guarino[illustrazione di Ugo Guarino]

Di Roberto Mezzina

Sebbene il modello medico biologico sia tuttora dominante in psichiatria, esso è, negli ambienti scientifici più avvertiti, fortemente relativizzato e inserito nella ben nota filiera dell’approccio multidimensionale “bio-psico-sociale” (vedasi recentemente la Lancet Commission), e spesso aspramente criticato sia dai grandi organismi internazionali che tutelano i diritti umani (vedi lo Special Rapporteur alle Nazioni Unite sul diritto alla salute) che da quelli che promuovono approcci fondati sulla recovery, e su una salute mentale di comunità realizzata da servizi “completi” (comprehensive, secondo l’OMS).

Indiscutibilmente, in ogni contesto, la terapia farmacologica rimane una risorsa fondamentale nella pratica consueta, ed è ritenuta da molti, ma non da tutti, di assoluta prima scelta e pressoché inevitabile per tutte le patologie (e spesso anche per i precursori di esse, come il dibattito sugli interventi negli “stati mentali a rischio” dimostra). Tuttavia, già il mhGAP Programme dell’OMS inserisce il farmaco all’interno di un preciso percorso diagnostico e terapeutico, dove per un “non-specialista” è determinante fornire orientamenti e risposte non esclusivamente farmacologiche. Inoltre, è ormai universalmente accettato, anche se ancora troppo poco praticato, che vada tutelata anche la salute fisica insieme con la salute mentale. Da anni molti warnings sono stati emessi in relazione sia agli effetti collaterali e agli eventi avversi, specie dei neurolettici ma non solo, con accresciute conoscenze in ambito neurologico, cardiologico e dismetabolico, sia all’impatto degli stessi sugli stili di vita (sedentarietà, abuso compensativo di sostanze, tabagismo, potenziamento dei sintomi negativi, etc).

Quando personalmente ho iniziato a lavorare in psichiatra, un tema di discussione centrale era il ruolo delle terapie biologiche, portato avanti da ricercatori come Giorgio Bignami all’ISS, e dall’Istituto Mario Negri, diretto da Silvio Garattini, col concorso dei ricercatori di livello che vi si sono avvicendati (da Tognoni a Bellantuono, da Saraceno a Frattura a Terzian, Bolongaro, Barbui ed altri); poco dopo si registrava l’impegno del gruppo di Michele Tansella a Verona, che raccoglieva tra l’altro le esperienze degli stessi Bellantuono e poi di Barbui e altri favorendone l’ulteriore diffusione attraverso manuali completi ed esaustivi. Si produssero rigorosi sforzi di sistematizzazione per un “uso razionale degli psicofarmaci”, a partire dallo smilzo libretto del Negri, che circolò in tutti i servizi del dopo-riforma, per andare ai manuali di Bellantuono e Tansella, e ad altri successivi. Mentre stentava a comparire una versione “italiana” delle linee guida internazionali fornite dal NICE (National Institute for Health and Care Excellence) in Gran Bretagna (prima, anche quelle del Maudsley) e dal NAMH in USA, il focus si spostava anche da noi su metanalisi rigorose che hanno contribuito a bilanciare e a sottoporre a revisione critica la produzione di ricerche non indipendenti e spesso francamente “commissionate”, la frequente inconsistenza di risultati, la difficile trasferibilità attraverso studi “real-world” alla pratica clinica di quanto veniva sostenuto (esemplarmente sui proliferanti antidepressivi). Alcuni grandi studi, come CATIE e CUTLASS, iniziavano a sfatare le mirabolanti promesse formulate sugli antipsicotici di seconda generazione, miravano e circostanziavano l’impiego prezioso della clozapina, e identificavano i rischi relativi al diabete e ai disturbi cardiovascolari. Si iniziò a parlare di alimentazione e stili di vita “sani e attivi” (per parafrasare una campagna condotta per i giovani all’esordio), mentre anche l’OMS commissionava studi sulla mortalità “in eccesso” o evitabile che dimostravano quanto il complesso di queste condizioni determinasse una contrazione dell’aspettativa di vita di almeno 15-20 anni per le persone con disturbo psicotico, fino al recente documento delle linee guida per le comorbidità (2018). A testimoniare quanto sia però discusso il reale ruolo dei farmaci, non va qui dimenticato il follow-up di larga scala condotto per 20 anni in Finlandia, i cui risultati in assoluta controtendenza sono stati di recente pubblicati (da Taipale e altri) suscitando un immediato dibattito. I neurolettici qui mostrerebbero non solo effetti terapeutici, dimostrati dalla riduzione dei ricoveri, ma anche ridotta mortalità in coloro che li hanno assunti sul lungo periodo, specialmente per quanto riguarda la clozapina, rispetto a coloro che non li hanno usati continuativamente.

La domanda resta: sono dannosi i farmaci in sé o il modo in cui essi sono prescritti, somministrati e assunti, i contesti istituzionali e di servizio in cui ciò avviene, la serie più ampia di risposte, o di non-risposte in cui si inseriscono?

Nel nostro Paese, ciò che oggi appare davvero preoccupante è la qualità della pratica di prescrizione, non solo nella medicina generale e nelle cliniche private (da sempre inclini ai cocktails farmacologici), ma negli stessi servizi pubblici. Ricerche da noi condotte nei primi anni 2000 (ricerca finalizzata del Ministero della Sanità) già mostravano che i SPDC italiani utilizzavano nelle situazioni di crisi di pari gravità dosi equivalenti doppie di neurolettici al confronto con i servizi del territorio, e tante politerapie (cosiddetta “contenzione chimica”); mentre altre ricerche (Ricerca Primi Casi del Negri, Progres-Acuti) ne svelavano l’impiego diffuso della contenzione fisica. Un survey pubblicato riguardante lo stesso DSM triestino da un lato metteva in luce stili prescrittivi scarsamente razionali, politerapie, switch tra farmaci non sufficientemente motivati sia sul piano terapeutico che su quello della tollerabilità, mentre dall’altro segnalava in positivo l’impatto degli approcci multidisciplinari e del coinvolgimento dell’utenza e della sua rete sociale nei programmi terapeutico-abilitativi, in modo tale da migliorare drammaticamente la stessa compliance ai farmaci.

Oggi, tutto sembra dominato da almeno tre potenti forze in campo: a) la pressione perdurante delle stesse industrie farmaceutiche, sia pure in un una fase di sostanziale stallo e disinvestimento nella ricerca di nuovi tipi di molecole; b) la tendenza ad una psichiatria non solo fondamentalmente biologica, ma anche ispirata a una medicina difensiva, che ben presto riveste l’utente, specie recidivante o con condizioni perduranti/croniche, di un impressionante “cappotto” polifarmacologico, tale da contenere la malattia ma anche da appiattire la sfera intellettiva, affettiva e relazionale; c) l’ideologia determinata da una frammentazione e moltiplicazione delle diagnosi all’interno di quello che pomposamente viene chiamato “approccio dimensionale”, in alternativa al tradizione approccio “categoriale” a entità nosologiche distinte (sospinto in particolare dal DSM IV e V), con un impiego di polifarmacoterapia pure sostenuto da ben noti ambienti accademici italiani. Personalmente ne ebbi le prime avvisaglie partecipando nei primi anni 2000 allo studio internazionale OTP sulla schizofrenia diretto da Ian Falloon: si indicava come prassi corretta identificare per esempio un disturbo d’ansia e da attacchi di panico nel contesto di una psicosi, da trattare come tale separatamente anche sul piano farmacologico. Quelli che per me erano stati fino ad allora epifenomeni di una condizione globale di angoscia psicotica di un soggetto “intero”, per Falloon diventavano la sovrapposizione di un disturbo d’ansia a un’altra patologia.

Oggi non è infrequente, a fronte di diagnosi sempre più multiple, “a spezzatino”, cangianti o imprecisate, imbattersi in prescrizioni così fatte: un antipsicotico per i sintomi negativi (a volte un tanto di clozapina, che invece andrebbe usata in monoterapia anche per profili di sicurezza!), uno per i sintomi positivi, uno “sedativo” per gli stati di agitazione (veri o presunti: e qui va ricordato che la sedazione è ufficialmente considerato un effetto collaterale indesiderato); uno o due benzodiazepine, magari in gocce, per il giorno (per “ammansire” e rendere, attraverso la dipendenza, più accettabile la terapia neurolettica), più una per la notte come ipnoinducente (a volte associato a un altro neurolettico sedativo); uno o talvolta due stabilizzatori dell’umore (per eventuali stati di eccitamento o depressione), ma anche spesso un antidepressivo per controbilanciare la caduta del tono vitale complessivo (più che dell’umore), e talora anticolinergici per gli effetti extrapiramidali. Non infrequente infine, anche per persone inserite in famiglia o in altri contesti abitativi o residenziali supportati, con la presenza costante di caregivers, la somministrazione di neurolettici ad azione protratta (depot), anche a soggetti “complianti”.

Tutto ciò per periodi indefiniti, spesso sine die, salvo pochi aggiustamenti o introduzione di molecole nuove da mescolare alle altre. Si converrà che si tratta di malpractice, senza se e senza ma, che si determinano spesso per accumulo e stratificazione “storica” di varie prescrizioni e di differenti prescrittori. Tutto ciò con buona pace dei primi libretti degli anni ’70 e ’80, che raccomandavano monoterapie per verificare con rigore gli effetti del singolo farmaco ed evitarne le interazioni (oggi neppure considerate, nonostante le accresciute conoscenze sui neurotrasmettitori e le vie neuronali); ma anche in barba alle rigorose indicazioni dell’AIFA che intorno al 2006 prescriveva, in conseguenza delle prime dimostrazioni di cardiotossicità dei neurolettici/antipsicotici, procedure rigorose di controllo della funzionalità cardiaca, e impendendo la simultanea prescrizione di più di un neurolettico e quella concomitante delle benzodiazepine. Non ultimo, limitando a casi eccezionali e verificati l’uso off label di molti medicinali, che invece ora domina incontrastato e senza verifiche.

Occorre chiedersi che tipo di formazione stanno avendo in questi anni gli psichiatri nelle scuole di specializzazione, anche restando solo sul tema farmaci: chi li forma, chi li supervisiona nei tirocini, chi verifica e li corregge, caso per caso, evitando che si creino sottoculture del “fai-da-te”, che alla fine rispondono più alle sollecitazioni degli informatori medico-scientifici che agli studi e alle linee guida più rigorose (o a un’esperienza clinica discussa e condivisa). Ma ciò non sembra accadere in maniera sufficiente come dovrebbe, altrimenti non si spiegherebbero le pratiche prescrittive autoreferenziali e alla fine decisamente lontani da ogni razionale condivisione. Ve lo figurate un cardiologo in formazione che non viene corretto dai suoi tutor e docenti? Sarebbe semplicemente scandaloso, ma così non è nel variegato mondo delle psichiatrie.

Veniamo quindi alla spinosa questione del non-uso o della sospensione del farmaco. Senza scomodare i classici studi di 30 e più anni fa (Soteria a esempio), la ricerca più recente sembra essere assai cauta sull’impiego precoce agli esordi degli antipsicotici, e alcuni lavori, come il famoso follow-up a 15 anni, condotto da Harrow e Jobe, e più recentemente lo studio OPUS II in Danimarca o lo studio di coorte sul Dialogo Aperto, hanno mostrato una migliore recovery di coloro che non ne hanno fatto uso o lo hanno interrotto presto. Così pure l’impiego degli antidepressivi in forme lievi di depressione vede studi che mostrano la loro equivalenza al placebo o all’esercizio fisico (come ha dimostrato Kirsch). Quindi è giusto e possibile considerare non solo la dose minima efficace ma strategie di impiego intermittente e non necessariamente di lungo periodo, data l’estrema varietà dei quadri, delle caratteristiche individuali e dei contesti familiari e sociali.  Per di più, si moltiplicano i manuali per la sospensione dei farmaci, evitando l’effetto della withdrawal syndrome (sindrome da astinenza) con il rebound dei sintomi (contraccolpo, inasprimento) e impiegando accorti stili di vita, come l’ICARUS Project e altri, mentre leader del movimento sulla recovery come Pat Deegan ne teorizzano la pratica di autogestione, col sostegno del medico, e l’uso flessibile. Non va qui dimenticato il grande apporto di alcuni psichiatri che hanno sperimentato trattamenti drug-free (come Magnus Hald in Norvegia), o si sono dedicati all’uso critico dei farmaci con rigore di analisi, come Joanna Moncrieff (che ha messo in luce ad esempio l’inconsistenza metodologica di abbinare i farmaci alle condizioni patologiche che essi dovrebbero trattare primariamente), e di ben noti storici ed esperti a vario titolo di questo ambito, come Alain Ehrenberg e Nicholas Rose e, su posizioni più radicali, Robert Whitaker.

Il problema è che cautele e attenzioni nell’uso dei farmaci, o anche alternative a essi, dovrebbero essere fatte proprie dai servizi pubblici, e non offerte da gruppi o specialisti privati autonomamente; o almeno dovrebbe esserci collaborazione e dialogo costruttivo. La nostra esperienza (a Trieste) è sempre andata nel senso di “provare in modo concordato” a diminuire e a sospendere le terapie, ma all’interno di un’alleanza terapeutica e di un’offerta complessiva, anche abilitativa ed emancipativa; e forse oggi, avendo a disposizione nuove evidenze e adeguate strategie, si potrebbe essere più coraggiosi.

In un contesto che sembra sempre più polarizzarsi tra chi demonizza i farmaci e chi ne espande acriticamente l’uso – soprattutto su coloro che sono in carico costante e continuativo ai servizi – sembra esserci sempre meno spazio per quell’ “uso razionale”, fondato sull’appropriatezza, che fu ispirato dal fondamentale lavoro critico degli inizi. E che ebbe un ruolo non secondario nella riforma psichiatrica e nella lotta anti-istituzionale, modificando l’immagine del farmaco da strumento di controllo del comportamento nei manicomi a strumento importante all’interno di una presa in carico, utile a volte a facilitare la relazione terapeutica ma certo non a sostituirne il fondamentale apporto. Il “cappotto farmacologico”, spesso di misura unica (one size fits all), non permette neppure di ipotizzare un’evoluzione verso la recovery di un soggetto non appiattito, ma lucido e con sufficiente energia vitale.

Tra i tanti aspetti di degrado e di involuzione, crediamo che questo sia tra i più aggredibili attraverso un concorso di prese di posizione autorevoli, magari “di consenso”: ritengo necessario e possibile oggi un rilancio dell’impegno a fornire linee guida rigorose, e adatte al contesto di salute mentale territoriale italiano, da parte di quelle istituzioni che ne furono protagoniste fin dal principio. Prima di buttare via i farmaci o di assolverli indiscriminatamente, proviamo a usarli meglio, insieme a tutti gli altri interventi necessari e all’interno di un progetto globale.

Bisogna avviare un percorso che tenga in considerazione le persone che usano i servizi e i loro familiari, attraverso le organizzazioni che li rappresentano. Una pratica che informi le persone sugli effetti, desiderati e non; che il farmaco non cali dall’alto, dal “prescrittore” al “paziente”, ma che assuma la qualità del gesto di cura e di attenzione, insieme ai tanti altri che riguardano la sua vita; che si adegui all’estrema variabilità individuale della risposta. Il prescrittore non può non operare costantemente per un progetto terapeutico e riabilitativo condiviso, negoziato e discusso sempre nella considerazione della singolare presenza dell’altro prima salvaguardia per una psichiatria, e una salute mentale, semplicemente umana.

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