di Pier Aldo Rovatti

A Udine, un paio di anni fa, si consuma un crimine. Un algerino uccide un colombiano a coltellate. Abdelmalek ha una vita travagliata, traumi alle spalle e difficoltà di integrare la propria cultura religiosa al nostro mondo. Usa truccarsi gli occhi con un belletto di nome kajal. Viene deriso da un gruppo di giovani tra cui Novoa. Quest’ultimo gli rivolge l’appellativo di ”frocio”. Abdelmalek si infuria e lo ammazza. Ma ciò che fa davvero notizia è la sentenza, ora pronunciata dalla Corte d’Assise di Trieste. Ad Abdelmalek vengono riconosciute delle attenuanti, una in particolare, tanto inabituale da risultare una novità assoluta in materia: la sua ”vulnerabilità genetica”. La cosa è clamorosa e merita che la si consideri seriamente, dato che in essa potrebbe profilarsi una trasformazione della nozione comune di responsabilità e anche un’idea di vita alla quale non siamo avvezzi. È un bene o un male? A qualcuno sembra una vera e propria assurdità. Abdelmalek è stato sottoposto a test minuziosi, utilizzando tecniche sofisticate di scansione cerebrale (tecniche ormai collaudate nell’ambito delle neuroscienze e della biomedicina): sarebbe risultato che possiede uno o forse entrambi gli ”alleli” che aumentano il rischio congenito di comportamenti aggressivi, e che dunque è da questo punto di vista un soggetto geneticamente a rischio. E poiché lui non è responsabile (ovviamente) di tale deficit genetico, le sue responsabilità penali si attenuano. Secondo lo psichiatra Mario Novello (che ha una grande esperienza anche in fatto di perizie) non c’era alcun bisogno di scandagliare i geni di Abdelmalek: sarebbe stato sufficiente, per ottenere il medesimo risultato, lavorare sui suoi vissuti e sulle sue sofferenze psichiche, con il vantaggio che così non sarebbe stata messa fuorigioco, seppure parzialmente, la questione della responsabilità, sulla quale invece deve basarsi qualunque giudizio penale. Di questo passo – mi dice – ci troveremo in udienza una qualche ”macchina della verità” che ci dirà cosa fare! Il che non accade neppure negli Stati Uniti, dove da vent’anni si discute in modo approfondito e diffuso la questione della biomedicina e della cosiddetta ”identità somatica”. Infatti, se andiamo a vedere lo stato di tale dibattito scientifico, ci accorgiamo che esso è attraversato da molte perplessità e inviti alla prudenza. Può darsi che siamo alle soglie di una nuova etica fondata sulla genetica (e quindi a un’ulteriore dimensione del governo degli individui e anche del governo di se stessi), ma intanto (se non nelle fiction) nessuno si azzarda a parlare di ”geni cattivi”, e la comunità scientifica più consapevole ha ben presenti i pericoli di scivolamento nel riduzionismo biologico e di ricadute in forme non tanto mascherate di razzismo applicato al genoma. Non ci riferiamo a gruppi di popolazione – avvertono -, ma agli individui in quanto tali e alle loro differenze. Ed è un avvertimento quanto mai opportuno, ma molto discutibile. L’espressione ”vulnerabilità genetica” appare invece alquanto drastica, almeno poco cauta. È inquietante, soprattutto se valutiamo dove e come è stata prodotta. Siamo immersi, oggi, in un contesto sociale che fa leva proprio sulla vulnerabilità dei soggetti, intesa come tecnica di potere e come riduzione degli individui a portatori di deficit o semplicemente malati. Ciò incrementa comportamenti passivi e di dipendenza, e penalizza di converso l’attività dei soggetti, la loro responsabilità (la responsabilità, innanzi tutto, nei confronti della propria vita), le chance di protagonismo di cui ciascuno può e deve disporre. Alcuni profetizzano che l’identità biologica e genetica potrebbe essere, al contrario, uno strumento di promozione soggettiva, e perfino di libertà, un vantaggio per la gestione delle proprie vite. Ma esistono validi motivi per restare perplessi di fronte all’ipotesi di un simile scenario, nel quale le nostre vite sarebbero già scandite, o potenzialmente scandite, a nostra insaputa. Nel quale, per esempio, tutti i nostri bambini sarebbero precocemente passati al vaglio per individuarne le eventuali anomalie genetiche. È facile scorgere in pratiche come questa, e in tutte le altre analoghe, un misto di utilità sociale e di nuove forme di controllo. Si approfondirebbe il solco tra una vita che sempre più deborderebbe da ciò che di essa possiamo sapere in prima persona, e i vissuti, cioè la vita concreta che scorre attraverso le nostre storie personali e i nostri modi di soggettivarla. C’è il rischio che la vita venga ridotta a corpo, e che il corpo si allontani da noi diventando sempre più un corpo estraneo, che non ci appartiene perché si è trasformato in un corpo ”scientifico”.

(da Il Piccolo 30.11.2009)

1 Comment

  1. Leda Cossu

    nasce prima l’uovo o la gallina? Quante generazioni ci vogliono per un’impronta genetica? Scopriremo poi che non solo singoli… ma intere famiglie saranno portatrici sane o malate di alleli?
    A quante madri è stato diagnosticato con prelievi intrauterini malformazioni genetiche ed invece i bimbi erano sanissimi, viceversa salute certa ed invece i bimbi erano malformati? Cosa si imprime di generazione in generazione nelle nostre vite che giustifichi una caratteristica genetica, un’attitudine, una malformazione ecc?
    Ogni esperienza crea uno stato biologico, che sia gioia,dolore, malattia… ma come si fa a collegare ciò che si imprime nella nostra memoria biologica, di generazione in generazione? L’impronta che diventerà/è divenuta di generazione “anche” genetica com’è possibile collegarla con il comportamento di una persona, il bene e il male “a priori” e dedurne responsabilità connesse?
    Una cultura che frammenta l’essere umano, che lo assolve a priori o lo riconosce a priori predisposto.
    Saremo giudicati colpevoli solo se non avremo gli alleli?Come si fa insomma a negare il valore dell’esperienza, da una parte collegarla con il corpo e dall’altra separarla e addirittura traburla in bene e male.
    Chissà che esperienze meravigliose può consentire, ad una persona vissuta in un contesto umano accogliente, l’avere degli “alleli”. Davvero solo aggressività? O non magari creatività, altre potenzialità.
    E’ scienza isolare dei geni per ridurli ad un solo comportamento conseguente?
    Sicuramente giudici e periti avranno voluto aiutare questa persona deresponsabilizzandola.. chissà cosa ne pensa la sua famiglia e se dovrà riflettere se essere portatrice sana o malata (e giustificarsi.. o curarsi).
    Le conseguenze mi sembrano a macchia d’olio e aberranti.
    In questo modo a me sembra che ci sia un timore, una rinuncia ad assumersi la responsabilità di un giudizio che tenga conto di tutti gli elementi in campo, non solo dei geni.
    Deleghiamo ai geni fino a che non saremo ridotti a robot, ogni comportamento previsto/corretto? Allora tutto potrebbe diventare molto più semplice, deresponsabilizzato per tutti… e la cura? Un’oliatina agli ingranaggi? Ovviamente previa una scheda del singolo, del gruppo di appartenenza..

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