Da Liberazione, domenica 16 marzo 2008, di Maria Grazia Giannichedda

In questo trentesimo anniversario della sua approvazione, entra nel programma del Popolo Della Libertà (PDL) la “riforma della legge 180 del 1978 in particolare per ciò che concerne il trattamento sanitario obbligatorio dei disturbati psichici”, come si legge nel capitolo dedicato ai servizi ai cittadini. Questo annuncio mi pare segnali la volontà di riscossa di una parte del blocco sociale cui il PDL si riferisce: penso in particolare a settori della sanità privata che mai sono stati sconfitti, che oggi sono in sofferenza ma che valutano di poter approfittare, e non a torto, della crisi che i servizi pubblici attraversano da tempo, specie in certe regioni. Per questo mi pare utile lasciar cadere le analisi sull’idea di società che emerge da questo punto del programma del PDL, coerente del resto con i capitoli su sicurezza, giustizia, famiglia e con le notazioni su aborto, tossicodipendenze, e “pratiche assimilabili all’eutanasia”. Che il PDL declini tutti questi temi in chiave autoritaria e di controllo è ovvio. Ma mi pare più utile, per una corretta comprensione delle cose e per fare una battaglia puntuale ed efficace, andare a guardare quali concreti interessi il PDL voglia difendere tramite il controllo di ambiti e di persone che questo Popolo intende escludere dalla Libertà che sta nel suo marchio

Non è la prima volta che la Destra cerca di cancellare la 180. L’attuale preciso richiamo al TSO fa pensare, in particolare, al “testo unificato” che Burani Procaccini consegnò alla Commissione Affari sociali della Camera nel febbraio 2004, senza tuttavia riuscire ad avviare alcuna discussione per i contrasti interni all’allora maggioranza e per le esplicite resistenze da parte delle regioni che vi vedevano un’invasione di campo. Quel testo immaginava una sorta di psichiatria a due velocità, cioè un “percorso di trattamento limitato agli episodi di malattia, caratterizzato da un limitato impegno assistenziale e con modalità di accesso al servizio senza vincoli di territorio” e un secondo “trattamento intensivo prolungato per le patologie psichiatriche gravi”, che prevedeva ricoveri in strutture sia pubbliche che private e autorizzava anche queste ultime a fare sia i “normali” TSO, che oggi sono possibili solo in strutture pubbliche, sia un nuovo tipo di “TSO prolungato” che il progetto istituiva. La proposta, in sostanza, consisteva nella legittimazione, e moltiplicazione alla grande, di due fenomeni negativi mai del tutto scomparsi: i viaggi della speranza verso i vari luminari che offrono terapie farmacologiche e/o elettroshock e che alla fine consegnano ai servizi pubblici persone cronicizzate e impoverite; le degenze in cliniche private che, pur non potendo essere né obbligatorie né di lungo periodo, lo sono nei fatti, con la complicità di certi servizi pubblici e regioni.

E’ questo probabilmente il disegno che sta dietro alle due righe citate nel programma della Destra. Ma per coglierne appieno il senso occorre sapere anche un’altra cosa: gli studi privati dei luminari versano oggi in uno stato di relativa sofferenza, che riguarda anche e di più le cliniche private. La Destra vuole risollevare le loro sorti, e potrà riuscirci se le regioni, in gran parte amministrate dal centrosinistra, non mettono mano efficacemente e rapidamente alla situazione di impasse dei servizi pubblici di salute mentale. Il governo appena caduto non ha dato alcun contributo in questa direzione. Il ministero della salute ha perso tempo prezioso a costruire un lungo documento di quaranta pagine, le “linee strategiche per la salute mentale”, fitto di indicazioni amministrative che le regioni hanno il potere di ignorare; ha evitato del tutto ogni analisi e valutazione sui punti dolenti dei servizi e sulla qualità delle prestazioni; non ha indicato alle regioni poche e concrete priorità su cui intervenire, togliendosi così ogni possibilità di agire con una qualche speranza di efficacia e mostrandosi incapace, al fondo, di indicare in modo chiaro in quale direzione il servizio sanitario nazionale debba andare per applicare sul serio la “180”, come si fa in molte ASL e in pochissime regioni. Così oggi la Destra può immaginare il colpo di mano, ovvero la riscossa di un privato che non ha mostrato alcuna capacità di innovazione, che non ha successo di mercato e che ambisce, come sempre in questo campo, a vivere sul denaro e sulle insufficienze del pubblico.

Un dato esemplare di questa situazione viene da una piccola vicenda di un mese fa, quando l’Associazione Italiana per le Terapie Elettroconvulsivanti ( AITEC) ha indirizzato al ministero della salute una petizione per “favorire l’istituzione, nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura ( SPDC ) degli ospedali pubblici, di almeno un servizio di elettroshock per ogni milione di abitanti”. La petizione lamentava che in Italia, a causa di un ostracismo fondato su pregiudizi ideologici, il servizio sanitario nazionale fornisce questa prestazione solo in sei SPDC e in tre cliniche convenzionate, e lasciava immaginare, senza però offrire alcun dato, strutture oberate di lavoro per evadere una domanda che avrebbe dovuto essere enorme, se si richiedeva un tale ampliamento dell’offerta. Ma la verità è che in Italia l’elettroshock ha lentamente ma nettamente perso terreno e sono in pochissimi a richiederlo. Il più importante tra i centri italiani che lo fanno, la Clinica Psichiatrica dell’Università di Pisa diretta da Giovanni Battista Cassano, stando ai dati dell’Osservatorio regionale, ha effettuato negli ultimi anni cicli di elettroshock su un centinaio di persone all’anno, con una evidente tendenza al decremento (da 170 persone nel 2001 a 86 nel 2006) e una costante: circa un terzo delle persone provengono dalla Toscana. Difficile credere che questi dati siano evidenza di ostracismo: Cassano gode di prestigio scientifico e popolarità mediatica e ha una forte egemonia culturale nella psichiatria della sua regione, la cui normativa in questo campo è tutt’altro che repressiva. La Toscana vieta infatti l’uso dell’elettroshock solo sui minori e sugli ultrasessantacinquenni, limitandosi a monitorare il suo uso e a prescrivere procedure per il consenso informato. Il dato sullo scarso numero di elettroshock nel centro che vanta il maggior credito internazionale indica allora che il processo di riforma della psichiatria ha conseguito, pur tra limiti enormi, effetti positivi rilevanti: ha tolto di mezzo l’ospedale psichiatrico ( la petizione dell’AITEC citava come buoni esempi di alto uso dell’elettroshock paesi in cui l’assistenza psichiatrica è in gran parte o del tutto incentrata sul manicomio); ha prodotto un’offerta di servizi e di tecniche terapeutiche inesistenti prima della riforma; ha indotto chi vive la sofferenza mentale propria o dei familiari a volere ben altro che il manicomio o i suoi succedanei, come dimostra il documento recentemente diffuso, tra gli altri, dalla più importante rete di associazioni di familiari, l’UNASAM.

Gli stessi elementi che spiegano la crisi dell’elettroshock spiegano anche quella delle cliniche private, che oggi sono in una situazione simile a quella delle scuole cattoliche che hanno richiesto allo Stato un sostengo economico che compensasse il relativo insuccesso di mercato. I guadagni delle cliniche psichiatriche sono oggi minacciati da due versanti. Da un lato dai servizi pubblici e dal lento ma effettivo crescere, in diverse regioni, di strutture che consentono alle famiglie “una normalità non pagata al prezzo dell’internamento”, per usare uno slogan di anni fa. Ma oggi le cliniche sono minacciate anche dalla concorrenza delle strutture private di lungodegenza che offrono, spesso, null’altro che porte chiuse, farmaci, contenzioni, soggiorni pieni di fumo e attività futili, del tutto simili in questo alle cliniche psichiatriche ma assai meno costose. Potrebbe far comodo allora la proposta di fare in clinica i TSO e meglio ancora i TSO prolungati, garanzia di rette costanti e sicure. Se questo è il progetto della Destra serve a poco aprire o accettare un dibattito ideologico, bisogna seguire la pista dei soldi, follow the money, come dovrebbe fare ogni buon investigatore, e andare a vedere a cosa servono e cosa producono i soldi che i privati chiedono al servizio pubblico di salute mentale, spesso ottenendoli, e anche su questo sarebbe il caso di indagare.

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