Gianni Cuperlo intervista Peppe Dell’Acqua

Se passeggiate nel cuore di Trieste, tra Piazza Unità e le stradine risanate di Cavana potrebbe capitarvi d’incrociarlo. A passeggio con una Golden Retriver dal pelo chiaro, un tantino acciaccata per l’età e che gli cammina di fianco a passo ridotto. Giuseppe (Peppe) Dell’Acqua a Trieste ci vive da più di mezzo secolo. Era il 1971 quando cominciò la sua avventura basagliana. Nel senso letterale, di collaborazione e condivisione della sola vera rivoluzione che la città abbia conosciuto nelle traversie di una storia tormentata. Due anni più tardi, assieme a Vittorio Basaglia e Giuliano Scabia, gli sarebbe toccato inventarsi la parabola-simbolo di quel Marco Cavallo che, dipinto d’azzurro, continua a peregrinare su e giù per l’Italia a testimonianza dell’intuizione destinata a fare della dignità del “malato” un traguardo di civiltà. Anche per questo viene naturale pensare a lui quando l’attacco alla 180, la legge che di Franco Basaglia porta il nome, trova sponde solide nel governo della destra. Non che in passato non fosse accaduto, la novità di ora è che, numeri alla mano, quell’assalto potrebbe concretizzarsi in una restrizione pesante delle maglie che la riforma del 1978 aveva allargato come mai prima di allora. Ma cosa vorrebbe dire abbattere quell’ultimo totem di una libertà conquistata dopo i decenni (o secoli?) della repressione di vite condannate a non vivere mai dentro strutture manicomiali deprivate di qualsiasi umanità? 

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Peppe, dobbiamo per forza muovere dalla cronaca e dalla tragedia di Barbara Capovani, la psichiatra di Pisa che un ex paziente ha ucciso a colpi di spranga. L’emozione che ha prodotto è stata larghissima, non solo tra le colleghe e i colleghi e i tanti che l’avevano conosciuta. Com’era prevedibile quella morte atroce ha riaperto il cantiere mai chiuso di dubbi, critiche, accuse alla legge che Basaglia, e tante e tanti di voi con lui, avete battezzato. Allora, partiamo da qui e dalla domanda più provocatoria. Perché si dice e si pensa che la legge 180 abbia qualche responsabilità politica e morale sulla morte della dottoressa Capovani?

No, assolutamente no! È assurdo solo pensarlo, prima di tutto bisognerebbe interrogarsi sulla responsabilità di chi avrebbe dovuto avere in cura Gianluca Seung (l’uomo che ha ucciso Barbara Capovani ndr). La legge di riforma viene chiamata in causa per coprire le storture organizzative, la miseria degli investimenti del Governo e delle Regioni, il rifiuto delle psichiatrie e delle accademie di contribuire al cambiamento culturale che la legge non poteva non pretendere. Dobbiamo domandarci che cosa hanno fatto governi e ministeri che si sono succeduti nel corso degli ultimi vent’anni. Le Regioni hanno utilizzato le loro autonomie per realizzare venti sistemi sanitari differenti, abissali diseguaglianze nelle organizzazioni, nel godimento dei diritti costituzionali per i cittadini, nell’uso sempre più inappropriato delle risorse: sistemi organizzativi molto segnati da culture manicomiali; ricorso a un privato mercantile e un privato sociale succube di politiche regionali di risparmio e soprattutto mancante di una qualsivoglia visione; sistemi di contenzione e di controllo nei servizi ospedalieri di diagnosi e cura.

Mi stai dicendo che la 180 diventa l’alibi per tutto ciò che non si è fatto, ma resta il dramma di tante famiglie che denunciano la propria solitudine e impotenza

Ma vedi, ancora una volta dopo 45 anni la legge di riforma viene chiamata in causa proprio per nascondere vuoti abissali, abbandoni colpevoli, inadeguatezza di psichiatrie che per farsi hanno un bisogno ostinato di rendere oggetto l’altro: centri di salute mentale vuoti, ambulatori isolati nel deserto di territori non curati, diagnosi, farmaci e le trincee fangose dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura. E residenze che “ospitano” ormai da decenni sempre le stesse persone. Eppure in tanti luoghi, a volte intere regioni, gruppi di lavoro che ancora credono nelle possibilità del cambiamento utilizzano proprio quella legge come un formidabile strumento di progresso e di buone cure per tante persone, specie quando vivono disturbi mentali severi o molto severi, specie se giovani. Ci sono amministratori che “prendono a cuore” il destino dei matti e buone cooperative e associazioni di cittadini che, con regolamenti regionali adeguati, attenzione alla formazione permanente degli operatori, arricchiscono il capitale sociale dei loro territori. 

Allora perché è così difficile spezzare l’automatismo che collega tragedie come quella di Pisa alla chiusura dei manicomi?

Faccio questo mestiere da più di cinquant’anni e ricordo che eventi tragici come quello che stiamo vivendo accadevano prima che chiudessero i manicomi e prima della legge 180. Che siano sempre accaduti non toglie orrore a questi eventi. I pochi dati di cui disponiamo ci dicono che, a dispetto dei luoghi comuni, la chiusura dei manicomi non ha comportato la crescita di omicidi per mano di “malati pericolosi” e di suicidi. Anzi vi è stata una sensibile diminuzione a dispetto di quanto ancora oggi i titoli dei giornali insistono a volerci far credere. Dovrei ricordare quanto accade negli altri paesi europei e drammaticamente negli Stati Uniti dove non c’è mai stata una legge 180. Ma sarebbe un discorso troppo lungo.

Puoi ricordare anche solo per titoli il cammino che condusse alla riforma, insomma ciò che la rese possibile?

All’inizio del ‘900 il soggetto, l’individuo, la persona, fino a quel momento resi invisibili dal prevalere del positivismo scientifico, cominciavano ad emergere. Nel secondo dopoguerra cominciò a prendere forma una preoccupata e diffusa attenzione alle grandi istituzioni. All’epoca erano milioni gli internati e i manicomi, in una sorta di diffusione pandemica, erano tutti uguali in tutto il mondo. Piccole innovazioni e sperimentazioni nascono in molti ospedali psichiatrici in Europa come negli Stati Uniti. In Italia non accade nulla fino agli anni sessanta quando un giovane neurologo viene chiamato a dirigere l’ospedale psichiatrico di Gorizia.

Quel giovane neurologo era Franco Basaglia

Si, era il 16 novembre 1961 quando Basaglia che, con altri giovani medici e filosofi si era appassionato agli studi di fenomenologia, entra nel manicomio di Gorizia. Vede non solo la violenza delle porte chiuse e delle contenzioni. Vede “da filosofo” una violenza più grande: gli uomini e le donne non ci sono più. Solo internati, senza più volto, senza più storia. Per incontrare le persone cominciò ad aprire le porte, ad abolire tutte le forme di contenzione, i trattamenti più crudeli. Gli internati divennero persone, individui. Da allora fu possibile immaginare un altro modo di curare e di ascoltare: il malato e non la malattia, le storie singolari e non la diagnosi, le possibilità di vivere e di abitare la città. Cominciò un cammino tra insidie e resistenze che apparivano insormontabili.

Si può dire che la “rivoluzione” parte da lì?

Appare chiaro a molti che la condizione degli ospedali psichiatrici è deplorevole, in Europa come in Italia. Ci sono differenti proposte per affrontare il tema, sia da parte delle società scientifiche che da parte delle amministrazioni politiche. Le ipotesi sono due: o bonificare gli ospedali psichiatrici rendendo più vivibile la vita al loro interno o cominciare a proporre un cambiamento nella prospettiva del fuori. Per me quanto accade a Gorizia nel 1961 con l’ingresso di Basaglia è sicuramente un inizio.

I passi successivi?

All’apertura di Gorizia farà seguito nel 1968 una legge proposta dal ministro della sanità socialista Mariotti che stabiliva la possibilità di ricovero volontario negli ospedali psichiatrici, quindi di dimissione e sostanziali cambiamenti organizzativi. Nel corso degli anni ‘70 in ogni regione e provincia tentativi di trasformazione più o meno profondi vengono messi in atto sulle indicazioni della legge. Una forte azione di pressione politica venne svolta dai presidenti riuniti nell’Unione delle Provincie Italiane all’epoca presieduta da Michele Zanetti che a Trieste sosteneva la direzione di Franco Basaglia. Per i presidenti gli ospedali psichiatrici sono un costo sempre più insostenibile e fonte di continui “incidenti”. Sono più di 100.000 gli internati e circa 90 i manicomi, compresi alcune grandi istituzioni di proprietà della Chiesa. Le proposte di cambiamento degli OP procedono assieme a quanto si andava muovendo per la riforma del servizio sanitario nazionale.

La politica, partiti e parlamento, come seguivano quel processo?

Nel 1975 c’è il grande successo elettorale del Pci con la strategia del compromesso storico. Nello stesso anno il programma elettorale della DC dedicava un ampio paragrafo proprio alla questione degli OP. Intanto in alcune province (Perugia, Trieste, Arezzo …) procedevano più spediti i progetti di apertura. Nel 1974 nasce a Gorizia “Psichiatria Democratica” che negli anni sarebbe stata un punto di riferimento costante per le politiche di cambiamento e di approccio critico alla questione psichiatrica. Nel 1977 il partito Radicale promuove un referendum per chiedere la chiusura dei manicomi anche a seguito di ripetuti incidenti e violenze. Il Governo si trova nella necessità di superare con una legge i quesiti referendari  e deve farlo in estrema urgenza. Viene stralciata dall’impianto della legge che istituirà il Servizio Sanitario Nazionale la parte relativa alla salute mentale. Tina Anselmi, la partigiana Gabriella, ministra della sanità, istituirà una commissione e la legge 180, con il voto unanime, verrà varata il 13 maggio del 1978. Potrei dire che questa legge si propone prima di tutto l’ingresso del “malato di mente” nel terreno del diritto costituzionale. Da qui la conseguenza sarà anche la chiusura dei manicomi.

Qualcosa hai accennato, ma quali furono secondo te le ragioni che fecero coincidere in quello stretto arco di tempo – parliamo del 1978, l’anno tra i più tragici della storia repubblicana – il rapimento Moro e l’approvazione in Parlamento, oltre alla 180, di altre due riforme a modo loro fondamentali, l’istituzione del Servizio Sanitario nazionale e la legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza?

Gli anni ‘70 sono stati drammatici, ma anche gli anni in cui il nostro paese, con una sequenza di leggi ha avviato un cambiamento radicale nel campo dei diritti. Queste leggi che tu ricordi accadono in un momento di grande tensione. Nel 1978, quasi a rappresentare le contraddizioni che stavamo vivendo, nella stessa unità di tempo e di spazio, viene votata la legge 180 e viene barbaramente ucciso Aldo Moro. È un momento pesante per tutto il paese, i temi della sicurezza sono all’ordine del giorno e tuttavia si approva una legge che allarga considerevolmente le possibilità di libertà e convivenza. L’art.32 della Costituzione, dopo 30 anni finalmente guarda anche i matti, soprattutto i matti, come altre categorie di cittadini che necessitano di attenzioni maggiori. Fa impressione che proprio in quel momento Aldo Moro, giovane costituente che aveva letteralmente scritto l’art.32 discutendo con uomini come Calamandrei, La Pira e Togliatti, pesando le parole per garantire diritti soprattutto alle persone private della loro libertà, veniva assassinato dalle Brigate Rosse.

Oggi al governo c’è la destra. E la destra, lo sappiamo, non sono le felpe di Salvini, ma è un impianto culturale – c’è chi la chiama un’ideologia – che fonda sulla paura di un nemico, migranti, poveri, disperati o senza dimora, la sua forza e consenso. Allora, consentimi un’altra sintesi impropria, ma per questa destra chi sono veramente i “matti”? Un alibi? Un bersaglio?

Devo dirti che non solo per questa destra ma, in una sorta di regressione che stiamo vivendo, i matti sono rientrati nel grigiore dei luoghi comuni, nella categoria dello scarto. La pericolosità che proprio la legge di cui stiamo parlando ha cercato di separare dalla malattia mentale è tornata a occupare tutto il campo. Di nuovo da più parti la gestione della pericolosità viene attribuita agli operatori della salute mentale. Una legge che si propone di garantire alle persone che vivono il disturbo mentale le cure, anche quando le rifiutano, nel rispetto della dignità e della libertà, viene stravolta. Viene stravolta immaginando una psichiatria e le sue istituzioni come difesa sociale. Una destra di fronte a una storia che cerca di costruire una “normalità larga” tende a ridurre tutte le diversità in un unico contenitore. Migranti, tossicodipendenti, giovani inquieti, persone che vivono ai margini della norma saranno “contenuti” di volta in volta con nuove proposte di inasprimenti, di restrizioni, di condanne severe, di internamenti.

So che vivi con angoscia il clima che si sta alimentando. Sinceramente credi davvero che la 180 e tutto ciò che rappresenta potrebbe imboccare dopo quarantacinque anni il sentiero della sua cancellazione?

Penso proprio di no. In questo momento così drammatico sto avvertendo la preoccupazione di molti operatori della salute mentale e anche di psichiatri accademici che rifiutano di pensare alla fine della legge 180. Certo, ci sono quelli che urlano, che chiamano in causa con stupidità e ignoranza antipsichiatrie, negazione della malattia e quante altre stupidità si possa immaginare. La legge 180 in realtà ha trasformato talmente tanto il nostro modo di vedere l’altro che credo ci vorrebbe veramente del tempo se si volesse cambiare. Il nostro paese, che si voglia o no, ha costruito ovunque servizi orientati verso il territorio. Funzionano male, sono poco finanziati, mal organizzati, ma ci sono e costruiscono di per sé una cultura e una strategia di lavoro. Devi ricordare che Norberto Bobbio ha definito la legge 180 l’unica riforma che è stata fatta nel dopoguerra, una riforma, nel vero significato della parola, che cambia radicalmente il nostro modo di vedere l’altro. Sono troppe le voci e le persone e le esperienze che si oppongono e che continueranno a lavorare perché questa storia vada avanti. 

Giunti dove siamo cosa si dovrebbe fare per evitare che quel graffito sul padiglione di San Giovanni nel “tuo” Ospedale psichiatrico a Trieste, “La libertà è terapeutica”, finisca per essere un’eredità del secolo che ci siamo lasciati alle spalle?

C’è tanto da fare e tanto è stato fatto. Bisognerebbe che tutti criticamente e consapevolmente guardassero a questi 45 anni che sono un tempo storico e si possono considerare tutti i passaggi utili e positivi che hanno innescato visioni prospettiche di futuro. Migliaia sono le persone che hanno potuto vivere e vivono oggi il loro disturbo mentale in una condizione di relazione, di vita con gli altri, di soddisfazione. Inoltre credo che dalle esperienze fatte è possibile cercare di cogliere tutti quegli aspetti operativi, culturali ed etici per riprendere una politica di salute mentale territoriale. Già 5 anni fa alcuni di noi hanno formulato un progetto di legge presentato al senato nel 2017, ripresentato con il governo successivo e oggi depositato in parlamento dall’on. Serracchiani e dal senatore Sensi. Ed è una proposta di legge che dettagliatamente cerca di dire come è possibile rimotivare i servizi, le Rems, le residenze, la formazione. Mi piacerebbe che in questo frangente venisse considerata.

Credi che dare vita a una rete nazionale di “Comitati popolari per la 180” potrebbe essere il sentiero da imboccare? E quali garanzie lo Stato dovrebbe offrire per preservare il valore di quella riforma? Insomma, è solo questione di risorse, strutture, personale, o non siamo dinanzi al bisogno di rimotivare quella “rivoluzione” anche sul fonte della cultura che può ancora sorreggerla?

Tu fai delle domande che contengono già delle belle risposte. Come probabilmente sai la fatica che alcuni di noi fanno è quella di mettere in moto questo “comitato Nazionale”. Abbiamo messo insieme un Forum Salute Mentale che nasce nel 2003 per guardare criticamente alla realizzazione della trasformazione. Esiste un Coordinamento Nazionale per la Salute Mentale con centinaia di associazioni. Cerchiamo faticosamente di far funzionare momenti di partecipazione che a me sembrano sempre più fragili e distanti. Un comitato potrebbe prendere atto di queste realtà e soprattutto della proposta di legge e darsi finalmente una linea. Con tanti altri colleghi ci siamo vergognati nel leggere l’intervista ad Andrea Filippi pubblicata in prima pagina dal Manifesto. Non entro nel merito delle enormità che questo collega sindacalista della CGIL ha potuto dire. Ma è davvero singolare l’ignoranza che traspare quando si parla di antipsichiatria e di ideologie senza neanche rendersi conto del significato delle parole che si dicono. Ci siamo vergognati nel sentire dichiarazioni che si trovano nei peggiori social.

Tra qualche giorno nel parco di San Giovanni “Conferenza Basaglia” e Copersamm promuovono un evento per ricordare Franco Rotelli, con te e pochi altri, uno degli eredi diretti di Basaglia. Non ti chiedo un ricordo di Franco. Ti chiedo se avete seminato il tanto da farci sperare che nel dopo ci sarà chi continuerà a camminare sul sentiero giusto.

Posso solo dirti che abbiamo assistito, siamo stati protagonisti di un cambiamento radicale che si è dovuto interrogare sulla natura della malattia mentale, sulla violenza delle istituzioni della psichiatria, sulle politiche nazionali e regionali e ancora sulle cure, sulle forme di vita dei pazienti con disturbo mentale, sulle opportunità reali di integrazione. Questo lavoro non ha potuto non toccare i cittadini che vivono quest’esperienza, i familiari, gli operatori e i giovani in formazione. Una semina credo ci sia stata. Ricordo i viaggi di Marco Cavallo che ancora continuano, sarà a Brescia capitale della cultura nei prossimi giorni. Marco Cavallo continua a ricordare che quella rivoluzione non è stata altro che una rivoluzione delle coscienze che ci ha permesso di interrogarci, di vedere finalmente al di là del matto pericoloso, del malato di mente, dell’internato, un soggetto, una persona, un cittadino. Di vedere il dolore, le contraddizioni, la storia. Se volessero buttare a mare questa legge sarebbe ricacciare nell’invisibilità le persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale. La legge suggerisce continuamente la strada del riconoscimento dell’altro che per prima cosa dobbiamo accogliere nella sua individualità, nella sua storia, nelle sue passioni, nei suoi sentimenti, nei suoi dolori, nei suoi fallimenti. La legge 180 invita a negoziare più che a reprimere. E la negoziazione è sempre possibile nel momento in cui io riconosco l’altro.

Con la regia di Erika Rossi hai raccontato a teatro la storia di quel vostro miracolo laico. Eravate tu e Massimo Cirri a conversare su una panchina (e a far cadere qualche lacrima a chi vi stava davanti). Si chiamava “Tra parentesi – La vera storia di un’impensabile liberazione”, capisco la fatica e l’emozione, ma il tempo è ora. Possiamo annunciare che la panchina sta per tornare?

Che dirti? Più che bello sarebbe utile. Non so quanto riuscirei a reggere la fatica. La conversazione l’abbiamo replicata per più di 50 volte, poi la pandemia. Chissà se ci saranno teatri che vogliano riproporre quella produzione. Noi ci siamo.