manidi Pietro Pellegrini (*)

I fatti di sangue accaduti recentemente in diversi paesi Europei hanno portato alcuni commentatori dei mass media a collegare le condotte criminali e terroristiche ai disturbi mentali. Si tratta di una lettura assai preoccupante che richiede alcune precisazioni.

La prima: le persone affette da disturbi mentali, nel loro complesso, non commettono una maggiore percentuale di reati rispetto alla popolazione generale.
È assai poco rassicurante ma dobbiamo prendere atto che la gran parte dei reati, delle azioni criminali e terroristiche è commesso da persone con un funzionamento mentale adeguato. Ovviamente questo non significa che detti atti siano accettabili socialmente anzi sono palesemente antisociali, contro le norme, le leggi, il patto e i valori sociali. Attribuirli alle persone con disturbi mentali, in relazione alla loro condizione di malattia, non solo è sbagliato ed improprio ma alimenta uno stigma assai dannoso che emargina i pazienti (e i loro familiari), rende più ancora più difficili gli accessi ai servizi, ai percorsi di cura e di inclusione sociale, creando così situazioni di emarginazione e di abbandono che, a loro volta, costituiscono fattori sfavorevoli e di rischio. Quindi non vi è alcun legame specifico e diretto fra criminalità-terrorismo e disturbi mentali.

La seconda precisazione: la percentuale di persone con disturbi mentali è intorno al 15-20% della popolazione generale mentre quelli gravi arrivano al 4%. È chiaro che con queste percentuali è del tutto possibile che nell’ambito delle organizzazioni criminali e terroristiche vi siano soggetti con disturbi mentali o che questi si sentano “attirati” da un particolare mondo nel quale possono ritenere di trovare ideali e vissuti comuni, ruoli e finalità. Alcuni sono più esposti di altri ma ogni generalizzazione va evitata. Per un insieme di fragilità e vulnerabilità certi soggetti possono ricercare in contesti deviati o criminali riferimenti ideali e/o reali e convogliare verso essi una serie di elementi di sofferenza, disagio e ribellioni. Ribellioni che nascono da molteplici fattori ma la finalità sembra quella di ricercare certezze assolute e rassicuranti rispetto ad un presente vissuto come incerto, vuoto e inaccettabile.

Attraverso atti e non parole (e qui il tema della comunicazione e dell’ascolto è fondamentale) sembra di poter cogliere il bisogno di andare oltre il presente alla ricerca di un senso e di un contesto (reale o virtuale è una distinzione apparentemente secondaria).

A volte l’appartenenza alle organizzazioni è effettiva mentre altre è solo virtuale e solo a posteriori, dopo un atto criminale, avviene l’affiliazione (lo si è visto ad esempio in certi attentati). Siamo di fronte a dinamiche complesse e, in ogni caso, tutte le persone (anche se affette da disturbi mentali) vanno chiamate a rispondere dei propri atti.

Terza precisazione: i tentativi di interpretare fenomeni politici e sociali (si pensi al nazismo, alla Shoa, alla criminalità ecc.) come frutto di malattie mentali dei leader e degli adepti non appare adeguato alla portata dei fenomeni che vedono sempre una molteplicità di fattori (culturali, sociali, religiosi, economici e di potere ecc.) convergere nel determinare dittature, terrorismi, sopraffazioni, gravissime violazione dei diritti umani e della stessa vita delle persone spesso innocenti ed inermi. Un insieme di convinzioni che diventano altamente condivise e maggioritarie e in nome delle quali comunità ampie (a volte di milioni di soggetti) organizzano le proprie attività.

In questo processo i meccanismi psicologici e comunicativi sono assai potenti e fanno sì che determinate violazioni, reati, diventino sempre più accettabili fino a che persone normali possono compiere gravissimi reati senza avvertirne la responsabilità penale e la portata etica (come insegna Hanna Arendt parlando di banalità del male) o ad immolare la propria vita ad una “causa” con un gesto “eroico”, pubblico e indimenticabile. Ma un conto sono le dinamiche sociali (che i sociologi certamente potranno spiegare molto meglio)e un altro i disturbi mentali dei singoli. Va ricordato che anche nei regimi autoritari e dittatoriali le persone si ammalavano e si ammalano dal punto di vista psichico.

In detti regime si registra anche il possibile utilizzo improprio di ospedali psichiatrici per l’internamento di oppositori fatti passare per malati mentali. Gli usi distorti della psichiatria, la possibile manipolazione e la simulazione sono ben noti in psichiatria e lo confermano anche i tentativi di boss criminali e autori di reati di richiedere il riconoscimento della infermità mentale al fine di ottenere vantaggi processuali o evitare la detenzione.

Quarta precisazione: per le organizzazioni criminali le persone con disturbi mentali frequentemente non sono ritenute idonee se non per ruoli marginali in quanto sono, in linea di massima, troppo fragili, labili e sensibili per progetti organici. Solo determinati soggetti possono essere “reclutati”.

La persona con disturbi mentali gravi non compie quasi mai atti violenti di organizzazione complessa, programmati nei tempi, nei luoghi e nei mezzi, eseguiti con grande abilità, ma risponde a stati mentali autoriferiti, rivolti contro il proprio piccolo mondo familiare o dei curanti vissuto, in quel dato momento, come minaccioso, atti che assumono per il paziente una funzione più “difensiva” che aggressiva e in genere si esauriscono una volta riacquistata una sufficiente sicurezza interiore.

Quinta precisazione: il passaggio all’atto richiede la disponibilità di mezzi atti ad offendere. In particolare il grado di disponibilità di armi da fuoco aumenta notevolmente il rischio di un loro utilizzo dando concreta attuazione a vissuti (odio, rabbia, risentimento, ecc.): un passaggio da intrapsichico a reale che avviene in modo assai veloce ed irreversibile. Eventi che sembra assai difficile prevenire e prevedere con gli strumenti della psichiatria e della sicurezza sociale. Si può fare sempre meglio ma di questo limite occorre essere consapevoli anche per evitare inutili polemiche “a posteriori”.

Fenomeni questi ben noti negli USA dove le stragi (a scuola ecc.) sono state diverse. Può darsi che questo avvenga anche in Europa dove il ritardo rispetto agli USA è di 10-15 anni… e i fatti di questi ultimi tempi sembrano indicarlo. Pericolose sono anche le armi da taglio più facilmente reperibili e diffuse in determinati contesti culturali e in piccoli gruppi o band giovanili. Stanno aumentando i reati commessi da adolescenti e giovani e questo richiede azioni di comprensione e adeguati interventi (sociali ed educativi) che non siano solo di tipo repressivo o di mero riconoscimento della devianza o di una diagnosi psichiatrica.

Ma non vorrei chiudere con un pensiero “catastrofista”. Al contrario penso che molti elementi possano essere di protezione. Nonostante tutti gli allarmi, la tenuta delle famiglie e delle comunità, specie se sostenute da un sistema di welfare (sanitario e sociale) ed educativo può vincere la sfida del futuro. A condizione di non vedere solo le questioni come problemi di salute e quindi di cura (psichiatrica) ma dando sempre il massimo rilievo alle persone e sostegno al loro progetto di vita. Questo non può diventare solo una questione individuale e privata ma a partire dal punto di vista della persona deve trovare una comunità di riferimento, qualcuno che si prende cura e ha cura del destino di ogni singola persona, come parte di inevitabile destino comune.

(da Quotidianosanità.it)

(*) Direttore del Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma

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