legareDi Alessia de Stefano

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Secondo la ricerca ProgresAcuti 2007, l’80% dei 323 SPDC italiani sono a porte chiuse e sono attrezzati per la contenzione. Una ricerca condotta dai SPDC del Lazio ha rilevato che in 21 SPDC, su 3130 ricoveri, si riportano 581 contenzioni, 297 pazienti contenuti, per 7252 ore complessive. 1 paziente su 10 è stato contenuto.

Alcuni SPDC raggiungevano un tasso del 25% (1 su 4 contenuto).

Vi sono protocolli per contenzione in ognuno dei 9 DSM del Lazio. Qualcuno si difende e parla di atto sanitario, qualcuno di stato di necessità (art. 54), qualcuno di terapia morale, educativa o pedagogica.

Vi sono 21 SPDC restraint. La contenzione meccanica continua a rimanere pratica routinaria.

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Ci sono fattori, situazioni, organizzazioni di servizi che ci permettono di predire, sicuri di non sbagliare, l’accadere della contenzione.

S’individuano, per esempio, l’età avanzata, la ridotta autonomia, la fragilità fisica. L’uso aumenta sistematicamente in relazione all’età del paziente e alla severità del quadro cognitivo. L’assenza o la frammentazione (discontinuità) dei servizi territoriali, modelli che si fondano sul farmaco, sul rischio, sulla reificazione del malato sono fattori massimamente colpevoli del ricorso alla contenzione e alle porte chiuse. E le conseguenze sono, in tutta la loro evidenza, dannose, lesive, fino al rischio di provocare la morte.

I soggetti sottoposti a contenzione per più di quattro giorni, infatti, hanno un’alta incidenza di infezioni ospedaliere e di lesioni da decubito. I danni potenziali associati all’uso scorretto e prolungato dei mezzi di contenzione si dividono in tre categorie: danni meccanici (strangolamento, asfissia da compressione della gabbia toracica, lesioni); malattie funzionali e organiche (incontinenza, infezioni, riduzione del tono e della massa muscolare, peggioramento dell’osteoporosi); danni psicosociali (stress, depressione, paura, sconforto, umiliazione). E bisogna tenere conto anche dell’uso contemporaneo degli psicofarmaci.

Per avviare un percorso di critica pratica alla porta chiusa e alla contenzione meccanica bisognerà attraversare in una sorta di ossessiva convergenza operativa i fattori strutturali,  i fattori organizzativi, i fattori clinici, i fattori formativi di un dato sistema operativo.

È stato evidenziato come l’uso delle contenzioni e dell’isolamento varia grandemente da struttura a struttura e sia difficilmente correlabile con le differenze di stato clinico dei pazienti: la diversità nelle pratiche è attribuibile piuttosto ai diversi approcci con cui nelle singole istituzioni si sceglie di legare o meno.

La responsabilità, quindi, appartiene a uno staff che ha una sua visione delle possibili scelte, a partire da quelle meno restrittive, da adottare quando il paziente diventa confuso, irritabile, impaurito e può perdere il controllo.

Esistono operatori no restraint che, pur lavorando in luoghi restraint, riescono a non legare le persone, condizionando, per una sorta di contagio, anche lo stile degli altri operatori.

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Non è da oggi che si discute sull’uso o meno della contenzione.

La storia del no restraint è lunga: nel 1796 il quacchero Tuke fonda il ritiro di York; nel 1839 John Conolly applica il no restraint al manicomio di Hanwell, che conteneva circa 1000 ammalati; nel 1952 Maxell Jones in Scozia avvia l’esperienza della Comunità Terapeutica; nel 1960 Franco Basaglia a Gorizia inizia la radicale trasformazione del manicomio in Comunità aperta che porterà alla legge 180.

Negli Anni ‘70 vengono radicalmente trasformati i manicomi e alcuni di essi, tra i più violenti, ottusi e chiusi: Nocera Superiore, Perugia, Arezzo, Reggio Emilia, Colorno.

Lo psichiatra John Conolly nel 1856 scriveva: «Se si permette che mani e piedi vengano legati, in breve si riscontrerà nel paziente un totale processo di regressione e si darà l’avvio a ogni genere di trascuratezza e tirannia», «fino a che la repressione diventerà l’abituale sostituto dell’attenzione, della pazienza, della tolleranza e della gestione corretta» (John Connolly, 1794-1866, psichiatra inglese di origine irlandese, abolì l’uso dei mezzi di contenzione dei pazienti nel manicomio di Hanwell dove aveva cominciato a lavorare nel 1839. Sulla sua esperienza pubblicò nel 1856 il testo tradotto e pubblicato in italiano col titolo Il trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi, Einaudi, Torino, 1976, con la prefazione di Agostino Pirella).

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La Corte di Cassazione, Sezione VI, con la sentenza del 20 giugno 2018 (n. 50498) stabilisce che la contenzione non è un atto medico in quanto l’attività sanitaria ha la finalità di realizzare il diritto alla salute.

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Non è possibile notificare tutti i morti per contenzione nel corso degli ultimi 40 anni. Molte morti avvengono in altri reparti ospedalieri (rianimazione, per esesmpio) dove vengono trasferite le persone che hanno subito gravi danni che poi risulteranno tempo dopo fatali. O peggio non vengono dichiarati. Di seguito solo tre eventi drammatici che si possono assumere come esemplari.

Elena Casetto, 19 anni, morta nel rogo della sua stanza di ospedale durante il ricovero nel reparto di Psichiatria dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Le indagini in corso per omicidio colposo accertano che la ragazza era legata al letto e in una stanza chiusa (2019).

Giuseppe Casu a Cagliari dopo aver trascorso sette giorni, ininterrotti, legato al letto (2006).

Franco Mastrogiovanni a Vallo della Lucania, dopo quattro giorni, 87 ore di contenzione (2009).

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Di seguito la dichiarazione di intenti riguardo la contenzione meccanica discussa durante l’incontro di Prato.

La contenzione è un residuo della cultura manicomiale.

La contenzione non è un atto terapeutico.

La contenzione è una rinuncia a capire cosa vuole comunicare una persona.

La contenzione rappresenta una violazione dei diritti fondamentali della persona (Comitato Nazionale di Bioetica).

La libertà personale è inviolabile (art. 13 della Costituzione).

Si vuole perseguire l’intento di far scomparire la contenzione meccanica.

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Con fatica, lentamente, cresce il numero dei Servizi psichiatrici di diagnosi e cura dove non si lega.

Il club Spdc no restraint è un’associazione senza scopi di lucro che si propone di svolgere attività di utilità sociale, nei confronti di terzi, nel settore della salute mentale, con particolare riferimento agli Spdc presenti negli ospedali generali per finalizzare l’operatività ai principi del no restraint, ovvero la pratica per giungere ad azzerare i mezzi di contenzione, al mantenimento delle porte aperte negli Spdc, nel rispetto della libertà e della dignità delle persone ricoverate, privilegiando tutti gli interventi relazionali e stimolando al massimo la responsabilità delle persone ricoverate nel proprio percorso di cura.

Il club, fondato nel settembre del 2006, comprende attualmente gli Spdc di Aversa, Caltagirone-Palagonia, Caltanissetta, Mantova, Merano, Novara, Trieste, Matera, Enna, Perugia, Portogruaro, Venezia, Treviso, ovvero il 5% degli Spdc italiani.

Gli Spdc in Italia che adottano un modello no restraint sono meno del 10%.

Il no restraint, ossia il no alla contenzione, si sta affermando in Italia in circa 30 reparti grazie anche alla campagna …e tu slegalo subito.

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