Socialmente Pericolosi-Dangerous To Societydi Peppe Dell’Acqua. 

La storia della psichiatria potrebbe essere raccontata come una storia dell’abitare. La psichiatria, dalla sua fondazione ha cercato, progettato, edificato luoghi di contenimento e di separazione. Tra l’ ‘800 e il ‘900, ha costruito, spesso con una straordinaria enfasi, i luoghi dell’utopia, dell’ ottimismo, delle certezze scientifiche.

I grandi stabilimenti, con architetture ricche e suggestive, si sono strutturati sul modello medico biologico della malattia. La disposizione topografica di reparti, servizi e camminamenti in ragione dei comportamenti degli internati: dai tranquilli, ai violenti, ai pericolosi, ai lavoratori; degli specifici trattamenti cui sottoporli; delle modalità di vigilanza; della separazione per impedire la comunicazione.

 

In edifici pesantemente deteriorati, da Montelupo Fiorentino a Barcellona, da Aversa a Reggio Emilia, da Secondigliano a Castiglione  gli OPG italiani fondano il loro ordine, il loro funzionamento sullo stesso modello, sullo stesso paradigma positivista che ordinava scientificamente i nuovi e straordinari luoghi della follia della fine dell’ ‘800. D’altra parte non potrebbe essere diversamente visto che tutto quanto accade negli OPG è conseguenza del codice penale del 1930 e delle conoscenze intorno alla malattia mentale addirittura precedenti.

 

Tutti questi luoghi si presentano come una curiosa e tragica ibridazione tra il manicomio e il carcere. Luoghi peggiori del carcere che vorrebbero evitare, peggiori del manicomio che nell’ossessivo rimando alla pericolosità si ripresenta beffardo in ogni angolo.  A poco servono le generose intenzioni degli operatori che cercano di accreditare vivibilità, relazioni, funzioni terapeutiche.

In verità, nell’attraversamento di questi luoghi, si perde subito l’immagine utopica (ma quanto tragica!), ordinata e lineare dell’ospedale psichiatrico cui abbiamo fatto appena cenno, per assistere al sopravvenire dell’impronta e della strumentazione carceraria. Se l’ospedale psichiatrico mostrava enfaticamente la sua vocazione di contenimento della follia ridotta a malattia (i reparti, le camerate, le mense, i camerini d’isolamento, i giardini lì dove c’erano, i laboratori), l’OPG non può che mostrarsi con tutto il suo apparato detentivo e dichiarare la sua vocazione di contenimento della malattia mentale ridotta a pericolosità.

A Montelupo, per esempio, le celle, che ospitano dalle 4 alle 8 persone, sono chiuse da un pesante cancello di ferro, il “blindo”, che è a sua volta doppiato da una pesante porta. Sulle porte uno spioncino e sulle pareti delle celle altri spioncini posizionati in maniera strategica, tanto da permettere a chi vigila nei corridoi di poter osservare l’interno delle celle in qualsiasi momento. E’ immediatamente evidente la presenza delle divise degli operatori penitenziari che controllano i pesanti cancelli d’ingresso alle Sezioni e ai corridoi. Il rumore delle chiavi e dei cancelli che battono crea un’atmosfera greve e conferma l’immagine della prigione. Il cibo viene consumato in cella, esistono di rado luoghi di socializzazione. I blindo vengono aperti a orario: in alcuni reparti dal mattino alle 9 al pomeriggio alle 18. In altri per poche ore al giorno. Alcune celle, nella Sezione di Sorveglianza, non vengono mai aperte.

L’apertura delle celle porta gli internati che lo vogliano a frequentare il lungo corridoio che diventa l’unico luogo d’incontro. Anche se tutti potrebbero accedere all’ora d’aria, andare al verde, come dicono, non tutti lo fanno. Di fatto, la maggior parte degli internati vive la maggior parte del tempo in cella o tra cella e corridoio.

Nell’istituto sono presenti spazi di aggregazione per attività socio riabilitative. La fruibilità e dimensione di questi spazi è molto limitata, vuoi dalla fatiscenza dei locali che dalla disponibilità degli educatori e degli operatori delle associazioni che questi spazi cercano di gestire.

 

La convivenza a cui sono costretti gli internati, il vivere gomito a gomito per tempi lunghissimi, in condizione di assoluta provvisorietà, è il segno doloroso di una condizione di vita che non ha nulla a che vedere con ciò che potrebbe intendersi per terapeutico, per cura. Domina una condizione di anomia, di non luogo, di non appartenenza generata dal goffo tentativo di costruire un’intenzione sanitaria, medica, psichiatrica che rende questi luoghi peggiori della peggiore sofraffollata cella di un qualsiasi peggiore carcere.

La condizione di sospensione, di estrema incertezza cui sono costretti gli internati congiura a rendere ancora più difficile e penoso l’abitare.

Non sapere quando la pena avrà termine rende ogni cosa provvisoria. L’organizzazione dello spazio, in molte celle, denuncia questo stato di provvisorietà. Solo alcuni internati, come ho potuto vedere, cercano di costruire qualcosa di proprio intorno al letto e al comodino, nel tentativo di circoscrivere, con una linea ideale, uno spazio privato dove potersi ritirare al riparo dagli sguardi e dall’invasione della presenza altrui. Foto di familiari appiccicate alle pareti, pagine di riviste con cantanti, calciatori o belle ragazze nude. Anche la cura del letto, un colore, un asciugamano, un copriletto personale, denuncia questa attenzione. Per i più la provvisorietà si coglie in tutta la sua pervasiva intensità: i sacchi neri della spazzatura con i vestiti, le valigie non disfatte, nulla di personale. Come se pensassero che tanto, domani, vado via. Molte celle quasi restituiscono l’immagine di una sala d’aspetto di una stazione. Per molti il “vado via domani” dura da anni e anni.

Nelle celle, uomini con storie diverse e drammatiche, giungono ad abitare e condividere quel piccolo spazio. Uomini sconosciuti costretti gli uni accanto agli altri. Ognuno suppone dell’altro la malattia mentale e ne teme imprevedibili gesti e rischiosi comportamenti.

Riuscire a sopportare una così inimmaginabile vicinanza dell’altro sconosciuto, e del quale si ha timore, è una prova di dimensioni non comprensibili. Si pensi alle cose minime e banalmente quotidiane: usare il water, più o meno in vista, mostrare la propria nudità, segnare lo spazio con i propri odori e umori, dover nascondere e vergognarsi dei borbottii improvvisi e inaspettati del proprio corpo. Odori e rumori che si mescolano insieme e impregnano quello spazio.

I più finiscono per costruire un muro di resistenza intorno al proprio corpo e ai propri pensieri. Una sorta di campana di vetro infrangibile. Molti si isolano nella propria malattia, si rifugiano in essa, la coltivano e vi trovano conforto.

Gli spazi, le prospettive, gli angoli segnano più degli uomini e delle parole la finalità propria di quell’istituto.

La pericolosità abita ogni angolo, impregna con la tensione della sua presenza ogni cosa. Chi è costretto a vivere nell’OPG deve confrontarsi quotidianamente con queste immagini.

L’immutabilità dell’esperienza dello spazio costringe gli internati a difficili esercizi di riduzione di sé, di sottomissione all’istituzione in un tentativo di sopravvivenza per poter salvaguardare al proprio interno almeno un brandello della propria dimensione umana.

Costretti in questi luoghi gli internati ridimensionano il loro sentire, introiettano le regole dell’istituto, interrompono il loro dialogo col tempo.

Diventano loro malgrado ciò che noi conteniamo nella categoria del “matto pericoloso”. La continuità dell’esistenza, l’estensione lineare della storia personale subisce minacce e attentati crudeli. Le persone, per difesa, per sopravvivere, devono accettare quella unica e piatta identità.

L’OPG è un’istituzione totale. L’attributo di totalità definisce le procedure che sostengono le istituzioni capaci di negare, ridurre, annientare i soggetti, i singoli, gli individui. L’istituzione è totale in quanto apparato che produce meccanismi, anche sottilissimi ed infiniti, capaci di rubare senso al sentire singolare, al tempo proprio, perfino di “sottrarre il potere” sul proprio stesso corpo.

 

Nella considerazione di queste singolari esperienze, non posso non immaginare tutta la fatica (e le frustrazioni) che devono compiere gli operatori per ritrovare le persone, le loro storie, le emozioni, i sentimenti e la fatica che devono fare per sfidarle di nuovo a scommettere nella relazione, nell’incontro, nella conversazione. E’ esemplare e straordinaria la registrazione di un colloquio, nell’infermeria di un OPG, tra la dottoressa e l’internato: “mi ha chiamato dottoressa? … ci sono novità? … come mi vede?” non avendo la dottoressa novità, il paziente si alza e interrompe il colloquio: “ … me ne vado”.

La relazione e l’incontro appunto, come momenti tanto naturali e terapeutici quanto difficili da produrre e riprodurre nelle istituzioni totali della psichiatria. Più che difficili, negati. La totalizzazione, l’appiattimento delle identità, la riduzione all’unica immagine possibile di “matto pericoloso” impedisce, distrugge le singolarità. Ciascuno reca in sé una differenza, la ragione della sua singolarità, una differenza che lo rende ineguagliabile a qualsiasi altra esperienza umana.

Avendo davanti agli occhi la materialità della vita di questi istituti, lo spessore concreto della totalizzazione, non posso non comprendere la costrizione che quegli uomini che ho visto devono infliggersi per sopravvivere in quella confusione di corpi, nel rapporto imposto e non desiderato con l’altro. L’individuo patisce l’alterità.

La vita nelle istituzioni costringe a vivere assieme agli altri ma in realtà spinge (sottilmente) a costruire muri invalicabili a difesa della propria indicibile e insopprimibile individualità.

 

La legge italiana che ha chiuso i manicomi e restituito cittadinanza alle persone con disturbo mentale ha interpretato e sostenuto le nuove possibilità di cura che già negli anni ’60 e ’70 cominciavano a essere sperimentate. La cura, e l’esecuzione della pena, non può più avvenire nei manicomi ma nei luoghi di vita e di relazione delle persone.

La rete dei servizi, il sistema dei servizi sociali e sanitari, il carcere vanno a definire lo spazio del diritto e della cura. Il Centro di salute mentale, la comunità terapeutica, l’ospedale, la cooperativa sociale, la propria casa, il quartiere, il carcere sono l’alternativa ai luoghi della separazione, del contenimento, del sequestro. Attorno agli snodi assistenziali e di accoglienza di un territorio possono definirsi contesti estesi, comunità diffuse,  relazioni molteplici che, con molta fatica, possono intenzionalmente capovolgere  l’immagine dello spazio dedicato,  del luogo sanitario, dell’istituzione totale.

Luoghi, snodi, soglie che devono favorire lo scambio, l’incontro, il reciproco riconoscimento di singolari soggetti. Capaci di accogliere con attenzione singolare. Soglie che mai definiscono un dentro, che costruiscono un passaggio tra uno star bene e uno star male. Il carcere anche può essere un luogo di passaggio. Luoghi di relazioni possibili che riconoscono e promuovono identità dei soggetti, che permettono che l’incontro, l’ascolto, l’aiuto, la cura accada, veramente. Luoghi che possono essere attraversati nella pienezza del proprio diritto.

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