credenzeferisconoDi Lorenza Magliano

L’articolo di Allegra Carboni riprende la questione della rilevanza dei trattamenti farmacologici nel contesto più ampio delle cure per le persone con disturbi mentali.

Provo a fare il punto a partire da due ricerche recenti che hanno esaminato questi aspetti in campioni di medici non psichiatri e operatori dei Servizi di salute mentale.

Fanno riferimento, entrambe le ricerche, alla schizofrenia che resta – lo abbiamo detto spesso qui al forum – il disturbo mentale verso il quale la gente comune e i professionisti della salute mantengono convinzioni più negative, soprattutto in termini di possibilità di guarigione e di pericolosità percepita.

Le ricerche e le testimonianze dirette evidenziano come le persone con schizofrenia – in ragione della loro diagnosi più che dei sintomi che manifestano – sono trattati diversamente e in genere meno bene (anche) nei contesti sanitari.

Il meno bene si riferisce a cure qualitativamente meno buone, a più difficoltà per accedervi, a meno garbo degli operatori della salute nel relazionarsi con loro, a più scetticismo sulla veridicità di quanto riferiscono, alla tendenza a interpretare i disturbi fisici che lamentano come sintomi di patologie psichiatriche.

Se queste persone vivono fino a 25 anni meno degli altri, è pure per questi motivi. Dunque, quando si parla di stigma in ambito sanitario si parla di una cosa che investe le relazioni tra le persone, ma anche molto altro, la salute e il rispetto, insomma.

Per capire questi aspetti nel contesto del nostro Paese, abbiamo intervistato, uno per uno, 305 medici non psichiatri, cioè medici di famiglia e specialisti non psichiatri. Il 34% di questi medici è risultato del tutto convinto che una persona con sintomi riconducibili a una diagnosi di schizofrenia debba prendere psicofarmaci per tutta la vita, e il 31% che se smette di assumerli, starà sicuramente male di nuovo. A queste percentuali, già preoccupanti così, va aggiunto il 41% di incerti sugli psicofarmaci per la vita e il 57% di incerti sul binomio sospensione-stare male di nuovo. In più, il 64% ritiene che se queste persone smettono di assumere gli psicofarmaci, diventano pericolose.

Come possiamo spiegare almeno in parte queste convinzioni? In parte – in una parte consistente! – con il modello causale interpretativo di questa sindrome. In pratica, se si chiede a questi medici quale sia, dal loro punto di vista, la causa più importante alla base della schizofrenia, il 54% indica una causa bio-genetica, soprattutto ereditarietà e squilibrio chimico.

E lo stress? I traumi? Le violenze e gli abusi ai quali le persone con disturbi mentali sono più vulnerabili? Sì, sono importanti ma meno…ci sono pure quelle cause lì ma i geni…i neurotrasmettitori…

Nella ricerca di cui parlo, i medici che hanno indicato una causa biogenetica come la più importante sono anche quelli che in misura molto statisticamente significativa sono più convinti che queste persone debbano assumere farmaci per la vita intera e abbiano poche chances di guarire. Per questi stessi medici inoltre lo psichiatra è il riferimento quasi sempre indicato, lo psicologo in aggiunta molto meno.

L’importanza dei farmaci come mezzo per controllare comportamenti pericolosi è preoccupante anche da un punto di vista di salute fisica.

Un medico infatti che ritenesse gli psicofarmaci così necessari per tutta la vita potrebbe, anche in presenza di effetti collaterali seri o di concomitanti problemi di salute fisica (per esempio, quelli cardiovascolari), non raccomandarne la sospensione o la riduzione (di concerto con lo psichiatra). Una decisione clinica legata a convinzioni causali e non di meno a una radicata percezione di pericolosità e inguaribilità attribuite a questi disturbi.

Sì, ma gli operatori della psichiatria? Sapranno bene, almeno loro, che i disturbi mentali sono spesso la conseguenza di fatti traumatici, di condizioni di vita difficili, di … di …

In una ricerca su 166 operatori dei Servizi di salute mentale, l’85% riteneva che la causa più importante della schizofrenia fosse biogenetica, e il 96% (96!) era convinto (56%) o in dubbio (40%) della necessità di psicofarmaci per la vita in questa patologia. Peraltro, gli operatori più convinti della necessità di psicofarmaci per la vita erano anche più certi della pericolosità associata a questa patologia e, forse cosa ancora più grave, più scettici sulla capacità delle persone con questa diagnosi di stabilire una relazione di fiducia con gli operatori (capacità riconosciuta dal 37% degli intervistati).

Dobbiamo interrogarci seriamente su questi aspetti, io credo, e considerare un intervento sullo stigma non solo un’azione doverosa per garantire inclusione e partecipazione sociale delle persone che hanno o hanno attraversato l’esperienza del disturbo mentale grave ma anche una modalità necessaria per ridurre le disuguaglianze nelle cure.

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