tentDi Elena Cerkvenič

L’esperienza di aver dormito nella mia tenda canadese con mio figlio era fantastica. L’aveva organizzata la psicologa E. che mi seguiva al centro di salute mentale di Domio. Un giorno, mentre mi trovavo al centro, mi si avvicinò, mi saluto e mi disse con determinazione: «Elena, avrebbe voglia di andare con suo figlio a dormire una notte in tenda ad Aurisina?». Io rimasi piacevolmente sorpresa e dissi subito di sì. Mio figlio era ancora piccolo. Avrà avuto sei anni, forse ancora di meno. La mia malattia psichica è stata terribile perché si è intromessa con malvagità e superiorità nella relazione tra me e mio figlio. Io mio figlio l’ho sempre amato infinitamente e avrei voluto che fossero state diverse parecchie cose. A causa della mia malattia io e mio figlio non potevamo stare mai vicini vicini, la malattia aveva creato tra me e mio figlio un muro che ci teneva distaccati e separati. Io gli unici momenti che mi sentivo di poter offrire il mio amore materno a mio figlio e di poter stare con mio figlio (vivevamo insieme) erano quelli in cui gli leggevo le fiabe dai libri che prendevamo in prestito alla biblioteca Srečko Kosovel di Sežana. Lo sloveno è la mia lingua, la mia cultura, quella dei miei nonni, proibita durante il fascismo, ed avevo deciso che con mio figlio avrei parlato sloveno, la lingua dei miei nonni e di mia madre; e gli avrei letto le fiabe in lingua slovena. Quanto era per me difficile parlare a mio figlio! Avevo difficoltà ad esprimermi. Semplicemente non riuscivo ad esprimermi. Non ricordo di essere stata con mio figlio in nessuna importante città d’arte; avrei voluto avere avuto la forza di portarlo a visitare i musei, a vedere le chiese, ad ascoltare i concerti, nei parchi di divertimento, in Italia, in Slovenia, in altri paesi. Invece niente di tutto questo. Sarebbero state tutte attività che a me sarebbe piaciuto tantissimo fare assieme a mio figlio. Per fargli capire sin da piccolo il valore, l’importanza della cultura, dell’arte, e anche, perché no, del divertimento. Ma quando stavo male nulla di tutto questo era possibile, nemmeno immaginarlo. Il mio disagio mentale in quella fase della mia vita mi aveva ridotto a cadavere vivente.

Avevo una piccola tenda canadese a tre posti del periodo in cui avrò avuto sedici, diciasette anni; quanto era bello quando ero adolescente! Eravamo andate una settimana a Salvore in Croazia con le mie compagne di classe. La mia amatissima mamma mi aveva comprato in un negozio sportivo una bellissima tenda canadese; con quanto sacrificio! Con quanto impegno lavorativo da parte sua! La tenda canadese che avevo era fatta di cotone, un bellissimo tessuto impermeabile bicolore, marrone scuro e arancio; erano gli anni in cui andavo al liceo; e in estate andammo al mare con le compagne di classe del liceo. Quanto erano belli quegli anni! Non lo so come la psicologa E. sia venuta a conoscenza che avessi una tenda canadese, forse glielo dissi io al gruppo donne, magari esprimendo la mia gioia per quel meraviglioso periodo dell’adolescenza quando stavo ancora molto bene e avevo tanti sogni da realizzare e la possibilità concreta, essendo una ragazza sana, curiosa e volonterosa, che si realizzassero tutti o quasi tutti. La psicologa mi fece rivivere dei momenti meravigliosi; mi disse: «Elena, tu porti la tenda e vieni con tuo figlio ad Aurisina!». Era per me un sogno incredibile poter stare con mio figlio nella stessa tenda nella quale io trascorsi giorni estivi spensierati al mare con le mie compagne di classe.

Ad Aurisina c’era il centro diurno e all’esterno c’era un giardino bellissimo. Era proprio lì che piantammo la tenda. A mio figlio piaceva l’idea di dormire in tenda. Era per lui la prima volta. Non l’avevamo mai fatto in famiglia. Io ero felice. Eravamo noi due, io ero cullata nella piacevolezza dell’amore materno più totale. Di sera ci infilammo nella tenda. Cosa avrei potuto dire o fare con mio figlio lì in tenda? Gli avrei potuto raccontare una fiaba, gli avrei potuto fare una piccola carezza. Gli avrei potuto dare un bacetto sulla guancia. Invece niente di tutto questo. Non sapevo né cosa né come fare. Non mi veniva in mente niente. Ad un certo punto appoggiai molto delicatamente la mia mano sul piccolo corpo di mio figlio e sentii come si muoveva la schiena per il respiro. Ero felice. Mio figlio era lì con me. Si era addormentato. Mi addormentai anch’io. Vicino a lui. Lì avevo acquisito la consapevolezza che ero madre.

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