ROMA (16 gennaio) – “Vorrei che di me poi tanti/si ricordassero/come una festa,/come un ballo,/un campanile/che suona di domenica”. Cento anni fa nasceva Mario Tobino. Egli s’occupò di tante cose, soprattutto di tante persone. Fu poeta, scrittore, medico. La prima edizione einaudiana de La brace dei Biassoli del 1956 reca con sé, all’interno, un foglietto. Su di esso foto dell’autore, contenuto dello scritto e nota biografica sembrano accompagnare i destini del libro. E’ quel foglietto una sorta di “santino” e lo sguardo dello scrittore è in una quiete favorevole, confortata pure da un lievissimo sorriso. Altra foto nella ristampa mondadoriana de Il figlio del farmacista del 1980; qui Tobino ci appare come un bambino macchiato dal tempo: gli anni sono tutti lì ma quel suo sguardo, profondo ed esposto ancora allo stupore, pare ancora inesausto di bontà. Siamo assaliti dai ricordi: quella mutazione buona che pure osservammo in Sbarbaro anche se in Tobino l’affiorare d’un senso e d’un fine nelle vicende umane ha più consistenza. Si è parlato di due libri. Ne Il figlio del farmacista del 1942, c’è già tutto rappresentato il Tobino che verrà: “Ogni cosa che matura è dolore”. Ragazzo d’osservazione prodigiosa, sognatore e giusto, egli s’accende iroso quando qualche disarmonia plana sulla scena del mondo e gli accade dinanzi. Artefice, pure, di pensieri imbevuti d’assoluto. Ne La brace dei Biassoli l’affresco alla madre avviene come risarcimento. Ma liricamente già l’aveva avvertita, in una poesia della raccolta L’asso di picche (1955): “Avrei voluto essere ricco e forte/ perché ti sentissi con me protetta,/ ero forte solo di pensieri,/ ricco solo d’amore,/ avevo potere di cantare gli accesi sentimenti…” Maria, l’ultima della famiglia dei Biassoli, la madre dello scrittore, torna nella sua Vezzano Ligure a morire. Tobino le è accanto e a fatica controlla la vastità del sentimento. Parte da lontano, come si dice, affrescando affetti dissolti, e poi gesti, sorrisi di tutti i componenti di quella famiglia. I silenzi di stanze, della piazza, della chiesa, di ritagli di natura. Il nome di Tobino rimane legato soprattutto ad una letteratura che racconta del disagio psichico. In qualità di psichiatra – fu primario e anche direttore del reparto femminile dell’ospedale psichiatrico di Maggiano, vicino Lucca – visse e respirò la pazzia, “la più misteriosa dea che esista al mondo”. Da questa attenzione (lo psichiatra s’andava a poggiare su un animo poetico), da questa vicinanza con i “matti”, da questa delicatezza verso l’umanità ecco Le libere donne di Magliano (1953) mosaico compatto, come è stato definito, drammatico flusso liberatorio di un eros barbarico (come si distillò Tobino contro il nuovo! “Ora c’è la legge 180, e la applichino, dimostrino, annullino la follia. Del resto i miei giorni, sono sempre più brevi”). E poi il tragicomico Per le antiche scale (1972) dove, in un racconto, tale dottor Anselmo pensa (sogna?) che dal timbro della voce d’una malata – a seconda che proprio il timbro s’ottunda o meno – possa esservi la possibilità di salvare la donna. E non è anche questo l’ennesimo grido d’amore? Viareggio, città dove lo scrittore nacque, assurge a luogo dello spirito – dimensione di quiete, fuga, mistero, amore, memoria – e il mare, il porto, le navi, l’umanità che lì s’aduna, saranno sempre un orizzonte marcato nelle opere di Tobino e non soltanto nel libro di racconti Sulla spiaggia e di là dal molo (1966). Soltanto un poeta avrebbe potuto narrare la diversità del vento ghibli in ravvicinate regioni africane: “Nella Sirtica il ghibli è una sognante ragnatela che si adagia e dorme per ogni dove; in Tripolitania è violaceo e orientalmente sensuale; in Marmarica infinite pietruzze con ira si percuoton su ogni cosa e tra loro (…)”. E questo in un racconto della raccolta Il deserto della Libia (1952). Notevole anche la produzione poetica di Tobino con Poesie (1934); Amicizia (1939); Veleno e Amore (1942); L’asso di picche (1955). Veniamo a Dante, al magma profondo che sempre ribollì in Tobino. Ecco la biografia Biondo era e bello (1974), atto d’amore per il Poeta, lavoro a cui Tobino si spese per moltissimi anni. Si tratta di ventisei capitoli di chiarezza e profondità, nel tentativo di portare il Padre della nostra lingua ovunque, accessibile ai più. “Lo hanno votato (Dante) per il volgare perché in volgare esprime ciò che i popolani sentono di avere nell’anima. Sono rapiti di udire la descrizione di ogni fatto, di ogni ragione, con parole usuali ma divenute all’improvviso potenti, insostituibili”. Dal ’400 in avanti, in ogni preghiera c’è un Piero della Francesca e ognuno di noi, prima di iniziare l’orazione, avvista gli affreschi. E se un poeta si misura con un Padre irraggiungibile, dobbiamo apprezzarne il gesto, e sussurrargli “Grazie!” per aver potuto visitare anche noi quei luoghi e respirare (è proprio il caso di dirlo) il respiro di Dante. Grande Tobino. Grazie Tobino.

di Fernando Acitelli

(da: Il Messaggero.it)

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