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Di Carlo Miccio

Ho conosciuto Susanna, Maria, Barbara, Rossella e Vincenza grazie ad un loro invito a pranzo, ovviamente nella residenza speciale che non sono autorizzate ad abbandonare, la sezione femminile di massima sicurezza del carcere di Rebbibbia. Amici comuni avevano regalato loro una copia del mio romanzo, che gli era piaciuto al punto di voler conoscermi ed estendere un invito – previa autorizzazione di prammatica – da me ovviamente accolto subito.
Per me, che non ero mai entrato in un carcere, era l’occasione di vedere da vicino il grado più alto di un’istituzione totale, un concetto da cui – dopo aver letto Focault e Basaglia – mi riesce sempre difficile prescindere nell’analisi della realtà che mi circonda.

Ma soprattutto, c’era la curiosità di scoprire da vicino che cosa del mio lavoro le avesse colpite così tanto: cinque donne che, arrivate tutte oltre la sessantina, hanno ormai trascorso la maggior parte delle loro vite in stato di detenzione, isolate dal resto della società in cui io vivo e ho scritto il mio romanzo. In che maniera, in quali dettagli, la mia storia risuonava e si riallacciava con le loro?

A quest’ultima domanda credo che la recensione che hanno accettato di scrivere per il Forum della Salute Mentale risponda in maniera più che esauriente, oltre ad avere il gran merito di fornire una definizione di fuorigioco (“quella posizione disallineata in cui ogni azione perde validità”) che è la più chirurgicamente precisa che io abbia mai sentito sia per quanto riguarda la regola ufficiale che per il senso stesso che ho voluto raccontare nel mio romanzo. D’altronde, è una recensione che nasce da una lettura collettiva del libro (una leggeva, le altre ascoltavano e insieme commentavano- con qualcuna più sapiente delle altre in materia calcistica a spiegare i dettagli più oscuri a livello pallonaro: un’immagine che non vi dico l’effetto che mi ha fatto, quando mi è stata raccontata).
Da parte mia, posso solo aggiungere di aver trascorso insieme a loro –  ed altri tre amici, come me ospiti privilegiati – una giornata di chiacchiere, risate e intensa umanità, consumando un pranzo magnifico preparato con le verdure dell’orto che coltivano quotidianamente con le loro mani: una giornata trascorsa al sole e condita dalla reciproca curiosità di conoscersi a vicenda, di scoprire dettagli delle vita altrui incomprensibili senza esperienza (per noi la vita in carcere, per loro un mondo esterno fatto di social e telefonini), di godere intensamente di quel momento di condivisione che tutti sapevamo essere unico (anche se speriamo non irripetibile).
Per cui se io adesso sento di dover un ringraziamento a Susanna, Maria, Barbara, Rossella e Vincenza, non è solo per la calda e accorata recensione, né per lo splendido pranzo e le verdure dell’orto, ma piuttosto per averci accolto con la stessa disarmante umanità che loro attribuiscono al protagonista del mio romanzo.
Tutto il resto spero di poterglielo dire a voce, in maniera privata, appena sarà possibile.

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