Tempi di Basaglia e ... di bigodini!
Tempi di Basaglia e ... di bigodini!

Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi

 

 

 

di Leda Cossu

La scrittura, l’accoglienza, la povertà, effetti collaterali positivi, l’iniziativa, le relazioni umane, troppa consapevolezza, la fragilità, un clima emotivo, la domanda, la festa è la tavola, la gratitudine, l’identità, le ragioni sanitarie al posto della salute, l’amore dà respiro e senso, perdonarmi, gli orizzonti condivisi

“Se qualcuna o qualcuno guardandomi mi trova insignificante e piena di difetti, ma si accorge che mi faccio coraggio per testimoniare le persone e me stessa, nonostante i miei limiti, può pensare “se ce la fa quella lì posso farcela anch’io” e forse trova il coraggio anche lei per essere se stessa. Ed io sorrido.”

Così mi sono descritta nel 2003 in un sito di scrittura creativa. Era il 2003, la mia casa era diventata un monastero con un massiccio portone aperto in fessura, aiutandomi con entrambe le mani riuscivo ad uscirne. Anche con la scrittura.

Mi era arrivata una mail da un sito di scrittura, creato da un ebreo e da un cattolico, questa cosa del dialogo mi piacque. Erano anni difficili, le ragioni della Palestina erano già nella casa accanto alla mia. Vi abitava mia madre, arrotondava la pensione affittando una stanza a successive generazioni di migranti: prima arrivarono i meridionali, poi negli anni 80 gli africani e i palestinesi, nel ’90 i romeni, i moldavi.. ma fu un “cingersi il collo reciproco”. Il bisogno di accoglienza da una parte e la povertà di mia madre dall’altra ebbero effetti collaterali positivi, da molti punti di vista.

Mia madre nella sua semplicità e amorevolezza li promosse tutti, insegnò loro l’italiano, a cucinare, a farsi il letto, facendo loro da garante quando si affrancavano, affittando una casa o un kebab. Oggi in Mestre queste presenze sono per me una diffusa mappa del cuore.

Nei primi anni 2000 l’eco della guerra in Palestina circolava per Venezia con scritte odiose, c’era nell’aria un’imminente “okkupazione del Ghetto” che doveva partire da Palazzo Labia, sede della Rai, a due passi dal Ghetto.

La bloccammo con un’iniziativa, “careghete in campo”. C’è (oggi bisogna dire c’era con l’invasione di turisti) l’usanza veneziana di sedere fuori dagli usci di casa, nei campi veneziani, portandosi ciascuno la propria sedia (careghe.. careghete quelle piccole).

Ci sedemmo in cinque donne, compresa mia madre, più un uomo, quasi tutti anziani per dire il rosario, una lunghissima preghiera sottovoce. Affidammo a due manifesti le ragioni della preghiera, a favore del dialogo, contro la guerra. Pian piano si avvicinarono a noi i tanti ospiti palestinesi passati per la casa di mia madre, le mogli, i bimbi, tutti nostri amici, abbracci, sorrisi… gli altoparlanti abbassarono le voci davanti a questa preghiera “per la pace in Palestina” e insieme “per la memoria”; non è quest’ultima la ragione di Israele, ma della Comunità Ebraica veneziana che doveva essere lasciata in pace, pressocchè cancellata come fu a Venezia e non solo dalle persecuzioni e dalle deportazioni durante il fascismo.

C’era un vincolo in quel sito: la forma doveva essere letteraria e questo fu un bel modo per transitare il mio dolore con leggerezza. Scoprii in seguito come fossero esclusi i temi sociali ed ambientali e fu il motivo per cui smisi di scrivere, ma quell’anno furono importanti la scrittura e le relazioni umane “il collo che cinsi” per rimanere in piedi.

Il coraggio di chinarmi per chi avesse bisogno di aggrapparsi a me è l’identità delle donne di casa mia, ma troppa consapevolezza a volte non aiuta, riconoscere i propri limiti paralizza. Mi ha aiutato la mia fragilità, il non riuscire a reggere il dolore delle persone, la paura di soccombere a questo dolore. Dovevo fare qualcosa per ricreare un clima emotivo armonico che consentisse di vivere anche me. Fosse un famigliare o un compagno di lavoro in difficoltà, un malato maltrattato… l’amore per le persone è stato l’impulso a superare la scarsa stima di me, a perdonarmi i limiti, in questo modo mi accorsi che aiutavo anche me stessa.

Mi ha aiutato soprattutto “la domanda” di aiuto, segno che qualcuno investiva su di me.

“Se una vicina ha bisogno di te spegni la pentola e vai…” così mi ha educata mia madre e così la nonna ha educato lei. Piccoli saperi, pratiche di cura sono nel tempo diventati professioni, semi da spargere per far nascere qualcosa. Il curare è spesso sbilanciato a scapito della cura della casa, mai della cura dei miei cari e della tavola, luogo sacro della casa, dove un cibo ricco come la carne si è affacciato poco, prima per povertà poi per scelta di salute. La festa è la tavola, darsi il tempo per parlare, guardarsi, i libri di fiabe consumati a tavola di età in età nel silenzio della TV, la scoperta di una cultura popolare che si racconta fra cereali e verdure, vestite con dorati involtini e croccanti copertine commestibili. La memoria raccontata. La salute delle anime si nutre volentieri a tavola.

Quanti colli ho cinto io? Ci sto pensando man mano che scrivo, mi piacerebbe ringraziarli uno ad uno, narrarli. Quelli che mi hanno aiutato ad incontrare me stessa, a formare la mia identità, per imitazione o differenza. E quelli che mi hanno aiutato ad attraversare ponti e trovare la strada fra gli ostacoli. Fra i tanti M. uno psichiatra che mi ha traghettato in un difficile momento famigliare, gli voglio un sacco di bene per questo oltre che per quello che è, per l’incontro umano che ho avuto con lui ma non posso parlargli, sento che non capirebbe le mie ragioni, quando ho provato a farlo è stato molto rigido, chissà col tempo. Sei anni di salute di un mio caro sarebbe una ragione sufficiente, all’inizio fu grazie anche a lui, alla sua vicinanza fintanto che la sua mentalità e visione della professione gliel’hanno consentito. E’ rimasto un incontro interrotto perché non ho/non abbiamo accettato che tenesse “in esclusiva” le chiavi dell’anima del mio caro. Le ragioni sanitarie al posto della salute, la Psichiatria vive anche così, un piede di qua e un piede di là, nelle ragioni autoritarie da cui ha tratto il suo potere ed è stata avezza, prima di Franco Basaglia, la Salute Mentale è un’altra cosa, sceglie la salute della persona al primo posto, mettendosi al suo fianco, contenendola con un abbraccio.

Man mano che i ruoli di donna e madre si sono trasformati, l’amore mi aiuta sempre, dà respiro e senso alla mia vita. Non ho ancora imparato a dosarmi, un po’ di più a perdonarmi l’accumulo di cose non fatte, incompiute, a non prendermi troppo sul serio, quel polo estremo dove il dr. Rotelli pone la sofferenza interiore.

Rimane dentro il desiderio primario di creare spazi di incontro per le nostre anime, magari seduti ad una buona tavola, anche solo per un caffè, ad ascoltarci, ad allungare lo sguardo in orizzonti condivisi.

(nella foto Leda Cossu: tempi di Basaglia ma anche…di bigodini)

1 novembre 2009

2 Comments

  1. Istantanea, mai termine fotografico , vedendo questa fota appare azzeccato.Lo sguardo coglie subito la bellezza di un gesto d’amore assieme alla semplice quotidianità della vita.
    E’ un tuo ricordo, la tua vita eppure, tutti si possono riconoscere proprio in quei gesti che assumono una valenza universale. Credo che sia il riconoscersi che ci avvicina agli altrie proprio come bene hai detto tu, questosia il primo passo per accogliere l’altro e nel farlo, non temere di perdere la propria inalienabile individualità, che anzi, ne viene rafforzata.
    La tua esperienza mi fa pensare che non sono necessari gesti di eroismo per essere di aiuto agli altri e che quel senso di inadeguatezza o di paura difronte al dolore che ci assale e ci paralizza, può più facilmente essere superato riportandolo alla quotidianità, alle piccole cose, alle buone pratiche giornaliere ,nell’abbraccio con l’altro che stempera le paure.
    Leggerti è già un’abbraccio, è come sentirsi dire che ce la puoi fare, al dolore lasciamo spazio per attraversarci.
    Il tuo è come il lavoro di una piccola ape. Volare di anima in anima, posarsi ma non riposarsi, attenti ed operosi , nell’alveare del nostro cuore trasformare le emozioni di un incontro ,in miele.
    Ringrazio per questa tua esperienza di vita può essere importante per molti riuscire a far del bene a se stessi intercettando ciò di cui gli altri hanno bisogno in quel momento. Proprio come insegni tu.

    Marina Marino

  2. Leda Cossu

    Cara Marina grazie del tuo commento… anche l’ape si riposa.
    A dirti il vero riposo sempre e mi sveglio di tanto in tanto.
    E’ che i pensieri, i desideri, sono voraci, hanno più appetiti delle forze che riesco a mettere in campo. Per fortuna non soffro di onnipotenza, fluire nella vita è già un grosso piacere… la bellezza che vedo intorno, la natura, gli animali e l’emozione degli incontri con le persone mi danno la sensazione di scoperta, di riposo in ogni cosa che faccio. E’ tutto gratis, nessuno me la può togliere. Anche la meraviglia mi fa volare, troverò pur sempre qualche fiore, qualcosa di buono che mi dà piacere, mi consola, mi ridà armonia.
    Poi c’è quel brivido, spesso improvviso, a svegliarmi, su un leit motiv che già conosco: l’indignazione per il dolore inutile e le negligenze che non chiedono scusa, indifferenze, paura, dolore, angoscia, fragilità, incomprensioni, cose dette in un modo e percepite in un altro (non tutto si riesce a spiegare, a sciogliere in parole), lascio che tutto mi sfiori senza prendermi, che mi pieghi senza spezzarmi, cerco di non farmi annichilire, di superare il disagio facendo qualcosa, ricorro spesso alla mia musina* interiore e a quella delle amiche, amici, cose già vissute, esperienze di piccoli passi compiuti, da me, da altri.
    La consapevolezza e il cuore saltano oltre l’ostacolo, prendono le misure, fanno strategie per superarlo, i pensieri e i sentimenti si sa sono veloci, volano, poi… faccio un fischio per richiamare le forze, ma… le forze rispondono come possono, “umanamente”. E allora mi tocca rallentare il passo, o altre volte darmi una mossa.
    “Con” le persone poi è anche più delicato, tocca prendere un ritmo “insieme”.
    Poi scopri che l’ape volante non sei solo tu, il piacere di essere uno sciame, ciascuno col suo compito… col suo miele. Sulle nostre zampette ed ali d’ape qualche seme rimane appeso per rinascere altrove.
    Non è sempre stato così, c’è stata una lunga stagione che guardare il verde mi dava dolore, le fabbriche in cui lavoravo, gli odori acri, le polveri colorate ammucchiate, i cieli gialli dai fumi. In quegli anni: 60-70, i pastori ancora portavano a valle i loro greggi, dalla montagna. E nei miei sogni notturni i pastori si fermavano davanti alle mura che circondavano le fabbriche, si sedevano sconsolati in terreni, barene* senza più un filo d’erba. Poi diventai madre e guardai il mondo con gli occhi di mio figlio, ritrovai il mio sguardo di bambina innamorata della natura, degli animali, delle persone e non lo persi più, per mio figlio, per me stessa… e non solo.

    *musina= salvadanaio
    * barene= terre lagunari emerse, create dai detriti dei fiumi, del mare

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