di Peppe Dell’Acqua

Ho saputo domenica pomeriggio. Un amico milanese mi ha informato poco prima che la notizia arrivasse ai giornali. Che sarebbe successo a breve lo sapevamo tutti. Me l’aspettavo. E, tuttavia, qualcosa accade. Tristezza. Una tristezza profonda. Ho avvertito un vuoto. La mancanza improvvisa di una voce di verità. Una verità di cui sento il bisogno ora più che mai. Una voce pura, sommessa, estrema, fastidiosa talvolta, e solenne.

Non ho mai conosciuto Alda Merini. Ho cominciato a sapere di lei tardi, quando era già diventata un personaggio. Da anni mi proponevo di incontrarla, di farle visita, di invitarla a Trieste a parlare con noi.

Stava quasi per accadere qualche anno fa. Licia Maglietta, attrice, andava in scena con un’antologia di suoi scritti. Era stata invitata. I suoi acciacchi le impedivano di venire a Trieste.

Ho cercato nel mio archivio tracce di quell’invito. Ho trovato queste poche righe. Per scusarsi volle regalarci un piccolo gioiello, la poesia per Franco Basaglia.

«Ringrazio sentitamente tutti quelli che hanno lavorato intorno ai miei testi e alla mia vicenda e mi dispiace immensamente di non poter essere presente. Se a Trieste è nata la legge Basaglia e anch’io ho lottato per liberare con me gli altri malati e avere una parola credibile per lo meno sulla scena, debbo dire che tutti i malesseri che mi hanno colpito recentemente sono senz’altro dovuti alle torture manicomiali. Lentamente ma inesorabilmente queste memorie negli anni si fanno avanti e diventano autentici dolori. Sono anche molto addolorata dalla scomparsa di Maria Corti, mia insigne maestra, che ha fatto degli orrori del manicomio un angolo di cielo fervente, per così dire, in cui tutti i martiri del dolore sono caduti senza giustificazione.

Mi auguro che la rappresentazione di Licia e la presenza dei miei ammiratori, cui in parte devo la mia celebrità, serva a sciogliere le catene e la paura della malattia mentale che è stata per anni il rifugio di molte cattiverie. Mi complimento con Licia e con la sua bravura. Forse a quei tempi ero bella come lei.

Con tanti auguri e scusandomi moltissimo ricordo ancora Maria Corti e Vanni Scheiviller che hanno dato coraggiosamente alle stampe il “Diario di una diversa” che ha illuminato tanta gente e determinato la chiusura dei manicomi.

Auguro a tutta la buona gente un briciolo di follia perché Lorenzo il Magnifico dice: “Di primavera un poco di follia fa bene anche al re”.

Con tanto affetto, Alda Merini».

Dopo aver letto avrei voluto parlarne con qualcuno. Intanto potevo condividere con i miei amici la notizia. Con quelli che sono nella mia rubrica telefonica e che sono coinvolti nelle stesse storie che io vivo. Ho inviato un messaggio scarno: “È morta Alda Merini”. Nelle due ore successive ho ricevuto più di 50 messaggi. Segnali. Condivisioni. Pensieri affettuosi. Per tutta la sera è stato un bel ricordare insieme. La sua poesia dedicata a Franco Basaglia.

«A Franco Basaglia

il vento, la bora, le navi che vanno via

il sogno di questa notte

e tu

l’eterno soccorritore

che da dietro le piante onnivore

guardavi in età giovanile

i nostri baci assurdi

alle vecchie cortecce della vita.

Come eravamo innamorati, noi,

laggiù nei manicomi

quando speravamo un giorno

di tornare a fiorire

ma la cosa più inaudita, credi,

è stato quando abbiamo scoperto

che non eravamo mai stati malati».

Ho riletto questa testimonianza drammatica e lieve, alla sua maniera. Forse è nata da lì la mia curiosità per lei. Volevo sapere di più della sua storia e le rare testimonianze che raccoglievo, testimonianze sul manicomio, sulla malattia, sul dolore mi apparivano lontane anni luce dalla piattezza di quanto negli ultimi anni si andava dicendo di quelle cose.

La sua storia aveva attraversato il faticoso cambiamento che è avvenuto nel nostro paese. E il suo dire testimoniava, narrando di sé con rabbia e tenerezza, delle violenze, dell’annientamento, delle sottrazioni. I manicomi nel suo racconto appaiono come luoghi dove, malgrado i dispositivi di annientamento che pure conosceva, non si spegne quel filo di umano, quella flebile voce, quel tanto di fragilissimo che allude alle storie singolari, alle persone.

Si è lasciata intervistare, fotografare, riprendere. La vedevo chiamata in causa nei talk show televisivi a parlare della legge che ha chiuso i manicomi e di elettroschok. Diceva sempre la verità. Una verità che dopo gli ardori degli anni ’70, molti, sembrava, volessero dimenticare.

Quando qualche anno fa una piccola lobby di psichiatri ha chiesto al Ministro allora in carica di promuovere l’elettroshock, le sue parole semplici e sommesse, la testimonianza della violenza che aveva subito e del rischio che aveva corso di essere ridotta per sempre al silenzio, è valsa più delle presupponenti attestazioni degli psichiatri.

È come se, con una cifra altissima, avesse aperto la stagione per la parola restituita a chi, per ordine psichiatrico, l’aveva perduta. Così il racconto dell’internamento e il suo rapporto talvolta ambiguo con i terapeuti, le parole di comprensione per quelli che pure erano “gli aguzzini”, la dolcezza amorosa della presenza degli altri e l’infinita comprensione del racconto di quelli che l’internamento condividevano con lei. Ma anche le parole chiare (rabbiose e dolenti) della denuncia: delle burocrazie, delle “pie opere assistenziali”, dei tribunali, delle mura, delle separazioni, delle mortificazioni. Abbiamo avuto la fortuna di ascoltare un poeta che ci ha permesso di intuire la fatica che devono fare le persone che vivono quell’esperienza per non essere soffocati dall’involucro della malattia. Per poter vivere, per essere riconoscibili e riconosciuti.

Credo che oggi migliaia di persone, che pure non posseggono le parole della sua poesia, sono in grado di dire, di testimoniare, di esserci. Di questo, ma non solo per questo, siamo grati ad Alda Merini.

Del suo lavoro poetico non sono capace di parlare. È qualcosa che mi accompagna e mi suggerisce pensieri buoni, intensi, dolorosi, amorosi.

È di questo suo lavoro, di questa altissima presenza poetica che credo si debba continuare a parlare.

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