di Daniela Mallardi

“Se tu mi scrivi io ti scriverò. Se tu mi dimentichi io ti dimenticherò, fino al giorno del tuo ritorno.”

(C. ÉVORA, Sodade, in Miss Perfumado, 1992)

Torno da Trieste. Erano anni che avevo idea di andarci ma forse quasi da uno ci avevo incominciato a

pensare seriamente, come a tessere un desiderio, attivare un bagliore, accendere un lumino di cera in

bilico sulla scelta di un Intercity piuttosto che di un Italo per andare laddove Basaglia tolse all’asilo

coatto aggiungendo solo secchiate di soggettività fatta di sangue, rosso, come rosse le fragole che danno

nome al Bar all’interno dell’ex manicomio.

Oggi vicino al Posto delle Fragole – questo è il nome del Bar come l’omonima Cooperativa Sociale

costituita nel 1979 – c’è un roseto, di grande bellezza, che sfida il Carso nella sua rocciosa presenza. La

malattia mentale forse è un po’; questo: pugni di calcare stratificati di potente altezza che virano al grigio

ma non del tutto, che se li vedi bene sono bianchi, l’essenza nuda sporcata da una sofferenza bastarda e

perniciosa ma che inaspettatamente viene a essere osservata, dal basso, da un roseto.

Ad aprile qui – penso mentre sono dentro la valle delle rose – ad aprile qui sarà tutto uno sbocciare di

fiori, e no, non mi va di dire petaloso. Mi va piuttosto di seguire i termini coniati dai pazienti, un

groviglio di rovi semantici da smistare, da ascoltare, alle volte in insalata (insalata di parole, dicono i

manuali), un’insalata mai scondita e alle volte così piena di aceto da cuocersi senza fuoco, per non

chiamare in causa nessuna Accademia della Crusca, ma piuttosto definire la parola, essa stessa, fatta di

crusca, fibre fitte con pochi grassi.

E’ così che faccio andare a ruota libera la penna sul foglio, adesso in questo bar tutto di vetri. Se mi

affaccio a destra è fisso l’omino rosso sul display del semaforo per pedoni, una metafora dell’istituzione

psichiatrica con la quale mi sono interfacciata fino ad ora, dove la cura è stata, ai miei occhi di giovane

professionista, possibile e piena d’ossigeno ad opera dei singoli e non di una responsabilità collettiva,

una mono- responsabilità che si fa preziosa per pochi e per poco. Se non ci si interroga tra pari (ma

anche dispari, mezzi e mezzi, capovolti e dritti, rovesci, palmi e dorsi) dove si va? Dove il senso di

un’etica? Che metodologia alle volte guida nei gruppi di lavoro istituzionali?

Nei gruppi che ho visto, ho talvolta osservato la guerra come tra parrocchie limitrofe nell’ansia

dell’accentramento di potere verticale che sposta l’accento orizzontale dal “come curo io nessuno” alla

questione aperta, e mai chiudibile, “come posso curare io?”.

“Non è l’abito che lei indossa che la rende una psicoterapeuta, ma è lei stessa che si fa psicoterapeuta, la

sua storia” – me lo disse il mio di psicoterapeuta in una seduta mentre con dolcezza mi conduceva a

sciogliere i dogmi che, declinati a livelli più personali, avevo usato per anni per proteggermi e non

espormi alla paura e al rischio costante con l’altro.

A cosa mi sono esposta in queste giornate triestine?

Da Roma, ho portato un piccolo trolley e tutta me stessa perché non ho – ahimè – altro modo di stare

nelle cose. Forse per questo ho deciso di aderire, partigianamente, alla campagna E tu slegalo subito e ho

deciso di seguirla da Roma nel suo debutto al Senato fino a Trieste nel suo pubblico, digiuno di salute

mentale, composto di giovani, prevalentemente sotto i vent’anni e di pochi addetti ai lavori dove far

circolare il linguaggio della comprensibilità dell’etica.

Perché legare non è etico e qui la morale non c’entra e se c’entra, c’entra poco. Legare è qualcosa che va

aldilà dell’orrorifico, horror vacui: l’orrore di un vuoto etico che si fa banale. La Arendt, talvolta

saccheggiata e banalizzata essa stessa, proponeva un modello di lucidità critica nella lettura degli eventi,

del cercare una dolorosa oggettività e nel sottolineare le verità scomode. E il male della contenzione è

banale non tanto quando resta tranquillamente relegato ai responsabili della sua perpetuazione, quanto

quando non viene scomodato nella sua realtà, per pigrizia mentale, inattività sociale e politica, nella

delega della mediocrità. L’etica rientrerebbe dunque nel ritorno a una rimessa in atto di qualcosa che

superi le fasce, sporche e usate, a più riprese su più polsi, a più caviglie. Ascensori di stoffa che

strappano, piano per piano, la dignità. Una coscienza etica su questo non piega la libertà all’imposizione

distruttiva, ma la rinforza nell’affermazione del bene – ed è per questo che forse sono venuta fin qui a

difendere le mie idee.

Legare è un assunto inconsistente, non classificabile, non definibile, quindi non esistente. Non esiste

legare e lo ricorda una signora bionda, di circa sessant’anni dalla collana nera su pullover bianco, che dal

pubblico, testarda, nell’aula dell’università triestina, vuol dire la sua. Viene azzittita dalla platea. Porta

rispetto, alcuni le dicono. Che rispetto e rispetto, io che di rispetto ne so, dice lei. Dagli oratori,

percepisco all’inizio come un imbarazzo. E’ tosta essere interrotti di continuo e la soluzione, allora, è

invitarla sul palco. Che se stiamo parlando di non contenere, allora, non bisogna mettere fasce manco

alla sua di parola. Che si possono mettere i confini senza mettere fasce, si può parlare senza vomitare, si

può tagliare senza macellare. Non ci deve essere ogni volta l’esagerazione, per ricordarci che esistiamo,

ci sono sfumature intermedie nelle quali ricamare farfalle di seta, barche di carta da soffiare sull’acqua,

bolle di sapone da mettere in barattoli di vetro.

“Siete pieni di stigmate, ogni giorno le espiate: dovete essere fieri di portarle e orgogliosi di toglierle” –

sottolinea, come a dire che ci si possa portare tutto il bello e tutto il brutto, questo dice, e mi sembra

importante, tanto che me lo segno sul mio taccuino viola. Per me la signora non è molesta, anche se il

brusio la inchioderebbe nella cornice del “mandatela via, ma questa che vuole”, eppure questa pretende

di essere ascoltata, soffre e non mi pare sia sconclusionata. Sconclusionato, alle volte, è parlare di buone

prassi senza considerare le persone, ma le prassi senza persone sono cumuli di macerie, tanto le macerie

qui possono essere soffiate via dalla bora. E il vento sa essere buon amico per le giornate stanche.

Trieste è una somma di quadri di De Chirico con la sua atmosfera sospesa, “Trieste ha una scontrosa

grazia” poetizzava Saba, con il suo rigore architettonico, la Mitteleuropa, edifici metodici, ossessivi

quasi, a reiterare le geometrie come il sintomo, e in quella ripetizione assurda, coartata, sentire che il

disordine è dietro l’angolo di un vecchio villino color giallo circondato da un giardino a pochi passi dal

mare. E’ un Csm, sfida le leghe senza toccare le ventimila e ci vuol poco a raggiungerlo. Ho capito che

Trieste è tutta linee, dritte, simulazione di autostrade austroungariche, io che sono abituata a Roma che

è un cuore al collasso.

Il Csm non è un Csm, non perlomeno come quelli che ho visto fino a oggi. C’è l’accoglienza del luogo,

meno istituzionalizzato, c’è un bel pavimento per terra, porte scorrevoli, quadri e anche se prevale il

bianco latte, sa essere umano. Ci sono dei letti perché qui i Csm sono aperti 24 ore, i letti ci sono

perché i pazienti possono permettersi di stare qui quando non si sentono bene, senza ricoverarsi per

forza nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura. Si fanno gruppi, si fa psicoterapia, si apparecchia per

i pasti, ma ciò che colpisce qui è l’assetto mentale, il fatto che tutti accolgono con straordinaria

naturalezza, e non bisogna firmare nessun foglio per visitare lo spazio, semplicemente esso è aperto.

C’è un assistente sociale giapponese che capisce poco ma sorride molto venuta fin qui per apprendere.

“Qui passione tanta, Giappone no passione”. Le chiedo del fenomeno degli hikikomori, annuisce ma

nulla più. Peccato, volevo che me ne parlasse un po’. C’è un’infermiera allieva svizzera, dai lineamenti

botticelliani, anche lei planata qui per imparare. Dice che a Mendrisio sono rigidi con i pazienti e non li

fanno uscire dalle strutture. Che qui c'è il ribaltamento. Escono tutti, pazienti e curanti, che in un

capillare lavoro diviso su quattro quadranti della città, raggiungono i pazienti a casa. Non sono

interventi domiciliari, quelli tout court come li intendo io, no, sono piuttosto piccoli tentacoli di cura,

piccole ventose di gomma per non far sentire abbandonato nessuno.

Nella riunione delle 14, lo psicologo parla di una paziente. Seguo poco il suo discorso, confesso che ho

un pò di sonno, ho viaggiato nove ore il giorno prima, ma mi colpisce il termine pigiama. Sarà quello

che si metteranno addosso tutti i curanti, a cominciare dallo psicologo stesso, per passare agli

infermieri, ai tirocinanti, una notte per uno per andare da una paziente grave. Insomma, sono loro che

vanno a fare il ricovero dalla paziente. Anche a titolo gratuito. Non è la paziente che si va a prendere il

ricovero, no, è il ricovero che va da lei. Sostenere, subs- tenere, tenere in alto, che i pazienti alle volte

rischiano di sfracellarsi a terra.

Mi viene in mente un ricordo d’infanzia. Potevo avere cinque, sei anni forse, un’amaca allestita tra un

ciliegio e un altro nel giardino di casa, affondo i miei piccoli piedi nudi nella terra rossa e mi metto

sull’amaca per oscillare a pancia in su. Mi sento come sospesa, un senso di vertigine simile alla nausea

ma che non è nausea, piuttosto eccitazione di sfidare il vuoto. Era quello il mio modo di allontanarmi

da mia madre che distava da lì a cinque metri ma il fatto di averla vicina mi faceva sentire sicura. Atomi

di autonomia vigilata. La paziente della notte come me, affonderà i suoi piedi nelle paure, ma lo farà nel

suo letto, nella sua dimensione. Perché quando si sta male, ma tanto male, si sta male ovunque, ma

forse, a casa propria, un pò meno.

Ripenso al mio tirocinio nelle strutture romane, ripenso alle urla di una psicoterapeuta che urlò “sei

malatoooo” a un pover’uomo che si era permesso di sentire le voci. Con quattro o, quattro piccoli zeri

tatuati nella parola malato, come zavorra per ricordargli che la malattia, se urlata, fa più rumore. Come

se lui non ne sentisse già abbastanza, di rumore. E poi, quando mi si vuol dire che è il matto a essere

pericoloso socialmente, mi viene in mente questa terapeuta, e quelli come lei, a essere pericolosa con

quelle assurde urla che di sociale avevano solo la noia, il senso di un mandato professionale finito.

Malato è il desiderio quando si fa grigio, quando non luccica più.

“Ma se tendi a vedere solo i luccichii, poi pensi che qui tutto sia oro” – mi dice il medico psichiatra che

mi accompagna in questo giro, un Virgilio quasi nordico d'aspetto ma che dall’accento rivela la sua

natura popolar-romana, l’oratore che scopro essere amico di colui che mi ha accompagnato in silenzio

per diversi anni, lo psicoterapeuta dell’abito, quello della distruzione dei dogmi e col quale psichiatra mi

commuovo, perché si fanno 460 km per scoprire comunanze vicinanze, relazioni umane che si fanno

danza.

“Non luccica l’oro perché qui un paziente psichiatrico è folle come in tutta Italia” – e me lo dice

un’infermiera del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura presso il quale, dal villino giallo, sono migrata.

Mi dà l’idea di una tosta, questa infermiera, mi piace così, a pelle. Non luccica l’oro, anche qui

contengono, mi spiega, ma in un altro modo. Senza fasce, insomma. Ma sento così alta l’eredità di

Basaglia che questi operatori si portano dentro, che mi pare di riconoscerlo – Basaglia intendo – in tutti

questi visi, in questo accento così lontano dal mio, che sono nata dieci regioni più in basso da questa

che è a un passo dalla Slovenia; è quasi commovente tutta questa eredità o forse deliro, e può essere

anche, tanto che all’infermiera tosta faccio quasi tenerezza mentre le riporto il mio stupore rispetto a ciò

che guardo, che è vero che anche qui ci sono le brutture, che i demoni dal liquido psicotico si fanno

pozzanghera comunque, ma anche se non è oro, è un bell’argento, che almeno dalle finestre il mondo

non si vede a scacchi perché le grate non ci sono mica.

E’ talmente alto l’esempio di Basaglia che se voli anche un metro sotto temi di avere qualche difetto

nelle ali. Volatili in crisi. Qui la gente che cura rischia di spendersi ai limiti del sacrificio, tanta è la

dedizione alla salute mentale – me la butta lì lo psichiatra che mi accompagna nel mio psycho tour.

Sacrificio, ripeto tra me e me. Terribile, continuo a ripetere tra me e me, forse perché è la stessa fine che

temo di fare io.

Lo stesso gioco della sofferenza psichiatrica, l’aut aut, la logica escludente, sterile come spermatozoi

avvizziti, e non quella feconda, genitoriale dell’et et, dell’inclusione. Ci si può portare un sacco di roba

appresso, senza per forza rinunciare, e ora me lo posso dire dopo che ho fatto per trent’anni il gioco

dell’aut aut, che, diciamolo, è più facile, anche se alla lunga si cristallizza in una rigidità senza senso.

Ma qualcosa bisogna pur lasciare di tutto questo, che se non si lascia qualche pezzetto dal peso delle

spalle, si rischia di farsi male.

Mi lascio le parole: stigma, malattia, Dsm-5 (non mi piaceva il quarto figuriamoci il quinto), legale,

petaloso, contenzione.

Mi porto lo stupore, l’incanto, la meraviglia, una camicia macchiata di sugo, un libro preso dall’ex

Ospedale Psichiatrico in book sarin, che potrò lasciare dall’altra parte del mondo scrivendo a chi lo

prenderà di difenderlo perché ha una storia fragile. Mi porto la sensazione della mano nella mia di una

signora probabilmente scampata al devasto di quello che deve essere stato il manicomio perché

manicomiale il suo viso, il suo corpo, la sua voce rattrappita in ecolalie, ma non manicomiale la sua

mano perché dal fondo del corridoio del padiglione M mi sente chiedere “Cerco la Radio condotta dai

pazienti, Radio Fragola” e mi corre incontro. Una stretta di mano morbida come un pezzo di pane

venuto da lontano a ricordare Calvino: “E continuano a camminare, l’omone e il bambino, nella notte,

in mezzo alle lucciole, tenendosi per mano”.

Mi domando cosa possa portare e come possa farlo nel mio lavoro quando tornerò a Roma e me lo

domando con un bel punto interrogativo, corpo di gatto in pericolo dall’arco di schiena sfatto. Si può

portare Basaglia fuori da Trieste e se sì come? Sappiamo che i modelli che si auto-alimentano o

esplodono o implodono. Una bella fine – certo – non fanno. Come portare un giglio e impiantarlo

quando anche il terreno non sia del tutto fertile è ciò che mi chiedo mentre chiudo il mio zaino di

ecopelle marrone contrattato a prezzo modico con un ragazzo indiano molto simpatico di una

bancarella verso Boccea.

Forse il punto è proprio questo, contrattare e non come scesa a patti, compromesso, piuttosto come

mediazione, come spazio terzo dove sospendersi e sorprendersi. Non so chi mi disse che in Turchia i

mercanti si offendono se non contratti perché occorre anche un pò arrabbiarsi nell’acquisto di un bene,

forse perché solo attraverso la rabbia ci si può separare dai maestri, perché la relazione è sempre in

rapporto a un altro e in quanto altro quello farà sempre come vorrà, come riuscirà e come potrà. E

questo vale per il presunto curante come per il presunto paziente. Vedere che cosa accade senza

pretese. E prendere i treni affinché nei vagoni si giochi a fare disegni a più mani.

A proposito di treni, ora è il caso che salti sul mio e sogni un pò Vediamo che accade nel mio

inconscio lunare dopo aver raccattato milioni di satelliti e polvere di asteroidi, immuni da ogni vento

dell’impossibilità.

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