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Il 27 maggio di due anni fa, i vigili urbani di Sant’Arsenio, nella provincia cilentana di Salerno, entrarono in casa di Massimiliano Malzone, un’ora e mezza prima dell’arrivo dei medici, per sottoporlo a Trattamento Sanitario Obbligatorio.  Lo portarono nel servizio psichiatrico di diagnosi e cura, dove fu ricoverato, alla famiglia non fu permesso fargli visita per i dodici giorni successivi. Il 10 giugno Massimiliano Malzone morì in quello stesso reparto per un arresto cardiaco improvviso: le massicce dosi di psicofarmaci per sedarlo e la contenzione (forse attuata) le probabili cause.

Mentre la magistratura sta ancora indagando per comprendere cosa sia accaduto e le eventuali responsabilità mediche della morte di Malzone, ci si continua a interrogare sulla necessità e l’utilità di questo trattamento, sui valori che sottende e le pratiche in cui si articola.

Si disse e si dice “morte per Tso”. Ma c’entra davvero il Tso in  questa morte, e  in altre per certi versi simili?

E per rispondere e fare chiarezza rispetto a iniziative che sembrano avventate, conviene tornare  ai valori e alle pratiche che possono avvicinarci a una comprensione possibile di un trattamento, il Tso, che si muove su un margine esile, su un delicato punto di equilibrio  sempre a rischio di distorsioni e fraintendimenti.

Ancora una volta, conviene ricordarlo: il TSO non è un mandato di cattura, non è un ricovero coatto, non è affatto la sottrazione di diritto che apre la strada a ogni forma di prepotenza, di mortificazione, di limitazione estreme delle libertà personali.

Il legislatore nel 1978 con la legge 180, intese restituire al cittadino, anche se folle, delirante, allucinato, agitato, “aggressivo”, confuso, violento, impaurito, terrorizzato il suo pieno diritto costituzionale. Uno strumento per garantire il diritto alla cura, alla salute, alla dignità.

Un dispositivo che nell’obbligare l’altro alla cura, crea un campo di negoziazione fra l’individuo e i servizi: sono questi ultimi che hanno l’obbligo di garantire quella cura, quella salute, quella dignità che la Costituzione (art. 32) e lo Stato riconoscono e che quella condizione di disagio grave mette così drammaticamente a rischio.

Nel relazionarsi con questo obbligo dei servizi, nella negoziazione che la legge 180 prevede in ogni suo passaggio, prende forma la possibilità di “comprendere”, di essere con l’altro, di collocare quella condizione, di frequente molto dolorosa, nella storia di quella persona, nelle relazioni, nei contesti.

L’aggettivo “obbligatorio” prima di tutto, dunque, dice che l’altro esiste. Posso “obbligare” qualcuno con un’ordinanza, una norma, una legge quando ho riconosciuto la sua autonomia e la sua possibilità di rifiuto.

Il compito che la legge indica al medico è quello di interrogarsi, di mettersi al centro delle controverse questioni etiche, di cercare il consenso alle cure con pazienza e tenacia. E lì dove ciò non accada, di farsi carico del rifiuto con una scelta responsabile che garantisca i diritti della persona, primo fra tutti quello di essere curato. Riconoscendo che non si può assumere il rifiuto per sostenere il rispetto sempre e comunque della libera scelta dell’individuo. Molto spesso “forzare” il rifiuto di persone che vivono costretti da una condizione di severo disagio individuale, relazionale e sociale, apre alla possibilità di rimontare abbandono,   solitudine, miseria morale e materiale.

In quel dialogo che deve instaurarsi tra il servizio e il cittadino compare  la persona l’individuo, la sua storia, i suoi bisogni.

Se questo punto di equilibrio si incrina, se le istituzioni che autorizzano il Tso e i servizi che lo mettono in pratica, lo fanno presupponendo l’equazione disturbo mentale / pericolosità, interpretando il TSO come una pratica di prevaricazione e coercizione, la responsabilità va cercata nel fallimento di politiche regionali coerenti per la salute mentale, nel declino dei servizi di salute mentale comunitari, nell’inconsistenza delle scuole di formazione, nella sottrazione costante delle risorse.

Alcune recenti iniziative nel tentativo condivisibile e necessario di scalfire quelle che sono delle pratiche di reificazione del malato, finiscono per proporre una visione che cristallizza l’immagine della malattia richiamando pericolosamente in campo giudici, tribunali, avvocati come se la condizione di disagio fosse un reato e la cura una carcerazione.

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