12742098_1773758236190871_468077508854837598_ndi Peppe Dell’Acqua.

Era la primavera del 1975. Avevamo avviato da un mese in una spaziosa villa veneta disabitata, Villa Fulcis, nei pressi di Belluno un soggiorno per 50 pazienti allora tutti internati nell’ospedale psichiatrico di San Giovanni, a Trieste. Tre infermieri, uno psicologo, ed io assieme ai cinquanta condividevamo tempi, spazi, relazioni. Restai in villa per tre mesi.

L’esperienza durò per più di due anni; il tempo che occorreva per portare a termine il radicale cambiamento di san Giovanni: dal manicomio ai centri di salute mentale aperti 24 ore, alle residenze in città. Per quei due anni gruppi di pazienti per periodi di due mesi soggiornavano a Villa Fulcis, imparavano a vivere “fuori”, a riconoscersi liberi dal tempo servo e dagli spazi geometrici del manicomio. La villa disponeva di un ampio prato verde. Quel prato fu la scena delle nostre prime esperienze calcistiche. Divenne quasi un’abitudine la partita di calcio quando era bello, dopo il riposo pomeridiano e prima di cena.Umberto, magro, sempre taciturno, immobile, quasi invisibile dimostrò tutta la sua abilità, la voglia perduta di correre, di gioire, di scambio con i suoi compagni.

Il lavoro di critica alle istituzioni totali, esemplari esperienze di trasformazione, ma anche il coinvolgimento attento, profondo, intelligente di tanti operatori dell’informazione produsse alla fine degli anni ’60 e nella decade successiva  nell’opinione pubblica un rapporto, sicuramente nuovo, difficile, più attento con la malattia mentale e le istituzioni che la contenevano. Più in generale con l’immaginario della follia.

Lo stigma, il pregiudizio che le istituzioni avevano sempre riprodotto veniva scoperto. I cittadini di fronte alle immagini della miseria e della violenza manicomiale erano increduli. Quelle immagini, quei racconti sembravano provenire da molto lontano, eppure erano lì più vicini di quanto mai si potesse immaginare..

Come mai una cosa simile era potuta accadere? Come mai – ci chiedemmo – siamo potuti arrivare fino a questo punto? Credo che mai nel nostro paese l’attenzione alla questione della malattia mentale, della psichiatria, delle istituzioni, sia stata così partecipata, coinvolgente, trasversale.

Arrivò la legge di riforma.

La palude degli anni ottanta, le resistenze al cambiamento, le polemiche strumentali intorno alla legge, i tentativi più volte posti in atto per stravolgerla e renderla vana hanno progressivamente mutato il quadro. Il disinteresse, il fastidio se non intolleranza, il pessimismo, i luoghi comuni sembrarono prevalere giustificando l’insufficiente impegno al cambiamento sia degli ambiti politici che amministrativi che accademici. Il declino dell’interesse alle buone pratiche e a sensate politiche di salute mentale sembra inarrestabile.

Tuttavia quanto si è prodotto in termini di conoscenza, di possibilità di ripresa, di cultura intorno al disturbo mentale, di tolleranza, di integrazione, di cittadinanza ha resistito e continua a contaminare altri ambiti dacchè associazioni di familiari, cooperative sociali, programmi di formazione e di integrazione lavorativa oggi esistono e vedono impegnati migliaia di cittadini non più contro qualcosa (o meglio non sempre e non soltanto) ma per la salute mentale. I programmi singolari di cura rendono possibili ora percorsi di ripresa a costo di fatiche, cadute, incertezze, conflitti, fallimenti. Le persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale, sempre più numerose parlano, si associano, partecipano; riconoscono la loro condizione e si interrogano consapevolmente sulla natura stessa della malattia e ci insegnano con pazienza che la cura della “malattia mentale” è possibile.

In ogni caso le discussioni intorno alla questione, la libera espressione di opinioni, il coinvolgimento di differenti luoghi istituzionali, le scuole, i tribunali, le università, le assemblee elettive locali e nazionali hanno dato luogo a una sorta di gigantesco programma, non concordato, di prevenzione e di salute mentale comunitaria. Malgrado resistenze e sciatterie e ostacoli di ogni sorta le buone cose resistono.

Il calcio, giocare a calcio, non è come suonare il violino. Chi dei tanti ragazzi che vivono, o hanno vissuto l’esperienza del disturbo mentale non ha, non ha almeno una volta giocato a calcio da bambino, da adolescente, nel cortile, per strada, in oratorio?

Alberto è un bravo giocatore. Da solo con la palla è perfino capace di virtuosismi. Aveva accettato con perplessità di venire a giocare: aveva paura dell’altro. Quasi abbandonava la palla quando un compagno, l’avversario cercava di contrarlo.

Le prime volte nel corso dei primi tornei tra le squadre dei diversi centri di salute mentale, un po’ per tutti, il problema sembrava un insondabile e irriducibile timore del corpo dell’altro, nell’avvicinarsi, ridurre la distanza, scontrarsi come accade nel gioco del calcio.

Era sembrato a molti invalicabile questo limite. Eppure i corpi si sono messi in movimento e il pallone sembrava avere infranto la campana di vetro, violato il cerchio di gesso, facendo scoprire il corpo proprio e la fiducia nel corpo altrui.

Da anni ormai con sempre migliore continuità programmi sportivi coinvolgono ragazzi e ragazze che attraversano i servizi di salute mentale.

Ieri la “nazionale dei matti”, una selezione, è partita per Osaka per il torneo mondiale di calcio a cinque. Fino a un’ora prima della partenza Stefano era senza passaporto. L’allenatore della sua squadra triestina ha penato per una settimana tra questura e agenzia delle entrate per avere il timbro. E’ partito da Trieste per arrivare a Roma quando già la squadra era al controllo passaporti. Domani la prima partita del torneo mondiale.

La spedizione dei “matti per il calcio”, fortemente voluta da Santo Rullo, psichiatra romano un po’ anomalo, ancora una volta si accosta ai confini che solo ieri sembravano invalicabili. Provoca, mette alla prova i processi di autonomia, di indipendenza e di rafforzamento delle persone che hanno, o hanno avuto a che fare con un disturbo mentale e allude alle altre scommesse che verranno. L’immissione nel campo di operatori naturali, l’uso di professionalità diverse, la partecipazione non più discriminata in associazioni e spazi operativi per tutti, attraverso la suggestione e la dimensione affettiva che si crea intorno al calcio, disegnano orizzonti e percorsi intorno ai quali siamo invitati a muoverci ed attrezzarci. Per affrontare le grandi imprese e avviare centinaia di  piccoli progetti di salute mentale.

Il passaggio attraverso ruoli e identità molteplici, le moltiplicazioni degli scambi e delle relazioni sono assieme strumento e obiettivo non tanto per sconfiggere la malattia mentale ma certamente per non esserne più travolti.

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