miloneDi Paolo F. Peloso

Ho trascorso la vita a distanza ravvicinata dalla Bestia.

Non l’ho mai guardata negli occhi ma c’era:

il suo fetore, il suo respiro, l’ombra,

il suo rauco cuore, lo spostamento d’aria quando si muoveva: c’era.

Non l’ho mai ferita, né catturata, né domata, meno che

mai ferita e squartata, come si dovrebbe.

Non mi ha mai azzannato, strappato un arto o divorato.

Lei c’era, io c’ero. Ci siamo semplicemente controllati a vista.

Il senso della mia vita.

Paolo Milone, 2021

Caro Paolo, ti confesso che prima di iniziare a leggere il tuo libro L’arte di legare le persone che gentilmente mi hai fatto spedire, mi è stato necessario scavalcare un ostacolo impervio: andare oltre il titolo.

Un titolo puoi immaginare quanto destinato a essere indigesto a me, che ho sempre pensato che la psichiatra sia – da quando Pinel l’ha fondata a quando Basaglia l’ha sottoposta a radicale revisione – proprio l’opposto: sia cioè l’arte (la tecnica?) di non legare le persone. L’arte di utilizzare cioè la persuasione – o al più la suggestione – per bloccare la violenza e il pericolo che in certi momenti possono accompagnare la follia, anziché dover legare il corpo come anticamente facevano i familiari e gli amici (ho trovato riferimenti a questo in una lettera dell’imperatore Marco Aurelio o ne LOrlando furioso o il Don Quijote) e più recentemente – dopo la fondazione dello Stato moderno nel XVII secolo – facevano le polizie.

Che del libro dovessi scrivere una recensione, mi era chiaro dall’inizio; non solo perché immagino che tu me l’abbia mandato anche per questo, ma anche perché qualche collega non genovese, incuriosito dal titolo, mi ha cominciato a chiedere di cosa si trattasse prima ancora che io sapessi dell’uscita. Anzi, ho il vezzo di pensare che a sapere cosa pensi io del libro tu ci tenga in modo particolare proprio per l’impegno che ho messo in questi anni a spingere gli operatori della nostra regione a problematizzare il fatto di legare le persone. Se con il titolo intendevi dare un pugno nello stomaco al lettore e stanarlo, insomma, immagino di esserti sembrato un buon bersaglio.

L’operazione letteraria cui hai posto mano è audace, spregiudicata, temeraria direi; si muove costantemente su un terreno delicatissimo dove è un attimo fare guai ed è costantemente giocata sul filo dell’ambiguità e del paradosso. Fatico ad accompagnartici, perché mi fa paura: so quanto il fronte di coloro che si battono contro la contenzione sia debole, e so quanto un misto di paure e complicati sentimenti di colpa renda gli psichiatri restii a lasciare i rassicuranti ormeggi del potere di legare.

Accetto di farlo, ma prima ho bisogno di chiarire dove sta la letteratura e dove sta la realtà. Forse, sarà perché dentro alla realtà della psichiatria io ci sono ancora a tutto tondo. Nella realtà, credo che legare le persone sia una brutta cosa, anche quando fosse davvero indispensabile; e l’arte – un’arte a volte difficile ma bella – semmai stia nel riuscire a farne a meno.

Se si confondono realtà e letteratura, il rischio è che la definizione che dai nel titolo della psichiatria irrompa, saltandolo a piè pari, nella storia di un dibattito che l’attraversa da quasi due secoli e conosce in questi ultimi anni momenti particolarmente aspri, dei quali ho cercato di sintetizzare qualcosa su questa rubrica. E che strida con la sofferenza di tanti, uomini, donne, persino bambini, che dell’arte di legare le persone degli psichiatri hanno fatto esperienza da persone legate, e in qualche (per fortuna raro) caso, come ci ricorda la cronaca, da legate sono anche morte.

Il caso ha voluto che, tra altri di Einaudi, il tuo libro cadesse, nello scaffale, proprio a fianco di uno di Eugenio Borgna che ho recensito un paio d’anni fa. Il che mi fa pensare che se quella casa editrice è ancora alla ricerca di una risposta alla domanda che poneva un testo che ha pubblicato cinquant’anni fa – la seconda edizione del basagliano Che cos’è la psichiatria? – beh, due risposte più dissonanti al quesito non poteva davvero proporre.

Si tratta, in entrambi i casi, di opere scritte da psichiatri arrivati al termine della carriera – quella nel servizio pubblico – nelle quali si parla di psichiatria; ma sarebbe un errore andare oltre nell’accostamento. Quello di Borgna è, pur nell’eleganza dello stile e nei costanti riferimenti letterari, a tutto tondo un saggio; e la voce narrante corrisponde decisamente a lui, Eugenio Borgna. Il tuo invece non è un saggio, mi pare, anche se affronta attraverso lo strumento della letteratura temi che di solito si affrontano nei saggi; e quanto alla coincidenza tra voce narrante e autore, la questione è complessa.

Quanto a te, l’autore, quando ti ho telefonato per ringraziarti del libro ci hai tenuto a ricordarmi che per la sua comprensione è necessario tenere presenti le circostanze nelle quali hai lavorato. Un Spdc anomalo, mi dicevi e in parte sapevo, nel quale, per ragioni inerenti l’organizzazione di quell’ospedale, il rapporto col corpo del paziente era particolarmente stretto, perché era lì che venivano trattati i delirium tremens, gli stati confusionali o le intossicazioni o altro, che in altri ospedali vengono risolte prima dell’eventuale passaggio in Spdc, in Pronto Soccorso. Per questo, mi dicevi di non sopportare i colleghi del noli me tangere, quelli abituati a lavorare distante dal corpo dell’altro. Altra cosa da tenere presente, mi dicevi, è il fatto che il setting cui fai riferimento corrisponde quasi sempre alla “psichiatria d’urgenza”.

Relativamente al primo punto, prendo atto e riporto. Solo, forse sarebbe meglio che gli psichiatri cercassero di limitarsi a fare il loro; è già abbastanza difficile. Quanto alla psichiatria d’urgenza, per come la vedo io  credo che possa esserle riconosciuta qualche specificità nell’ambito della psichiatria, ma non troppa. Per essa, infatti, credo che debbano valere gli stessi valori e lo stesso stile di lavoro del resto del circuito; e anzi, credo che l’urgenza rappresenti proprio la cartina tornasole alla quale valori e stile possono essere messi alla prova. Nessuno darebbe fiducia a una psichiatria che sia “ascolto gentile” nei setting della presa in carico, della clinica, della riabilitazione o della psicoterapia; e poi si scoprisse “arte di legare” nel momento dell’urgenza. Non credo che il momento dell’urgenza, insomma, sia un pezzo a sé; per me è parte di un tutto.

Che dirti in generale del libro? Non posso farne un commento sul piano letterario; sono uno psichiatra, e quindi credo che ti aspetti che mi confronterò col contenuto. Ho letto su Robinson di Repubblica del 30 gennaio che Nicola Lagioia apprezza del tuo stile il fatto di mettere «il verso libero al servizio della narrazione» dando vita a «un libro unico nel panorama italiano per forma, capacità di scavo, capacità d’indagine, arte del paradosso», e propone un accostamento all’Antologia di Spoon River. Mi fido del suo giudizio. Quanto a me, accenno solo da lettore di narrativa al fatto che l’uso che fai dell’esagerazione, del paradosso, della contraddizione e dell’incazzatura, del gusto dell’anticonvenzionale, mi richiama alla mente il tono delle “confessioni” di due personaggi di Dostoëvskij: il protagonista-narratore delle Memorie del sottosuolo e quello de La mite. Frammenti di coscienza insomma, susseguirsi di libere associazioni la cui poesia e il cui pregio alla lettura mi pare stiano proprio in questo procedere per impressioni, frammenti, contraddizioni, aforismi nei quali improvvisamente ci si imbatte, di due personaggi rancorosi a proposito dei quali, il primo soprattutto, i critici s’interrogano da un secolo e mezzo su quanto le loro parole appartengano solo al personaggio o anche all’autore.

Nello stesso enigma mi sono imbattuto scorrendo il tuo libro, entrandoci in risonanza, litigandoci eventualmente, facendoci anche a cazzotti senza poter sapere fino in fondo quanto quello con cui avevo a che fare eri tu, e quanto un personaggio letterario cui hai prestato i tuoi dubbi, la parte “cattiva” e incazzata di te (l’abbiamo tutti dentro) alla quale ora ti sei sentito libero di dar voce. E al quale hai aggiunto, magari, anche qualcosa in più; soltanto suo.

A questa ambiguità ci si deve rassegnare. Non è un saggio, del resto; è un’opera letteraria. E parrebbe – ma non accetterai mai di dirmi quanto sì e quanto no – che il protagonista-narratore non coincida, almeno non del tutto, con l’autore. Mettiamoci quindi d’accordo: facciamo che la responsabilità dei contenuti del libro sia del dottor M. E poi quanto M. stia per Milone, sei solo tu a saperlo; a me peraltro non occorre.

Non so se stia tra i pregi di un libro quello di irritare il lettore. Forse sì, perché il successo di un libro sta nel destare emozioni, e non deve necessariamente trattarsi di emozioni gradevoli. Comunque, all’impatto con le prime pagine scritte dal dottor M. mi irritava il ritmo frettoloso e frammentario che dava l’impressione del lavoro dello psichiatra come l’urtare della pallina del flipper tra un’avventura straordinaria, un incontro strano, eccezionale, buffo, un TSO e una contenzione. Come se non ci fossero in mezzo a questi anche momenti nei quali con il paziente si ragiona e si lavora in modo costruttivo, non ci fossero progetti (sogni anche, speranze) condivisi con lui. Non ci fosse un telos, uno scopo, un “progetto” che desse un senso complessivo al di là di evitare il pericolo, che avesse a che fare con la possibilità, per l’altro, di una vita più libera e più felice. Provavo fastidio per la mancanza, tra una situazione eccezionale e l’altra, di un interstizio che è fatto nella realtà di gruppi di lavoro, lavoro con il paziente, a volte con le famiglie o le brave persone. Mi irritava la posizione oggettivata nella quale avvertivo il paziente, ridotto alla sua follia, come se la follia non fosse invece una parte di lui che, il più delle volte, ci spaventa insieme e con la quale (contro la quale spesso) ci troviamo, insieme, a negoziare o a combattere. Mi irritava il senso di un eccesso di protagonismo, il grandeggiare dello psichiatra e lo spirito d’avventura come fosse l’eroe solitario di un film western. Mi veniva in mente la statua di Pinel alla Salpétrière: lo psichiatra alto, ritto come un imperatore romano e il paziente piccolino, accasciato ai suoi piedi; nessun altro. Mi dava fastidio, ogni volta che mi c’imbattevo, quel riproporre ossessivamente la giaculatoria semplicistica delle diagnosi, con la pretesa che possano esse bastare a rendere il comportamento dell’altro leggibile, prevedibile, scontato. E come se ogni schizofrenico, non fosse sempre molto più di quello, e non fosse tale sempre in modo originale e unico. Bisognerebbe non confondere mai la Bestia, credo, con coloro che sono costretti a guardare la Bestia da vicino. Non mi ha convinto neppure l’idea che il superamento di una crisi psicotica renda di per sé migliori; dipende. Mi irritava il cinismo quasi ostentato del dottor M. nel quale a tratti m’imbattevo, così distante dalla pietas che avevo amato ne L’ascolto gentile.

Fin qui, quindi, le cose per le quali ho sentito il dottor M. distante. Ho cominciato a conciliarmi col libro dopo una cinquantina di pagine, quando alla comparsa di Lucrezia il ritmo rallenta, compare la relazione, compare la persona; compare prima il dolore della paziente, e poi quello dello psichiatra. Se di questo libro bisogna trovare una co-protagonista, accanto al dottor M., è lei. E se bisogna identificare un tema principale accanto a quello del legare le persone, è il fatto di non essere riusciti a evitare il suicidio del paziente: «qualcuno mi deve aver detto che ti sei incamminata verso la balaustra, e ti sei gettata di sotto». È il momento più brutto del lavoro psichiatrico; un rovello che affiora, scompare e riaffiora nella trama del libro e della vita, con il quale nell’esperienza di tutti noi, credo, è impossibile trovar pace. Una mezz’ora di ritardo…un momento di distrazione o di affaticamento, la sottovalutazione di un segnale… E dopo non è più possibile rimediare.

Procedendo nella lettura, così, ho sentito la consapevolezza del lavoro psichiatrico da parte del dottor M. farsi più vicina a quella che ne ho io, ho apprezzato certi bozzetti di vita nell’ospedale o nei servizi molto veri e ho vissuto con il dottor M. anche momenti di sintonia, come quando scrive: «ma questa è la cosa bella del nostro mestiere: si passa dalla tauromachia a distendere la mano perché una farfalla in volo vi si posi leggera». È vero! Così, anche a me è capitato a volte come a lui di sentirmi stringere il cuore, perché non avrei voluto lasciare Filippo in luoghi istituzionali isolati, lontani, stretti, rigidi, cronicizzanti. Anche a me è capitato a volte di subire il fascino di chi stava al di là della scrivania e pensare: «Chiara, se tu non fossi tu e io non fossi io»… Se l’occasione per la conoscenza tra noi non fosse stata questa… Anche a me è capita di pensare che: «i pazienti mi lavorano ai fianchi, ma chi mi dà il colpo di grazia sono i colleghi».

Mi ero appena riconciliato, insomma, con le parole del dottor M. che però siamo arrivati insieme al punto: perché parlare del legare le persone? Per evitare «che si bonifichi», spiega lui, «il presente mettendo il male nel passato». Ma è proprio dal passato, invece, gli ribatto, che la psichiatria è aspirazione a non legare: dall’antico gesto liberatore di Pinel che John Connolly ha reso concreto mezzo secolo dopo ed Ernesto Belmondo, genovese come noi due Paolo, ha proposto lucidamente nel 1904 agli psichiatri italiani.

O anche perché, insiste il dottor M., «quando un metodo di lavoro ha salvato la pelle a te e ai tuoi pazienti, io ho difficoltà a parlarne male». E io in risposta a chiedergli: ma siamo così sicuri che quel “metodo di lavoro” fosse l’unico cui era possibile ricorrere ogni volta che l’abbiamo fatto? Che organizzando meglio l’assistenza territoriale (quella dove può anche capitare di fare psichiatria aggiustando lo scaldabagno, ed è anch’essa psichiatria!), l’accoglienza in ospedale, la vita nel Reparto 77 e negli altri, non si sarebbe potuta evitare quella situazione? Siamo sicuri di non avere sopravvalutato le intuizioni degli infermieri vecchi che «capiscono all’istante» e degli psichiatri ai quali «bastano due minuti per capire se un paziente è convincibile o no», e davvero non valeva la pena di aspettare ancora e insistere ad «andare avanti a nuotare controcorrente nella follia»? («posso sbagliare», scrive il dottor M.; e io a rispondergli: «sì che sbagli!»). Ci siamo sempre ricordati che se, certo, «è cattivo chi abbandona il paziente», però esiste anche una possibile “cattiveria” nel legarlo, dalla quale dobbiamo, altrettanto, tenerci al riparo?

E come è possibile poi, sbotto alla fine, confondere come fa il dottor M. a un tratto l’arte di legare le persone al letto (proprio una brutta arte) – e qui il dottor M. mi ha fatto davvero incazzare perché è un equivoco al quale gli amici della contenzione si aggrappano spesso, in malafede – con quella di legare le persone a sé, le persone alla realtà, le persone a se stesse?

Chi confonde la realtà della cinghia con le sue bellissime metafore sta imbrogliando le carte!

Non sono gli unici dubbi, del resto, che mi suscitano le considerazioni alle quali, nel suo intenso e contraddittorio flusso di frammenti di coscienza, il dottor M. si abbandona; e mi addolora ancora di più leggere che «violenza e libertà sono tematiche psicologiche, non psichiatriche». Che «il paziente psichiatrico in acuto non concepisce il significato di violenza e libertà» (pericolosissima fantasia). Che «se tu gli dai gentilezza e libertà» – che è proprio ciò con cui Connolly proponeva di sostituire la contenzione – «lo uccidi». O addirittura che «la parola è impotente in psichiatria» (?!). Che «la poesia non frequenta la psichiatria»…

Ma che cos’è questo paziente della psichiatria insomma secondo il dottor M.: un extraterrestre, uno che è ancora considerato “alieno” e non “altro”? Sento tanta disperazione in questa concezione dell’incontro psichiatrico!

Poi il dottor M. mi sorprende, ancora, quando leggo: «si riesce a lavorare in Psichiatria solo se ci si diverte. Io mi sono divertito per anni». Poi però scrive che non si è divertito né all’inizio, né alla fine, né in mezzo; e allora mi viene da pensare che forse il dottor M. si diverte così, a fare impazzire il lettore!

Io non ho mai pensato di dovermi divertire sul lavoro; è un luogo in cui ci si occupa della sofferenza. Semmai, ho sempre pensato che a divertirsi dovessero essere loro, i pazienti, almeno nei luoghi della riabilitazione; noi, per il nostro lavoro riceviamo il salario con il quale possiamo cercare di divertirci nel tempo libero, eventualmente anche coi colleghi, ma fuori.

Caro Paolo, insomma, non so se e quanto sei d’accordo con me, ma giunto al termine del tuo libro io avverto soprattutto nelle parole del dottor M. una sorta di confessione di due peccati che lo tormenta avere compiuto: non avere saputo evitare il suicidio di alcuni dei propri pazienti, e avere legato le persone. Riguardo al primo, al quale dedichi le pagine che ho trovato, entrandoci in risonanza, più vicine alla poesia intesa come arte di sfiorare la verità muta e segreta delle cose, sappiamo tutti e tre – io, te, il dottor M. – che è impossibile rappacificarci; rimangono ferite non rimarginabili con le quali dobbiamo convivere sul lavoro e nella vita. Quanto al secondo peccato, mi pare che il dottor M. non ne sia pentito e che lo rivendichi anzi finendo a tratti per farne quasi l’apologia; ma su questo non è proprio riuscito a convincermi…

Però, spero con questa lettera che ti scrivo di avere incuriosito qualcuno a conoscerlo meglio leggendo il tuo/suo libro, il dottor M.

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