forum-wcprI SERVIZI DI SALUTE MENTALE AI TEMPI DEL COVID-19: UN CONTRIBUTO DELLA WAPR ITALIA ALLA RIFLESSIONE

Massimo Casacchia, Barbara D’Avanzo, Gabriele Rocca e il Direttivo della WAPR Italia

Premessa

Il documento che segue ha l’intento di evidenziare le molte ombre che riguardano i servizi di salute mentale, troppo spesso frammentati e non comunicanti, le insoddisfazioni degli operatori, troppo pochi per garantire livelli essenziali di assistenza, cura e riabilitazione, la delusione delle persone che non riescono a raggiungere i loro obiettivi di vita e la fatica dei familiari che spesso si sentono troppo soli nella gestione del progetto di vita della persona malata.

Non vuole essere un documento solo di critica e di denuncia, ma si propone di promuovere un rinnovato entusiasmo, una determinazione forte nell’affrontare i gravi ostacoli che si frappongono ad una vita soddisfacente per le persone con disturbi mentali. Speriamo che questo atteggiamento positivo possa contaminare tutti coloro che hanno a cuore la salute delle persone affette da differenti disturbi mentali a cominciare da loro stesse, dai familiari, dagli operatori che non riescono a garantire alle persone il diritto di ricevere i migliori trattamenti farmacologici, psicologici e riabilitativi di provata efficacia.

Le carenze dei servizi di salute mentale sono note da molti anni. A fronte di questa constatazione gli operatori della salute mentale non sono riusciti a tenere in vita l’entusiasmo che aveva permesso nei decenni precedenti di superare barriere anche più radicate che si opponevano al superamento dell’istituzionalizzazione. C’è ancora tempo per farlo. È il momento di rafforzare il nostro impegno con ancora più coraggio per far sì che le persone con disturbi mentali siano considerate cittadini e risorse preziose.

Condividiamo le riflessioni e le proposte che seguono con questo spirito, per il superamento del senso di impotenza e con la fiducia che un dialogo autentico tra le associazioni, i professionisti, i servizi e le persone ci consenta di dare basi sempre più ampie all’impegno comune.

La sezione italiana della World Association for Psychosocial Rehabilitation (WAPR), nota come WAPR Italia, mantiene da sempre l’impegno a promuovere i principi e le pratiche che rendono possibili le migliori condizioni di vita nella comunità per le persone con disturbi mentali. Questo si è tradotto nel dar voce alla cultura della riabilitazione psicosociale – come disciplina volta al miglioramento funzionale delle persone con disabilità e fondata sulle evidenze di efficacia – attuabile solo in servizi radicati nella comunità, che operano nel pieno rispetto dell’autonomia delle persone e nell’adeguata considerazione dei determinanti sociali del disagio mentale. L’orientamento è dato dal valore della difesa dei diritti umani sia all’interno dei servizi, per contrastare pratiche coercitive di qualsiasi natura, che al loro esterno, contro lo stigma e le barriere nell’accesso ai servizi. Grande attenzione viene posta alla penuria di risorse e agli effetti patogeni delle diseguaglianze sociali e della povertà sia materiale che relazionale.

La recente pandemia da SARS-CoV-2, con le sue ricadute sul sistema sanitario, è venuta a cadere in una fase di progressivo impoverimento dei servizi di salute mentale sia dal punto di vista della quantità delle risorse, sia per quella che viene spesso definita “deriva biologista” che priva la sofferenza mentale della sua inevitabile complessità.

In linea con altri e alla luce dei dati più recenti, riteniamo che esista un significativo problema di riduzione di personale e di cure coniugato con l’indebolimento della cultura della salute mentale di comunità e della prevenzione sia a livello di pianificazione che di operatività (http://siep.it/newsletter/numero10/numero10.html). Nonostante le premesse, forse date troppo per scontate, di un nuovo paradigma di cura nella comunità, riteniamo che le varie articolazioni dell’assistenza psichiatrica sono rimaste poco integrate con gli altri servizi, sono ancora arretrate sugli aspetti dell’acquisizione dei diritti fondamentali e non abbastanza attente alla qualità della vita delle persone con disturbi mentali. La residenzialità psichiatrica, nonostante la recente battuta d’arresto di un’espansione che sembrava incontrollabile, rimane un modello profondamente radicato nei piani terapeutici, e il modello di supporto ai bisogni più complessi stenta a sganciarsi in modo significativo dal setting residenziale strutturato (Barbato et al, 2020). Il ricorso agli psicofarmaci come strumento prevalente di cura, le difficoltà di un utilizzo appropriato e l’impatto sulla salute fisica di chi li assume rimangono aspetti da monitorare. Il momento attuale appare caratterizzato da un utilizzo crescente degli psicofarmaci (Drukarch et al, 2020), in parallelo, paradossalmente, al quasi totale arresto della ricerca di molecole più efficaci, con effetti più mirati e minori effetti avversi. Invece, grandi numeri di utilizzo degli psicofarmaci ne mettono in evidenza i limiti di efficacia e gli effetti avversi, con impatto sulla morbilità e la mortalità (Tanskanen et al, 2018). E’ verosimile che all’uso così ampio e prolungato degli psicofarmaci sarebbe possibile porre un argine rinforzando la disponibilità di competenze e strumenti per gli interventi psicologici, psicosociali e di inclusione sociale reale di dimostrata efficacia, spesso non offerti su base regolare e per durate sufficienti, e non a tutti.

Nonostante il punto di vista degli utenti sia valorizzato nella narrazione dell’evoluzione della cura (non solo in salute mentale), nonché, in molti casi, nella relazione con gli operatori dei servizi, l’integrazione della visione e delle richieste degli utenti non è stata ancora realmente presa sul serio. Tuttora, incredibilmente, non abbiamo che poche frammentarie e non troppo ufficiali posizioni di utenti su come i servizi potrebbero meglio affrontare le loro esigenze (Kauffmann et al, 2017). Ci preme quindi riaffermare la volontà di dar voce a tutti coloro che sono coinvolti nella tutela della salute mentale: tutte le figure professionali, ma anche le associazioni di familiari e utenti che già oggi svolgono, seppur in modo disomogeneo nel paese, un importante ruolo di interlocuzione a vari livelli. L’ulteriore passaggio auspicabile è quello di individuare le modalità idonee a far sì che gli utenti e i familiari possano essere stabilmente coinvolti nella programmazione, gestione e valutazione dei servizi di salute mentale. Ma anche il dialogo tra amministratori, legislatori, magistrati, operatori della salute mentale, operatori dei servizi sociali, familiari, utenti, cittadini è ancora percepito come limitato e faticoso. Spesso, nelle occasioni pensate con lo scopo di un confronto autentico e volto alla comprensione da parte degli uni del punto di vista degli altri si ha l’impressione che non si riesca ad andare al cuore del problema. Prova ne sia che il supporto tra pari è stato introdotto in forma regolare, riconosciuta e retribuita in una esigua minoranza di servizi.

La WAPR abbraccia pienamente la teoria che la sofferenza mentale ha origini che affondano nelle condizioni socio-economiche delle persone e delle comunità. Vi è accordo unanime che fattori sociali, come la povertà e la fame, la trascuratezza nell’infanzia, l’abuso fisico, sessuale e psicologico contribuiscano all’insorgenza e al decorso sfavorevole delle malattie mentali, così come l’educazione possa avere una funzione protettiva (Allen et al, 2014). Tali argomenti di sconfinata portata sono tenuti presenti nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite (UN, 2015) che prende atto della sofferenza di intere popolazioni causata da fattori economici, sociali, ambientali, e che propone soluzioni urgenti per salvare il mondo. L’Agenda 2030 rappresenta un manifesto da assumere come guida nella cura e nell’elaborazione dei progetti, che trovano ostacoli a volte insormontabili nei fattori economici e sociali. Inoltre, l’isolamento e l’emarginazione di tante persone con disturbi mentali, che non possono esprimere le loro potenzialità, hanno la conseguenza di impoverire il capitale sociale di una comunità. Ed è proprio in termini di capitale sociale che è necessario ragionare, se consideriamo che i disturbi mentali e i sintomi psichiatrici si presentano nella popolazione generale lungo un continuum, e la soglia oltre la quale parliamo di “patologia” è convenzionale (van Os et al, 2009). Ma la presa in carico del disagio diffuso da parte dei servizi di salute mentale non può essere la risposta al malessere diffuso nella popolazione, che va invece attuata attraverso le politiche per l’inclusione sociale e la fruizione dei diritti fondamentali e grazie all’attivazione di tutte le agenzie sociali e dei singoli cittadini nell’accogliere il disagio e nel supportare le persone che ne soffrono. In questo senso, si pensi, ad esempio, alle esperienze delle reti sociali naturali, o della coalizione comunitaria (D’Avanzo et al., 2017) e altre forme di attivazione della comunità. In realtà, il ruolo dei determinanti sociali nei disturbi mentali si integra a fatica nella concezione della malattia mentale di cui si occupano i servizi e rimane un tema epistemologico affascinante quanto difficile.

L’attitudine ad affrontare gli inserimenti lavorativi e il reperimento di soluzioni abitative accessibili per le persone con disturbi mentali gravi in una logica “clinica” – all’interno di quanto i servizi possono offrire, in modo spesso lontano, nel caso degli inserimenti lavorativi, dalle dinamiche produttive e non estraneo al vecchio paternalismo psichiatrico – marca un’accettazione implicita della separatezza delle persone con disturbi mentali dalle altre persone, la credenza che le politiche sociali non siano qualcosa di cui gli psichiatri debbano interessarsi o, forse, il loro vissuto di impotenza davanti a questo (Maone e Fioritti, 2015). Si perde così l’occasione di dare sostanza al nesso tra malattia mentale e povertà/non accesso ai diritti.

Sull’approccio alla cura rimane sostanziale la storia delle persone, con una messa tra parentesi delle diagnosi che sono necessarie, ma non sufficienti, per garantire percorsi di vita soddisfacenti per coloro che presentano disturbi mentali (Slade, 2009). La realizzazione di un progetto di vita è l’obiettivo su cui devono convergere quindi più sforzi e più competenze. In questo senso va l’individuazione di un budget di salute, come forma di personalizzazione della cura, e che in Italia ha già visto diverse realizzazioni (Fontecedro et al., 2020).

La pandemia ha messo a nudo la povertà dei servizi, ha esasperato la fragilità delle persone con disturbi mentali, inasprendo gli effetti dell’isolamento in cui vivono molte di esse. Dalle indagini condotte, insieme ad altri, dalla WAPR stessa in occasione del primo lockdown, un aspetto positivo della riorganizzazione dei servizi è consistito nella maggiore diffusione delle tecnologie per la comunicazione, senza le quali non sarebbe stato possibile dare supporto a molte persone. Tuttavia, queste sono utilizzabili solo con chi dispone di una connessione internet, di dispositivi adeguati e di qualche abilità informatica. Per gli altri si è approfondita la divaricazione tra chi può e chi non può accedere alle cure (Mezzina et al, 2020). In un auspicabile ripensamento dell’utilizzo di risorse (comunque da aumentare, come sostenuto dall’UNASAM, e non solo), gli strumenti di connessione quali tablet, smartphone, computer, potrebbero essere messi a disposizione degli utenti che non possono accedervi, addestrandoli all’utilizzo. Si tratta di una proposta realistica e facilmente attuabile, che vorremmo sottoporre ai direttori dei Dipartimenti di Salute Mentale.

Non possiamo poi dimenticare che i disturbi mentali sono essi stessi un fattore di rischio e le persone affette da tali disturbi hanno una maggiore probabilità di ammalarsi di COVID-19 rispetto alla popolazione generale, incontrando anche maggiori barriere nel percorso di cura una volta ammalati (Yao et al., 2020).

Alcuni degli argomenti che abbiamo presentato sono stati rilevati anche nella survey che la WAPR ha condotto durante la prima ondata del SARS-CoV-2 e a cui hanno risposto 1046 operatori di diverse regioni italiane (D’Avanzo et al, 2020). In particolare, gli operatori, oltre ad esprimere apprezzamento per l’uso delle tecnologie e la possibilità del supporto a distanza, hanno espresso preoccupazione soprattutto per le persone isolate e con poche relazioni sociali e in misura limitata per le persone con disturbi psicotici, sottolineando come la fragilità venga vista nelle condizioni esistenziali più che in quelle patologiche o, forse, nella consapevolezza di poter agire sulle ultime, ma molto meno sulle prime. Inoltre gli operatori hanno visto nelle nuove modalità di lavoro la possibilità di pensare ai progetti in modo meno “routinario” e di scegliere in modo più personalizzato obiettivi di cura e strumenti per raggiungerli. In altri termini, si colgono quegli elementi che permettono di vedere la pandemia anche come una opportunità per promuovere processi di trasformazione della rete dei servizi di salute mentale. Al di là di ogni semplificazione, ci sembra di individuare una disponibilità al cambiamento che va sicuramente approfondita e sostenuta nei suoi aspetti più innovativi.

Questo documento vuole rivolgersi non solo a governi, ministeri, commissioni parlamentari, spesso raggiungibili dopo percorsi lunghi e tortuosi, ma soprattutto alle regioni e agli enti locali, che gestiscono le risorse del territorio e che possono mettere in atto politiche concrete finalizzate all’inserimento lavorativo, all’accensione di percorsi di tirocinio professionalizzante e di apprendistati lavorativi. Più semplicemente, vuole essere anche la dichiarazione degli impegni che vogliamo assumere come WAPR Italia nel sottoporre questi temi all’attenzione degli operatori, degli utenti dei servizi, degli amministratori e del pubblico.

I servizi di comunità, nella loro realizzazione imperfetta, sono stati sottoposti alla dura prova della pandemia, che ha limitato le loro già scarne funzioni, spesso ridotte all’indispensabile (di solito farmacologico), ha inciso sulla frequenza e sulla regolarità del confronto tra gli operatori e tra i servizi, ha offuscato la visione di un futuro su cui progettare per le singole persone e per i servizi stessi. Tali eventi si sono sovrapposti a una crisi economica e sociale che ormai da tempo colpisce le fasce più deboli della popolazione e indebolisce il Servizio Sanitario Nazionale, in modo particolare nelle sue articolazioni extra-ospedaliere. Per poter garantire la salute dei cittadini e con essa la salute mentale sono necessarie idee, persone che si confrontano, modelli organizzativi duttili, risorse economiche utilizzate non secondo un’abitudine ma secondo una visione di servizi innovativi e proattivi, che superino l’erogazione burocratica di prestazioni e si propongano come soggetti attivi, capaci di realizzare progetti individualizzati all’interno di una rete sociale protettiva e autonomizzante ad un tempo. È chiaro che se l’impianto dei servizi di comunità non evolve marcatamente nel senso degli elementi indicati sopra, non potranno mai approdare ad un porto sicuro. Certamente non vi è mai nulla di conquistato per sempre, ma la pandemia ha indicato chiaramente che è necessario fare di più e farlo con un atteggiamento autenticamente rivolto al consolidamento del paradigma dei servizi di comunità a cui deve legarsi una costante attenzione ai fattori sociali ed economici che condizionano la salute e la cura delle persone.

(disegno da: inpsiche.it)

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