ROMA, 15 GEN – Il 21 aprile 1980 una delibera dell’amministrazione provinciale dichiara che ”l’ospedale psichiatrico di Trieste puo’ cessare le sue funzioni e quindi essere soppresso”. Trieste e’ la prima citta’ al mondo in cui un manicomio viene chiuso. Sempre 30 anni fa, stroncato prematuramente da un tumore al cervello, moriva Franco Basaglia, il grande psichiatra, considerato il padre della 180, la legge approvata il 13 maggio del ’78 che aveva chiuso un’epoca della psichiatria e anche della societa’ italiana. Valeria Babini, che insegna storia della psicologia nel dipartimento di Filosofia dell’Universita’ di Bologna e si era gia’ occupata in un precedente saggio di una psichiatra altrettanto scomoda e rivoluzionaria come Maria Montessori, ricostruisce momenti e personaggi chiave di questa vicenda che si era aperta in Italia con la legge n. 36 del 1904 e si era chiusa con la 180. Un’intera generazione oggi non sa cosa sia un manicomio e puo’ farselo raccontare come fosse una favola che comincia con C’era una volta. O meglio un incubo che parla di catenacci, griglie, camicie di forza, grate, elettrochoc, mezzi di costrizione da Medioevo che rendevano ‘furiosi’ i matti piu’ della malattia stessa. Quell’esperimento impopolare, come lo stesso Basaglia aveva il coraggio di definire la sua battaglia, le nuove generazioni lo conosceranno a febbraio attraverso una miniserie di Raiuno molto attesa C’era una volta la citta’ dei matti, diretta da Marco Turco e interpretata da Fabrizio Gifuni, Vittoria Puccini, Michela Cescon, prodotta dalla Ciao Ragazzi di Claudia Mori, di cui e’ prevista il 25 gennaio l’anteprima mondiale al Bif&st 2010, il Bari International Film&Tv Festival. ‘Filosofo’, Basaglia aveva rifiutato la funzione normativa e il ruolo di controllo sociale della sua scienza, la psichiatria, inseguendo la sua follia: dare vita a una nuova comunita’ di umani, dove sani e disagiati potessero vivere insieme nelle differenze e nelle tensioni. Lottava Basaglia contro un pregiudizio diffuso: la follia come alterita’ irraggiungibile e minacciosa. C’e’ una bellissima poesia di Alda Merini, scomparsa nel novembre scorso, che racconta tutto questo in La Terra Santa… Fummo lavati e sepolti/ odoravamo di incenso./ E dopo, quando amavamo ci facevano gli elettrochoc/perche’, dicevano, un pazzo/ non puo’ amare nessuno./ Ma un giorno da dentro l’avello/anch’io mi sono ridestata/e anch’io come Gesu’/ho avuto la mia resurrezione/ma non sono salita ai cieli/sono discesa all’inferno/da dove riguardo stupita/le mura di Gerico antica. Tante volte in questi 30 anni, specie in coincidenza con tragici eventi di cronaca familiare o sociale legati alla follia, si e’ detto del fallimento della legge Basaglia o meglio della sua non completa applicazione. Basaglia sapeva bene che alla terapia della liberta’ bisogna accompagnare la pedagogia della liberta’. Lo sforzo piu’ grande da compiere non era chiudere i manicomi ma lavorare all’interno della comunita’ dei ‘sani’. Liberarci dalla paura, dal fastidio, dalla ripugnanza per l’altro e il diverso non si impone per legge. Convincersi che l’altro siamo noi, le nostre paure, significa imparare a vivere nel rispetto e nell’apertura. Una pratica di democrazia, piu’ che una scelta di legge. Una scelta che necessita di controllo, verifica, autoeducazione, vigilanza. E c’e’ da riflettere su quanto, di questo grande sogno di Basaglia, si possa estendere a tanto altro della nostra societa’, a cominciare dall’integrazione degli immigrati. (ANSA).

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