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E’ l’isola che c’è, dove il pensiero del padre della 180 è diventato realtà. I centri di salute mentale sono sempre aperti. E qui si spende meno della media. La professoressa di storia: «Sento ancora le voci.  Ma la mia vita è cambiata»

Di Marco Pacini

26 Aprile 2018Franco Basaglia nel manicomio di Gorizia (1969). Foto di Berengo GardinSe uno volesse “vedere” la rivoluzione di Franco Basaglia a 40 anni dalla legge che porta il suo nome potrebbe salire fin qui, sulla schiena di Trieste, zona Ponziana-San Giacomo. Zona disagio, lontana più di quanto dica una mappa dal salotto dell’impero che l’orgoglio patrio ribattezzò piazza Unità d’Italia, dal lungomare di Barcola, da quello che resta dei caffè letterari, dalla libreria di Saba, dalle vie della belle époque in abito asburgico.

In via del Molino a vento 123 c’è una palazzina di mattoni rossi di inizio ’900, ristrutturata nel 2008, dove il viavai dei mattiscandisce le ore che non si contano più. Non serve: le porte sono aperte giorno e notte. Una sala accoglienza, un tavolo con le tazza da tè, niente liste d’attesa. Un giardino dove si fermano a parlare e a fumare pazienti, infermieri, assistenti sociali. Al piano di sopra sei camere con bagno per i “ricoveri”, al momento vuote. Sono tutti fuori i matti .

Valentina, una giovane donna con «disturbi seri», occupava uno di quei letti fino a qualche giorno fa. Poi se ne è andata e nessuno l’ha trattenuta. Adesso sta parlando con lo psichiatra che dirige il centro, Matteo Impagnatiello. «Vuole stare ancora un po’ qui, mi ha chiesto di tornare, il posto c’è. Le persone qui ci devono stare volontariamente», dice il medico dopo averla congedata.
Le persone. Non è frequente sentir pronunciare la parola pazienti, men che meno malati, dai medici e dagli operatori della salute mentale, a Trieste. E ti sembra un eccesso di politicamente corretto finché, dopo qualche ora trascorsa tra le stanze dei Centri di salute mentale (oltre a questo ci sono altri tre presidi territoriali a Trieste) o lungo le vie del parco di San Giovanni, tra le palazzine di fine 800 che costituivano la cittadella-manicomio chiusa da Basaglia, ti accorgi che è spesso difficile riuscire riconoscere in un crocchio di persone i matti dai normali .

All’ultimo piano della palazzina rossa c’è un’ampia mansarda con stanze comuni usate anche dalle associazioni del quartiere. «Ci sono venuti anche i bambini del rione per qualche attività», racconta lo psicologo del “Csm distretto 2” Oscar Dionis, che si occupa soprattutto di disagio degli adolescenti e tiene i contatti con la neuropsichiatria infantile dell’ospedale pediatrico Burlo-Garofalo, poco distante. «È attraverso questi luoghi – aggiunge Impagnatiello – queste stanze usate da tutti, che si rompe lo stigma». Come? La parola è “negoziazione”, spiega lo psichiatra. Con i pazienti in primo luogo, «ma anche con la gente del quartiere, i negozianti, i residenti del complesso di edilizia popolare qui di fronte. Tutti quelli che vivono attorno a questo luogo».

Dal piano di sotto sale la voce di una sofferenza. Forte, rivendicativa. E nei volti di chi va e viene la sofferenza la leggi anche senza sentirla. I matti non scompaiono. Vivono.

Quattro medici, due psicologi, diciotto infermieri, un assistente sociale, otto operatori. Le persone che bussano al Csm in cerca di aiuto o solo di una parola, sono 120/150 al giorno, il 7 per cento stranieri. I numeri di via del Molino a vento sono analoghi a quelli di quasi tutti i Csm del Friuli Venezia Giulia, dove la “180”, con qualche resistenza residua e non senza difficoltà nei quattro decenni trascorsi dalla sua approvazione, ha dimostrato che tutto quello che era stato pensato nella lunga gestazione della rivoluzione è “praticamente vero”, secondo l’espressione forse più cara (e più ripetuta) a Franco Basaglia.

Prima di dirigerci verso l’ex manicomio, dove la psichiatria triestina ha il suo quartier generale, è necessario cercare chi naviga in direzione contraria, o almeno nutre dei dubbi sul “praticamente vero”. Un buon candidato potrebbe essere il sindaco Roberto Dipiazza, che sta armando i vigili urbani con le pistole e guida una giunta con tratti marcatamente di destra securitaria. Il sindaco di una città che va giustamente fiera della sua regata velica (tanto che arrivando dalla costiera o dal Carso ti accoglie il cartello “Città della Barcolana”, non di Svevo, Saba… o Basaglia), ma che del quarantesimo anniversario della rivoluzione basagliana, dell’ «unica vera riforma fatta in Italia» (Norberto Bobbio, 1985), si è completamente dimenticata. «Ah sì… Già, quarant’anni… quando?», sono infatti le prime parole di Dipiazza. Il prossimo 13 maggio, sindaco…

Ma se si cerca in Dipiazza un nemico della “180”, pronto a sommergerti con una serie di numeri che traducono in pericolosità tutta quella libertà dei matti , no, non lo si trova. E non solo perché quei numeri non esistono. Soprattutto perché qui la rivoluzione è patrimonio largamente condiviso, quasi intoccabile. «Sì, è vero, all’inizio qualche problema c’è stato… ricordo quel ragazzo uscito dal manicomio che uccise i genitori tanto tempo fa. Ma la legge Basaglia è stata una conquista di civiltà da cui non si può tornare indietro». Nelle parole del sindaco di Trieste c’è anche l’impronta indelebile di ricordi personali. «Da ragazzino abitavo in via Verga, che confina con l’ex manicomio. Con alcuni amici avevamo fatto un buco dove c’era la rete. Volevamo andare oltre quel muro che separava il parco dalla città. Siamo entrati più volte, sbirciavamo nascosti da una siepe. E quello che vedevamo e sentivamo era la fine del mondo. Persone che urlavano, che venivano lavate tutte insieme dentro le gabbie…». Già, il manicomio. «Forse non si può dire lager, ma insomma…».

Nel gennaio del 1977, in uno dei vecchi edifici di questo manicomio, città nella città che sale sulle pendici del Carso, Franco Basaglia annunciò la fine del percorso iniziato a Gorizia nel ’61, proseguito a Parma, e finalmente realizzato a Trieste dopo quei due tentativi naufragati sui pregiudizi, sulla psichiatria tradizionale, farmacologica e contenitiva, ancorata al dogma messo nero su bianco dalla legge del 1904: il matto è pericoloso. «Chiuderemo il manicomio di Trieste entro un anno», scandì lo psichiatra veneziano davanti ai giornalisti e ai politici increduli. Lo smantellamento del manicomio iniziò in realtà nel 1980. Ma un anno dopo lo strappo di Basaglia fu varata la “sua” legge, anche se negli archivi parlamentari porta un altro nome. Il relatore era Bruno Orsini, democristiano. Come il giovane presidente della Provincia di Trieste di allora, Michele Zanetti. Fu lui ad aprire le porte di Trieste a Franco Basaglia, l’eretico, il radicale, il “filosofo”, per la maggior parte dei suoi colleghi.

Ci ha scritto un libro Zanetti. Ne sta scrivendo un altro, autobiografico, «perché è la cosa più importante che ho fatto nella mia vita». Nessuna enfasi però. Oggi, la risposta alla domanda “perché lo fece?” suona più burocratica, che orgogliosa o compiaciuta. «Perché Basaglia era il migliore, abbiamo fatto un concorso e abbiamo preso il migliore. Tutto qui». In consiglio provinciale il Pci votò contro l’arrivo del “filosofo” dei matti. Poi capì, «e dall’opposizione votava tutte le delibere che adottavamo per favorire il lavoro di Basaglia», ricorda Zanetti.

Eccolo il parco di San Giovanni, l’ex manicomio. Ci si arriva dall’alto imboccando via Edoardo Weiss, lo psicoanalista ebreo triestino che portò il pensiero di Freud in Italia e sfuggì all’Olocausto. Su uno degli edifici del vecchio manicomio la scritta è ancora leggibile: “La libertà è terapeutica”, il più basagliano degli slogan, coniato in realtà da Ugo Guarino. Lungo i vialetti vanno e vengono persone indaffarate, furgoncini carichi di piante e attrezzi da giardinaggio. Si sta preparando “Horti tergestini”, la rassegna di piante, fiori e cose naturali che ogni anno richiama qui migliaia di persone.

E migliaia, in questi quarant’anni, sono stati anche gli psichiatri, gli operatori, i politici, venuti da tutto il mondo a studiare il modello Trieste, l’utopia realizzata . Dell’ultima delegazione, oltre agli psichiatri e agli operatori del mental health , facevano parte anche un giudice e uno sceriffo. Sono venuti da Los Angeles. Poi il Senato californiano ha incontrato via Skype il direttore del Dipartimento di salute mentale, Roberto Mezzina, e la sua équipe. E il progetto sta partendo: esportare Trieste in California. «Nella delegazione c’era anche Allen Frances, padre del Dsm 4 (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentale ndr) e uno dei padri della psichiatria biologica. Insomma non certo un sostenitore del nostro lavoro… Ha avuto una folgorazione», racconta Mezzina, «e una volta tornato in California ha scritto sull’Huffington post che “se Los Angeles è il peggior posto del mondo per ammalarsi, Trieste è il migliore”».

Alessandro Norbedo e Roberto Colapietro, coordinatore e infermiere psichiatrico, entrano nell’ufficio di Mezzina. Sono da poco tornati dall’Honduras, che ha bussato a Trieste per cercare un aiuto nella gestione dei moltissimi detenuti con disturbi mentali in uno dei paesi più violenti del mondo. «Sempre di più… I contatti con chi viene qui per capire come lavoriamo e chi ci chiede di mandare operatori nelle loro strutture si sono quadruplicati negli ultimi 15 anni», spiega il direttore del Dipartimento, «ormai abbiamo rapporti con 40 paesi».

Nella palazzina della direzione, di fronte alla quale campeggia la scultura di Marco Cavallo, icona della rivoluzione basagliana, si discute, si preparano gli incontri di “Articolo 32”, il gruppo di protagonismo che con quel nome sottolinea ancora una volta il legame strettissimo della rivoluzione con la Costituzione. Izabel Marin, brasiliana arrivata a Trieste sull’onda dell’eredità che Basaglia ha lasciato in quel paese, Pietro Degrassi e Adriano Germek, spiegano l’attività di “Articolo 32” di cui sono animatori. Adriano è il matto dei tre: a San Giovanni non c’è un gruppo, un’associazione, una cooperativa, che non veda protagoniste le persone, al di là dello steccato salute/malattia. Forse perché “impazzire si può”, come si intitola il ciclo di convegni che da sei anni il gruppo organizza. Oltre al corso di “tecniche di supporto tra i Pari”. Dove i Pari sì, sono i pazienti. Anche con disturbi gravi.

Come la storica Silvia Bon, che il suo contributo di supporto dapari lo offre da tempo anche al di fuori di San Giovanni. Ti guarda e ti anticipa la professoressa. Come se leggesse nello sguardo la curiosità del visitatore “normale”, che si aggira nell’isola che non c’era e ora c’è, “praticamente vera”.

«Sento le voci…», dice la storica con il suo ultimo libro sull’esodo degli istriani e dalmati in mano. Lo dice guardandoti dritto negli occhi. «Schizofrenia… Sa, parlare di schizofrenia non è mai stato facile. Lo era molto meno negli anni Ottanta, quando è iniziata questa lunga esperienza di sofferenza e passavo da diversi approcci terapeutici, basati sui farmaci. Poi nel ’92 sono stata presa in carico dal Csm di Barcola, ho cominciato a sentirmi meglio, una persona. Non si tratta solo di sintomi, quelli si possono ripetere, e si ripetono. Prendo ancora i farmaci, ma sono cambiata. Ho visto persone come me travolte dalla sofferenza riaprirsi al sorriso, ecco. Faccio parte del gruppo “Uditori di voci”… parlare di schizofrenia non è facile, ma quando lo puoi condividere lo è un po’ di più».

La «presa in carico» di cui parla Silvia Bon è il primo passo della 180 “applicata” che con l’aiuto di Roberto Mezzina si può riassumere così: 1) ingresso a bassa soglia: c’è sempre un Csm non lontano da casa, facile da contattare, aperto 24 ore sue 24, in grado di fornire una risposta rapida; 2) si parte dalla persona più che dalla malattia, viene attivato un processo personalizzato che si può articolare con altre risorse, non solo chimiche, un progetto di vita; 3) il progetto ha anche un contenuto economico, coinvolgendo cooperative per esempio, e riguarda la casa, il lavoro, la socialità. Non solo clinica. Effetto collaterale: il Fvg spende meno della media nazionale per la salute mentale in rapporto alla spesa sanitaria complessiva. «Se tu non spendi per il privato e la residenzialità psichiatrica passiva questo è il risultato», conclude il direttore del dipartimento sfogliando gli ultimi bilanci.

Ma cosa è rimasto del vecchio manicomio? «Nulla. Per le emergenze ci sono i reparti di diagnosi e cura psichiatrica all’interno degli ospedali. Da noi ci sono 6 posti letto, per lo più vuoti», risponde Mezzina. E di questo manicomio? Sorridono gli psichiatri e gli operatori del basaglismo realizzato . Qui il manicomio era un lontano ricordo anche quando alcune casette di San Giovanni erano abitate dagli ultimi ex internati che non avevano ancora trovato una sistemazione fuori. Gli ultimi tre hanno lasciato la casetta due anni fa e ora abitano al piano terra di una palazzina a Opicina, il pezzo di Trieste a maggioranza slovena che sta sull’altopiano. Uno dei tre è l’ultima lobotomizzata in Italia ancora in vita. Testimone quasi muta di un orrore non lontano che si chiamava psichiatria.

Nel breve viaggio a ritroso alla ricerca delle radici di una rivoluzione nel suo quarantennale, l’ultima tappa è Gorizia, dove tutto iniziò nel 1961 attirando l’attenzione della cultura europea che “covava” il ’68. E si chiuse drammaticamente proprio nel ’68 con l’«incidente»: il paziente in permesso giornaliero che tornò a casa e uccise la moglie.

Se il Comune di Trieste si è distratto sull’anniversario, a Gorizia non si trova nemmeno un cartello che indichi la strada per il “Parco Basaglia”, l’area verde tra l’attuale ospedale e l’ex manicomio, dove nel ’61 lo psichiatra veneziano trovò 600 pazienti che vivevano come in un lager. Compresi gli alcolisti e gli epilettici.
Qui non sembra esserci la stessa condivisione, lo stesso orgoglio per l’utopia realizzata che anima la quasi totalità degli operatori triestini. O almeno non è questo il primo impatto varcando la soglia del Dsm nel cuore dell’ex manicomio, a qualche metro dal confine con la Slovenia, il “muretto di Gorizia” ai tempi di Basaglia.
Marco Cernic è l’infermiere psichiatrico con maggiore anzianità. «Sono qui dal ’77». Basaglia? «Troppo Basaglia, non abbiamo sentito parlare d’altro che di Basaglia in tutti questi anni, secondo me c’è molta politica», scandisce nell’atrio, accanto alla figura in cartone a grandezza quasi naturale dello psichiatra della “180”. Ma dev’essere un’eccezione, perché il funzionamento della psichiatria goriziana diretta da Marco Bertoli, la sua filosofia, non hanno nulla di diverso da quella triestina.

Molto da quella di gran parte del resto d’Italia, dove la contenzione per esempio, come ricorda Roberto Mezzina «è ancora praticata in modo massiccio». E come conferma Peppe Dell’Acqua, che ha preceduto Mezzina nella direzione della psichiatria triestina ed è una figura di riferimento non solo nazionale della rivoluzione. Una rivoluzione ancora incompiuta al di fuori dell’ Isola che c’è . «Perché le Regioni hanno proceduto con modalità e velocità diverse», spiega Dell’Acqua. «Non esiste omogeneità, purtroppo. Ci sono aree in cui sono nate esperienze straordinarie grazie ad associazioni e coop sociali. Ma in molte Regioni la psichiatria non si è trasformata. Dalla Lombardia alla Sicilia, le forme organizzative sono spesso tali per cui le persone non accedono a tutto ciò che la legge consente. Negli ospedali ci sono ancora reparti di Diagnosi e cura a porte chiuse, dove si applica la contenzione. Solo in due o tre casi su dieci la contenzione non si fa più».
Ma non è solo una questione di modello organizzativo; si tratta piuttosto dell’assunzione di un pensiero, questo manca. E non è poco, «visto che quel pensiero, quel modello teorico», conclude Dell’Acqua, «non è altro che l’ingresso nel diritto di tutti i cittadini italiani»

Questo piccolo, parziale, viaggio nella “180 realizzata” non ha una fine. Ma ha avuto un inizio prima di salire in via del Molino a vento. In un caffè-libreria di Trieste dietro Ponterosso, il rettangolo di mare che si infila in città.
Franco Rotelli arrivò a Trieste da Parma insieme a Basaglia, nel 1971. Ne raccolse l’eredità nel 1979, quando il padre della “180” fu chiamato a Roma, un anno prima della morte. Il resto della storia è noto: il basaglismo realizzato a Trieste è gran parte opera sua, soprattutto nei primi, difficili, anni della riforma. «Eravamo una piccola minoranza all’interno di un clima culturale particolare», ricorda Rotelli sorseggiando un’acqua tonica. Ma anche in Europa si respirava lo stesso clima, soprattutto in Francia… Deleuze-Guattari, Foucault, Sartre… «Già, e in Francia ci sono ancora 30-40 mila persone nei manicomi…». Appunto: perché in Italia no? «Per la peculiarità del pensiero basagliano: azione e determinazione». E lo chiamavano “il filosofo”… «Era un uomo di pensiero. Ma con la forza di immaginare il cambiamento delle istituzioni. È stata una rivoluzione politica, non solo intellettuale, culturale. Nel suo testo più noto, l’“Istituzione negata”, Basaglia mette al centro il funzionamento delle istituzioni». Avvertivate i potenziali pericoli? «Ne eravamo consapevoli. Ma ridurre la pericolosità nei confronti dei matti riduceva la loro, riduceva la violenza complessiva».

Rotelli torna quasi ogni giorno a San Giovanni, nell’ex manicomio che ha chiuso. Ci andrà anche oggi. Sorseggia, si ferma. C’è un’ultima cosa che vuole dire, fare. «Un’inchiesta, vorrei fare un’inchiesta. Andare in giro e chiedere alla gente: capisco che la “180” sia considerata una delle più grandi conquiste culturali del ’900 per noi psichiatri, ma per voi…?». Forse perché “impazzire si può”, azzardiamo. «Sì, forse perché il rischio della sofferenza, di diventare matti , c’è in tutti noi. E vorremmo restare persone, nella sofferenza».

Articolo da L’Espresso –>http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/04/25/news/malattia-mentale-viaggio-nell-isola-che-c-e-1.320982

E’ l’isola che c’è, dove il pensiero del padre della 180 è diventato realtà. I centri di salute mentale sono sempre aperti. E qui si spende meno della media. La professoressa di storia: «Sento ancora le voci.  Ma la mia vita è cambiata»

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