di Arturo Cannarozzo
Addetto alla formazione in una cooperativa sociale per attività di inclusione digitale

21 gennaio 2022

“Bisogna trarre dalla malattia, specialmente quando non è veramente tale, la maggior dolcezza possibile. Essa ne contiene molta.”

Franz Kafka

Di quel periodo, paradossalmente, conservo un indelebile ricordo. Quando sei accelerato, i colori, le voci, persino gli odori assumono accenti indimenticabili. Casomai è l’interpretazione che dai a quegli eventi a cambiare nel tempo, tra un’illazione e l’altra, in una continua approssimazione di verità.

A ogni modo, non scorderò mai quando mio padre mi accompagnò al Centro di Salute Mentale di Barcola, la prima volta. Se avessi dovuto tirare le somme dei miei 18 anni avrei potuto dire che avevo sbagliato tutto nella vita. D’improvviso, attorno ai 16 anni ero diventato un altro, buttandomi a capofitto in situazioni di rischio, l’esatto contrario della persona posata e riflessiva che ero stato fino ad allora. Ma non voglio dilungarmi con la mia storia personale, a meno che non sia utile per questo ragionamento. Oggi se parli del tuo vissuto, della tua storia, nel migliore dei casi ti giudicano come uno che non sa fare altro che parlare della sua esperienza personale, nel peggiore dei casi uno prigioniero delle ideologie “basagliane” che, come si è visto, ai concorsi pubblici non giova.

Se ripenso a quel giorno, in ogni caso, non è un brutto ricordo. Mi ricordo calore, comprensione, umanità. Ricordo lo stupore che provavo a trovarmi in quel posto, soleggiato e in riva al mare, dove di certo non si capiva chi fosse il medico, il malato o l’infermiere. Mi ricordo professionalità.

Ho accettato da subito la terapia, convinto che sarebbe durato poco… Più difficile è stato accettare che si tratta di una condizione che dura tutta la vita.

All’epoca, pochi avrebbero scommesso un soldo bucato su di me. Totalmente annullato da quell’esperienza, la consapevolezza mi colse come pugno nell’occhio.

Ricordo il vuoto, parecchio vuoto. Di relazioni e non sapere cosa fare.

Il servizio ha riempito quel vuoto, con la vicinanza e l’ascolto di operatori esperti, col gruppo di giovani miei pari, col sostegno alla ripresa degli studi, con la frequentazione di una cooperativa sociale e altre attività strutturate. Pian piano ho ripreso in mano la mia vita. Man mano che capivo quali comportamenti modificare, li ho modificati. Pian piano sono arrivate tutte le cose che mancavano: dal ricucire il rapporto con i miei familiari, agli amici, all’amore, alla capacità di studiare, al lavoro.

Ma ripeto, non dico tutto questo per raccontare il romanzo della mia vita, sai che noia. Voglio solo evidenziare, che tutto ciò che ho potuto ottenere io che per semplificare chiamerei  “il lavoro di un centro di salute mentale h24 ”, rischia di non essere possibile per una persona che sta male oggi.

Oggi il rischio è di trovare ospedale. Oggi il rischio è di non trovare accoglienza, di vedere lo psichiatra se va bene una volta all’anno, figuriamoci lo psicologo. Oggi il rischio è di avere vuoto attorno, di non riuscire a trovare un contesto dove emanciparsi dalle proprie debolezze. Oggi il rischio è di dovere pagare per trovare aiuto, ma la cosa peggiore è che nel privato non trovi le stesse capacità di rete, non trovi lo stesso contesto che cura.

Oggi il rischio non è di non trovare “basagliani” nei concorsi pubblici. Il rischio si gioca sulla pelle di tantissime persone. Anche le sostanze, è vero, come dicono alcuni, giocano un ruolo decisivo nello scatenare disturbi sociali e di salute mentale. Lo so per esperienza. Ma come si può pensare di risolvere il problema riducendo le occasioni di cura? Con la fila per ottenere un farmaco, o la permanenza inutile e prolungata in un Servizio psichiatrico ospedaliero di diagnosi e cura.

Tutto questo, me lo sto chiedendo da mesi. Cosa vuol dire? Che le persone che hanno  e hanno avuto un’esperienza simile non sono una priorità, non sono da valorizzare? Che non ha senso investire su questo?

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