un’offerta povera, caratterizzata da cure non disponibili, non accessibili, non abbordabili economicamente e di scarsa qualità. E’ drammatica la carenza di literacy, ossia di educazione sanitaria su questi temi, in una realtà dominata da pregiudizi e atteggiamenti preconcetti. Ad esempio, in Nigeria il 97% della popolazione crede nella pericolosità del malato mentale, e l’88% ha paura di parlargli.  Lo stigma, che si basa su stereotipi, paura e vergogna, e che porta a violazioni dei diritti, discriminazione ed esclusione sociale, continua a rappresentare uno dei più gravi impedimenti ad una buona salute mentale ed agisce come una noxa di per sé. 

Ci sono certo buone ragioni per sostenere una salute mentale pubblica: il ritorno di investimenti (5 volte tanto in termini di riduzione di disabilità nella popolazione, e il miglioramento della salute in generale, data la stretta correlazione dimostrata tra disturbi mentali e malattie quando agiscono in comordidità (il rapporto si riferisce alle malattie croniche non comunicabili, ma anche ad AIDS, TBC etc). Ciò richiama la necessità di cure personalizzate ed integrate attraverso settori e servizi, che devono essere a loro volta operanti in partnership, e con comuni direzioni e responsabilità politiche a livello governativo.  

Il tema dei diritti umani, sostenuto già dall’OMS attraverso il programma QualityRights, richiama un’azione di prevenzione delle loro violazioni, sostenendo l’autonomia del singolo nelle scelte rispetto alla salute, la creazione di servizi basato sui diritti, le rappresentanze della società civile, e la riforma di  leggi e politiche. Questo tema è strettamente collegato a quello dell’empowerment delle persone con esperienza vissuta, che vanno coinvolte nel loro proprio progetto di cura, ma anche nei servizi e nella programmazione, valutazione, formazione, e anche erogazione, oltre che a livelli più generali, strategici e politici. Ricevere informazioni è cruciale: sapere è potere. Solo il 16% dei paesi ha dichiarato di avere dei meccanismi di coinvolgimento dell’utenza, mentre è chiara la necessità di una partnership tra chi gestisce ed eroga i servizi (i professionisti) e chi li riceve. Allo stesso modo, vanno sostenute le organizzazioni di utenti nel loro ruolo pubblico, dalla denuncia alla difesa dei diritti, dall’educazione alla salute alla vera e propria fornitura di servizi. 

A partire da queste premesse, basate su evidenze scientifiche e su informazioni e dati di varia natura, all’interno di cornici nazionali o più ampie (regionali), il Report pone le basi per un’agenda del cambiamento atteso, riaffermando quanto già contenuto nel Piano d’Azione globale sulla salute mentale 2013-2030. Qui è interessante l’analisi che distingue un impegno ‘espresso’, da un impegno assunto a livello istituzionale, ed infine tradotto in concreti investimenti. Gli esempi di eventi catastrofici come il conflitto in Siria e lo Tsunami in Sri Lanka, indicano che sono spesso condizioni esterne a forzare il cambiamento. 

Una strategia efficace non può fare a meno di una condivisione di competenze (task-sharing) tra livelli specialistici e generalisti (chiamati ad indentificare e trattare casi meno complessi), operatori di comunità (utili a riferire persone ma anche nel sostegno sociale), anche appartenenti a ONG e volontariato, e gli stessi individui, attivi nell’auto-aiuto e nel self-care in collaborazione con tutti gli altri livelli. 

I diversi aspetti in cui le tecnologie digitali (dimostratisi specie utili per migliorare il benessere e anche per combattere la depressione) sono da considerare e sviluppare sono qui messi in relazione: informazione, formazione, supporto, cure da remoto, auto-aiuto. 

In tema di prevenzione e promozione, temi cui il rapporto dedica un intero capitolo, la salute mentale viene messa in relazione al capitale individuale e sociale (che è legato al rapporto con servizi e istituzioni) e alle condizioni di vita e ai fattori sociali di tipo strutturale, di cui si sottolineano lavoro, istruzione e riduzione della povertà. 

La realtà resta difficile: le persone disabilitate da questi disturbi solo in parte ricevono interventi di protezione sociale quali sussidi economici o pensioni, e la salute mentale non è garantita nei luoghi di lavoro nella stragrande maggioranza dei paesi. Viene invocata a questo proposito non solo un’attenzione legislativa, ma interventi sul piano dell’organizzazione del lavoro, della formazione dei manager, oltre al supporto ai singoli lavoratori. 

Per la prevenzione del suicidio, di cui viene registrato peraltro un calo nel mondo, si rammentano i 4 punti dell’approccio LIVE LIFE: limitare l’accesso ai mezzi suicidiari, interagire coi media per un’informazione responsabile, favorire l’apprendimento sociale ed emotivo, ed intervenire precocemente. Per quanto riguarda i bambini e gli adolescenti (il 14% è affetto da disturbi nel mondo) nelle scuole i programmi di apprendimento di life skills, mirati allo sviluppo dell’infanzia, si sono dimostrati efficaci e vanno incrementati.

La salute mentale basata sulla comunità viene ridefinita in un modello a rete, che comprende i servizi integrati nella medicina generalista (cure primarie, negli ospedali generali), i servizi di salute mentale territoriali (CSM e team territoriali, riabilitazione psicosociale, abitare supportato, servizi gestiti da peer), e la salute mentale oltre il settore sanitario (servizi sociali e sul lavoro, nelle carceri, nelle scuole). Ma viene anche riconosciuta l’importanza non solo dell’aspetto valoriale e di vision (‘mettere le persone per prime, la loro recovery, le cure basate sui diritti), ma anche il contributo dei servizi informali e dei sistemi comunitari di supporto.

Viene correttamente posto l’accento sul nesso tra deistituzionalizzazione e rafforzamento dei servizi comunitari (con l’esempio del Brasile, o anche del Perù) insieme con l’aumento della risposta alle condizioni psichiatriche più comuni, anche attraverso forme di counselling non specialistico.  Gli stessi servizi territoriali, va notato, sono definiti attraverso un ampio range di funzioni relative al trattamento, all’ospitalità notturna, all’ingaggio della comunità, alle attività di coordinamento con altri servizi e partner strategici, alle attività di inclusione sociale (culturali, educative, ed anche economiche); infine, la costruzione di gruppi di supporto per utenti, familiari e caregiver. Il documento invoca una equità ‘verticale’ (la contemporanea disponibilità di tutti questi livelli) al posto di una orizzontale, basata semplicemente sull’accesso al trattamento.

Le conclusioni definiscono un percorso trasformativo. Ridisegnare gli ambienti e gli ambiti della salute mentale, approfondire il valore e l’impegno da profondere, rafforzare la cura della salute mentale sono le tre linee di sviluppo indicate, che richiedono un’azione coordinata multisettoriale, cui tutti i soggetti sono chiamati. Essa deve coinvolgere gli individui, nel senso della cura e del sostegno; i governi – che devono identificare la salute mentale come priorità, legarla ai diritti umani, migliorare la qualità dei servizi, stabilire meccanismi per un coinvolgimento dei diversi settori e soprattutto delle persone con esperienza vissuta; coloro che gestiscono e forniscono le cure (nel rispetto dei diritti e della dignità delle persone, in maniera integrata e condivisa, migliorando l’acculturazione e l’accesso); e la società civile, in modo consapevole e inclusivo, a supporto di formazione, ricerca e servizi adeguati.        

Speriamo davvero che il rapporto, nelle sue molteplici implicazioni, che finalmente colloca la salute mentale in una prospettiva di complessità, sia preso seriamente in considerazione dai politici e dai tecnici, ma anche dall’opinione pubblica, a partire dall’Italia che ospiterà a breve il Global Mental Health Summit a Roma in ottobre.

qui per il documento completo

*Roberto Mezzina, membro dell’Advisory Group del WHO Mental Health Report.