elena-casetto-e1581239889737Di Giovanni Rossi, Presidente Club Spdc No Restraint

Tra salute mentale e coercizione vi è assoluta incompatibilità. Per questo i sevizi di salute mentale di comunità dovrebbero sempre operare senza ricorrere a strumenti di contenzione fisica, meccanica, spaziale, farmacologia. Purtroppo non sempre è così.

Elena Casetto morì il 13 agosto del 2019, nell’incendio che si sviluppò dalla stanza in cui era chiusa e contenuta meccanicamente. Era ricoverata all’interno del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Ora il pubblico ministero Letizia Ruggeri avvisa della conclusione delle indagini ritenendo responsabili i due addetti della ditta che aveva in appalto il servizio di pronto intervento antincendio dell’ospedale. Afferma che vi fu imperizia e negligenza tale da renderli colpevoli dell’incendio che causò la morte di Elena (art. 113, 449, 589 c.p.).

Occupandomi da molti anni di salute mentale, ma anche di gestione del rischio nelle attività sanitarie, mi pongo alcune domande. È noto infatti che un evento avverso, per di più con esiti mortali, origina da una serie di concause organizzative, ciascuna delle quali di per sé risulta essere necessaria ma non sufficiente. Solo il concatenarsi tra loro di una somma di errori porta all’evento avverso. J. Reason lo rappresentò graficamente con una serie di fette di formaggio svizzero. Solo se i buchi di ciascuna fetta sono in asse possono essere saltati tutti gli ostacoli che si frappongono tra la possibilità dell’evento avverso ed il suo concreto determinarsi. Dunque risalendo la catena degli eventi nel caso di Elena dovremmo chiederci come si sia potuto sviluppare l’incendio. Se partì dalla stanza vi fu un innesco per un corto circuito o altre ragioni connesse alla struttura? Se partì da un’iniziativa di Elena furono adeguati gli interventi di dissuasione e sorveglianza? Consideriamo questa circostanza. Elena sarebbe stata in possesso di un accendino. Sappiamo che Elena fu chiusa e contenuta meccanicamente, dunque, si riteneva che potesse essere di danno a se stessa. Come è potuto accadere che avesse, se dimostrato, un accendino? Possiamo fare due ipotesi sul perché Elena l’abbia acceso. Per suicidarsi o per liberarsi delle contenzioni. In ogni caso è evidente che la presenza di un operatore sanitario nella stanza avrebbe impedito l’utilizzo dell’accendino o quanto meno provveduto a spegnere immediatamente il principio di incendio.

La seconda domanda riguarda proprio la solitudine di Elena. Che stava male, nessuno l’ha messo in dubbio, al punto che si decise di isolarla e contenerla. Il primo dovere di un operatore sanitario è prendersi cura delle persona che gli è affidata. È un principio indiscutibile che gli consente di agire, se lo ritiene, anche andando al di là delle indicazioni di routine. Nessuno si accorse che Elena necessitava della presenza costante di un operatore al suo fianco, quantomeno per sorvegliarla se non, come sarebbe stato auspicabile, per darle sostegno ed ascolto? Si dirà: «Sono state rispettate le indicazioni che richiedono il monitoraggio ogni 15 minuti». Questo fa porre un’ulteriore domanda. E cioè se tali indicazioni siano adeguate. Evidentemente nel caso di Elena non lo furono. Dobbiamo, dunque, chiederci se tali indicazioni in realtà non siano state dannose per avere fatto abbassare la guardia agli operatori che sono stati spinti ad osservare le regole piuttosto che Elena, con il suo star male.

Questo insieme di domande riguardano non tanto se l’incendio sia stato correttamente spento, ma se l’incendio potesse essere evitato o immediatamente fermato sin da principio. Esse chiamano in causa la responsabilità di chi quel giorno era in servizio e di chi ha emesso le disposizioni di sorveglianza sopracitate.

Continuando a risalire a monte lungo la catena degli eventi, dobbiamo ora chiederci perché Elena fu contenuta meccanicamente ed isolata. Come sappiamo questa è oramai da tutti considerata una extrema ratio cui ricorrere se sussistano i motivi dello stato di necessità. In tal caso gli operatori sanitari decidono e mettono in atto un comportamento non di natura sanitaria – incorrerebbero nel reato di sequestro di persona – che è giustificato da ragioni di pericolo attuale ed inevitabile. La ragione fondante l’intervento per forza maggiore risiede proprio nell’evitare un danno grave alla persona, e la limitazione del diritto deve essere proporzionale. Se queste erano le intenzioni, nel caso di Elena il risultato fu ben diverso. Dobbiamo pertanto, e a maggior ragione visto l’esito, chiederci se davvero sussistessero, all’interno di un servizio ospedaliero specialistico, in presenza di medici ed infermieri specializzati nel trattamento del disagio psichico, le condizioni per fare ricorso alla limitazione della libertà personale di Elena per la forza maggiore derivante dallo stato di necessità. La domanda è ulteriormente rafforzata dal fatto che in quel SPDC nell’anno 2019 risulta siano state messe in atto 300 contenzioni meccaniche nei confronti di 86 persone. Un numero decisamente elevato per giustificarle tutte con lo stato di necessità.

È evidente che se non si riconoscessero le ragioni di necessità che portarono alla contenzione meccanica ed all’isolamento di Elena potremmo ritenere tale decisione erronea e collegarla alla morte di Elena. Infatti, se Elena non fosse stata contenuta ed isolata, non si sarebbero verificate le circostanze successive che portarono alla sua morte. È bene, dunque, che venga chiarito senza lasciare alcun ombra di dubbio se i motivi dello stato di necessità sussistessero.

Rimane, infine, un’ultima domanda. Elena era ricoverata al SPDC dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Venne ricoverata volontariamente. Quando si ipotizzò la necessità di un intervento contro la sua volontà, furono preventivamente verificate eventuali alternative da lei o dalla sua famiglia condivise? È noto che il principio su cui si incardina il Sistema Sanitario della Lombardia è quello del diritto di scelta del cittadino tra le diverse opzioni di cura. All’interno di tale principio si giustifica la concorrenza tra strutture pubbliche e private. Ora viene da chiedersi se tale principio sia stato rispettato nel caso di Elena o, come purtroppo spesso accade alle persone con problemi di salute mentale, tale possibilità di scelta non sia stata né proposta né concessa, come se vi fossero cittadini meno uguali e con meno diritti di altri? Oppure viene da chiedersi se, come si usa tra professionisti della salute, si sia richiesta una seconda opinione, da parte di un esperto esterno, allo scopo di esaminare e migliorare nel confronto con il collega il progetto di cura. È stato fatto? E se sì, si è concluso che per Elena la soluzione migliore era quel ricovero?

Nell’ambito del risk management le domande che mi sono appena posto hanno lo scopo di svolgere attività di audit che portino a cambiare la futura concatenazione degli eventi in modo da evitare che ciò che è successo si ripeta.

Immagino che le stesse domande se le sia poste chi ha svolto le indagini giudiziarie, anche se con scopi diversi. Sono, comunque, curioso di conoscerne le risposte.

Mantova 3 gennaio 2020

Write A Comment