Questa è una lettera, un appello, un grido, un messaggio nella bottiglia… che Gabriella La Rovere, madre di un giovane donna con grave disabilità, lancia nel mare dell’indifferenza, della disattenzione, della deriva in cui spesso si perde, e fa perdere le persone, un sistema che sembra dimenticare cosa sia la cura, il diritto di riceverla, il dovere di prestarla. Ci racconta una storia purtroppo non rara, per quanto una complicanza “le conferisca l’onore (!) di essere il 19esimo caso al mondo”.
Gabriella La Rovere è una madre, ha un sapere incondizionato che nasce dal fuoco dell’esperienza… Non possiamo che confrontarci con lei, il nostro è un sapere appreso sui libri che non può che arricchirsi nell’ascolto e nel confronto con la ruvidezza delle esperienze concrete.

Avere una figlia con una malattia rara significa convivere con un dolore sordo, costante, ed esserne anche il medico carica tutto di lacerante consapevolezza, di pesanti responsabilità.
La sclerosi tuberosa è una malattia bastarda nella quale le formazioni tumorali (di solito benigne, ma non è detto!) interessano tanti organi danneggiandone la funzione. Ed ecco perciò l’epilessia non controllata dai farmaci, il ritardo mentale, l’autismo, la lenta evoluzione verso l’insufficienza renale, il possibile interessamento
polmonare, cardiaco, e così via.
Mia figlia ha anche un aneurisma del sifone carotideo sinistro, una complicanza ancora più rara all’interno della sua straziante rarità, che le conferisce l’onore (!) di essere il 19esimo caso al mondo. La scelta di cosa fare è spettata a me, e mentre la parte materna urlava il suo dolore contro il Cielo, quella professionale valutava i pro e i contro di un intervento chirurgico rischioso che poteva portare a conseguenze ancora più gravi, considerava la paziente nella sua particolare unicità e optava verso una vita piena, degna di essere vissuta per tutto il tempo che le sarebbe stato concesso.
Pensavo che tutto questo fosse più che sufficiente, invece la vita mi ha posto davanti un altro mostro contro il quale è difficile, quasi impossibile combattere: la schizofrenia e l’evoluzione psicotica grave che trasforma mia figlia in un essere rabbioso, con occhi e voce diversi, e che nel novembre 2019 ha tentato più volte di aggredirmi, fino a riuscirci. La nostra vita è cambiata, i momenti di serenità sono pochissimi perché vivo nella paura della sua perdita di controllo ad ogni minimo imprevisto. L’interessamento ingravescente cerebrale l’ha resa molto incerta nel camminare e a tutt’oggi non sono sicura che non possa perdere la coordinazione motoria portandola all’uso della sedia a rotelle.
È indubbio che le nostre esistenze debbano dividersi ed è qui che inizia un’altra brutta storia, fatta di omissioni e “leggerezze”. Attualmente, quando una persona autistica diventa maggiorenne, passa in carico al Centro di Salute Mentale (CSM) del proprio territorio che, il più delle volte, non ha la giusta competenza per affrontarne il complesso mondo, riducendo il tutto a carichi di farmaci, spesso in grado di innescare effetti paradossi.

Nonostante ripetute segnalazioni – le mie e quelle di due operatrici di una cooperativa che collabora con il distretto sanitario, una delle quali aggredita fisicamente – da più di un anno il CSM è inadempiente nell’autorizzare l’inserimento di mia figlia in una residenza sanitaria. In Umbria, dove viviamo, c’è l’Istituto Serafico di Assisi, struttura molto qualificata sia dal punto di vista pedagogico-abilitativo che medico. L’inserimento sarebbe possibile perché c’è posto e mia figlia vi ha già trascorso 30 giorni, in seguito al nullaosta del Giudice Tutelare del Tribunale di Spoleto al quale avevo sottoposto il caso e che aveva convenuto l’esattezza della mia richiesta.
Sorvolo, ma non dimentico, la gogna alla quale sono stata sottoposta con insinuazioni becere di voler “rinchiudere” mia figlia, di essere una donna “psichicamente provata”. Sono sopravvissuta a Bettelheim e, per fortuna, la medicina è una scienza, non mero empirismo In tutto questo tempo (perso) il CSM e il Distretto Sanitario hanno affermato a voce che non ci sono i soldi e, su suggerimento delle assistenti sociali, continuano a proporre una residenza socio-assistenziale perché più economica, a dispetto del
quadro clinico, indiscutibilmente grave. A questo punto non posso che prendere atto che una sanità che, in condizioni di innegabile gravità clinica, opta per il risparmio deve prendersi tutte le responsabilità morali, sociali e penali del caso.

Dott.ssa Gabriella La Rovere

Descrive benissimo, la dottoressa La Rovere, un carico familiare soggettivo che può distruggere. Come non ricordare che “occuparsi di una persona affetta da disturbo mentale non si risolve con il frenetico scatto del velocista, che in cento o duecento metri brucia tutte le proprie energie e raggiunge il traguardo. Occuparsi di una persona con un disturbo mentale significa allenarsi per essere dei buoni maratoneti”. E quante grandi, silenziose, misconosciute maratonete… Sappiamo che i due terzi dei familiari che sopportano il carico della cura sono donne. In maggioranza si tratta di madri. Anche sorelle, mogli, ma soprattutto madri, come l’autrice di questa lettera/denuncia.
Non possiamo non comprenderla, per quella sua dolorosa consapevolezza di doversi allontanare dalla figlia che, sappiamo, ha fino ad oggi avuto vicino ogni istante della sua vita. Liberarsi della figlia? Qualcuno avrà insinuato… Ritornello che ritorna, orrendo… gioco facile, e crudele, su un terreno purtroppo spinoso…
E con quanto dolore denuncia le inadempienze pubbliche nell’inserire la figlia nella residenza sanitaria adeguata ai suoi bisogni.

La sua lettera svela il dolore di tanti altri genitori. Qualcuno, ci ha ricordato La Rovere, per avere garantito un semplice diritto, ha seguito il suggerimento “scellerato” di denunciare il proprio figlio disabile, così da ricorrere alla forza pubblica per ottenere l’inserimento nella struttura prescelta, ma rifiutata dalla asl perché “troppo costosa”.
Sappiamo bene quanto questa decisione abbia ripercussioni psichiche sul genitore alimentando ancora di più il proprio senso di colpa e inadeguatezza, come sui figli autistici, sui quali rimangono segni indelebili di tanto inutile dolore.
Che è cosa drammatica che succede, purtroppo. Ma è una deriva assolutamente da combattere. Perché è cosa orrenda quando il servizio pubblico chiede di denunciare un reato per ottenere un ricovero. Costringere i genitori a denunciare il proprio figlio è una delle pratiche più oscene…
Gabriella La Rovere si batte e continuerà a battersi, ed è giusto che lo faccia, ma sarebbe opportuno che una regione come l’Umbria inizi a pensare ai budget di salute, a costruire un programma quotidiano per aiutare a vivere una vita piena, 24 ore su 24, pensando alle possibili forme di autonomia. Un programma che può anche essere quello dell’Istituto Serafico di cui si parla …
Siamo da sempre convinti della necessità di operare per il funzionamento dei servizi di territorio, perché le risorse da spendere siano tutte impegnate per costruire il progetto per quel cittadino che ne deve fruire. In questo senso pensiamo allo sviluppo della medicina di comunità, alle microaree, ai distretti, alle forme rigorosamente individualizzate di sostegno, e per questi vogliamo impegnarci.
Dovrà essere così. Ma ora, come non riflettere sul comportamento della Regione Umbra e di tante altre che conosciamo. Un’amministrazione pubblica non può lesinare una risorsa appena più significativa di un’altra. Qui si denuncia il rifiuto da parte della asl di una richiesta di cura perché troppo costosa, trascurando lo spessore amoroso che c’è in queste richieste…
Eppure, il nostro paese con la legge di riforma sanitaria del ’78 ha fatto una scelta rischiosa e impegnativa: garantire il diritto alla cura per tutti i cittadini, per qualsiasi forma di disagio, per qualsiasi malattia, anche la più rara. Non è soltanto legge che in maniera fredda definisce moduli organizzativi, centri di costo, spesa, eccetera eccetera… ma è una legge che per la prima volta considera il cittadino non come utente astratto, ma come soggetto partecipe.
Abbiamo scommesso 40 anni fa, e adesso non ci si può tirare indietro.”