978-88-7223-200-2Una città.it“, mensile di interviste e foto, dedica un intero numero alla presentazione di “Guarire si Può”, della Collana 180 (tutti i volumi su: http://www.edizionialphabeta.it/180. I testi possono essere acquistati anche sulle librerie on line: IBS e In Mondadori)

Barbara Bertoncin intervista Izabel Marin e Silva Bon.
Guarire dalla malattia mentale o comunque riprendersi la propria vita, giorno dopo giorno, senza trionfalismo, con i sintomi che a volte tornano, osando essere perfino orgogliosi della propria esperienza di disagio, fa tutto parte della nozione di recovery che rompe un tabù della psichiatria; cosa aiuta, cosa non aiuta e il difficile rapporto con i farmaci.

Iza­bel Ma­rin, as­si­sten­te so­cia­le, la­vo­ra nel Di­par­ti­men­to di Sa­lu­te Men­ta­le di Trie­ste. Im­pe­gna­ta nel­le espe­rien­ze di dei­sti­tu­zio­na­liz­za­zio­ne in Bra­si­le e in Gre­cia, ha pub­bli­ca­to The Per­sons’ Ro­le in Re­co­ve­ry nel vo­lu­me col­let­ti­vo dell’”Ame­ri­can Jour­nal of Psy­chia­tric Re­ha­bi­li­ta­tion”, 3, 2005, e (con R. Mez­zi­na) Per­cor­si sog­get­ti­vi di gua­ri­gio­ne. Stu­dio pi­lo­ta sui fat­to­ri di re­co­ve­ry in sa­lu­te men­ta­le, in “Ri­vi­sta Spe­ri­men­ta­le di Fre­nia­tria”, 1, 2006.
Sil­va Bon, sto­ri­ca con­tem­po­ra­nei­sta, ha pro­dot­to nu­me­ro­se mo­no­gra­fie, sag­gi, ar­ti­co­li, in­ter­ven­ti sul­la sto­ria del No­ve­cen­to. È sta­ta dal 2003 al 2011 pre­si­den­te del­l’As­so­cia­zio­ne di vo­lon­ta­ria­to cul­tu­ra­le di don­ne Lu­na e l’Al­tra. Ha pub­bli­ca­to, tra l’al­tro,
Don­ne at­tra­ver­so. So­glie, spa­zi, con­fi­ni, li­ber­tà. Sto­rie e ri­fles­sio­ni di don­ne do­po Fran­co Ba­sa­glia, Cen­tro “Leo­pol­do Ga­spa­ri­ni”, Go­ri­zia 2012. La sua sto­ria è sta­ta pub­bli­ca­ta nel li­bro Lo cho­pin par­ti­va, ed. Una cit­tà, 2007. Il li­bro di cui si par­la nel­l’in­ter­vi­sta è Gua­ri­re si può, Edi­zio­ni Al­pha Be­ta 2013.

Co­sa in­ten­dia­mo quan­do par­lia­mo di “re­co­ve­ry” nel­la ma­lat­tia men­ta­le?

Sil­vaBon. Re­co­ve­ry è un ter­mi­ne an­glo­sas­so­ne, dif­fi­cil­men­te tra­du­ci­bi­le in lin­gua ita­lia­na, non esi­ste una pa­ro­la ana­lo­ga, per cui spes­so lo si tra­du­ce con una pe­ri­fra­si: con “re­co­ve­ry” si in­di­ca la ri­pre­sa do­po uno sve­ni­men­to, il re­cu­pe­ro do­po una cri­si; è in ge­ne­ra­le un ria­ver­si, uno sta­re me­glio ri­spet­to ad uno sta­to pre­ce­den­te. Re­co­ve­ry, ri­pre­sa, ria­ver­si, star me­glio e an­che gua­ri­gio­ne non so­no più pa­ro­le ta­bù in psi­chia­tria. Se fi­no a qual­che an­no fa si par­la­va di cro­ni­ci­tà as­so­lu­ta, di una ma­lat­tia sen­za vie d’u­sci­ta, in que­sti due ul­ti­mi de­cen­ni, nel mon­do an­glo­sas­so­ne, nei pae­si scan­di­na­vi, ma an­che in Fran­cia, so­no na­ti dei mo­vi­men­ti che pro­muo­vo­no la re­co­ve­ry e che coin­vol­go­no me­di­ci, ope­ra­to­ri e so­prat­tut­to uten­ti.
Iza­belMa­rin. Quel­lo del­la re­co­ve­ry è un con­cet­to che è sta­to ela­bo­ra­to e usa­to, an­che stra­te­gi­ca­men­te, dal mo­vi­men­to de­gli uten­ti – mi ri­fe­ri­sco in par­ti­co­la­re agli Sta­ti Uni­ti.
La re­co­ve­ry, co­me no­zio­ne, na­sce già a par­ti­re da­gli an­ni Set­tan­ta, quan­do com­pa­io­no i pri­mi ri­sul­ta­ti de­gli stu­di lon­gi­tu­di­na­li sul­le per­so­ne con una dia­gno­si di schi­zo­fre­nia, da cui ri­sul­ta che una gran­de per­cen­tua­le di per­so­ne gua­ri­va­no com­ple­ta­men­te o co­mun­que re­gi­stra­va­no un mi­glio­ra­men­to si­gni­fi­ca­ti­vo, nel sen­so che vi­ve­va­no la lo­ro vi­ta in un mo­do sod­di­sfa­cen­te ed era­no in­te­gra­te so­cial­men­te. Que­sto è sta­to im­por­tan­tis­si­mo. Fi­no ad al­lo­ra, si cre­de­va, per esem­pio, che il di­stur­bo men­ta­le gra­ve non po­tes­se ave­re al­tro esi­to che non fos­se la cro­ni­ci­tà, l’in­gua­ri­bi­li­tà. Que­sto è sta­to un pri­mo pas­so, ma era­no an­co­ra gli stu­dio­si, lo sguar­do scien­ti­fi­co, ad an­da­re a de­fi­ni­re chi era gua­ri­to e chi no. La ve­ra svol­ta è av­ve­nu­ta quan­do le per­so­ne han­no in­co­min­cia­to a rac­con­ta­re dal­l’in­ter­no le pro­prie espe­rien­ze. La per­so­na con una sof­fe­ren­za psi­chi­ca ha gua­da­gna­to un ine­di­to pro­ta­go­ni­smo. È a quel pun­to che il con­cet­to di re­co­ve­ry si de­li­nea me­glio: la per­so­na può pu­re con­ti­nua­re ad espe­ri­re dei sin­to­mi o an­che a sta­re ma­le per dei pe­rio­di; il da­to de­ci­si­vo è che pos­sa co­mun­que por­ta­re avan­ti il suo pro­get­to di vi­ta.
Pa­tri­cia Dee­gan, una lea­der del mo­vi­men­to de­gli ex-uten­ti, al­la fi­ne de­gli an­ni Ot­tan­ta rac­con­ta la sua espe­rien­za spie­gan­do per­ché si con­si­de­ra gua­ri­ta e co­sa le sia ser­vi­to. Il suo ar­ti­co­lo vie­ne pub­bli­ca­to in un con­te­sto scien­ti­fi­co. Que­sto è un se­con­do pas­sag­gio im­por­tan­te. Fi­no ad al­lo­ra gli stu­di scien­ti­fi­ci era­no una co­sa, le espe­rien­ze per­so­na­li un’al­tra. Fi­nal­men­te, tra la fi­ne de­gli an­ni Ot­tan­ta e i No­van­ta com­pa­io­no le pri­me ri­cer­che qua­li­ta­ti­ve: gli stu­dio­si stes­si cam­bia­no il fo­cus, non vo­glio­no più par­la­re di nu­me­ri, ma di espe­rien­ze.
Di­ce­va­te che es­se­re “gua­ri­ti” non si­gni­fi­ca ne­ces­sa­ria­men­te non ave­re più sin­to­mi…
Iza­bel. Il pun­to cru­cia­le è pro­prio que­sto. Le per­so­ne che af­fer­ma­no di es­se­re gua­ri­te pos­so­no an­che espe­ri­re dei mo­men­ti di cri­ti­ci­tà, pe­rò han­no ri­co­strui­to una pro­pria vi­ta e sen­to­no di ave­re una pro­spet­ti­va da­van­ti, un fu­tu­ro.
Sil­va. Per quel­lo che mi ri­guar­da, io non pen­so mai ad una gua­ri­gio­ne as­so­lu­ta, nel sen­so di qual­co­sa di de­fi­ni­ti­vo. Re­co­ve­ry per me è pro­get­to di vi­ta, è qual­co­sa per cui bi­so­gna lot­ta­re ogni gior­no. La gua­ri­gio­ne stes­sa è un con­fi­ne mo­bi­le, qual­co­sa che si spo­sta in avan­ti. È l’es­se­re lun­go un per­cor­so di cam­bia­men­to per ac­qui­si­re sem­pre del­le nuo­ve ca­pa­ci­tà, per mi­glio­rar­si, per star me­glio, per sof­fri­re di me­no, in­som­ma. La re­co­ve­ry va in­te­sa co­me un pro­ces­so ver­so l’au­to­no­mia, cioè la ca­pa­ci­tà di sta­re in pie­di sul­le pro­prie gam­be. Tut­to que­sto evi­den­te­men­te non esclu­de il fat­to che ci pos­sa­no es­se­re del­le gior­na­te ne­ga­ti­ve o dei mo­men­ti dif­fi­ci­li.
Quand’è che hai ini­zia­to a pen­sa­re, se non di es­se­re gua­ri­ta, di po­ter sta­re me­glio?
Sil­va. La mia è una sto­ria che co­min­cia nel 1980, una sto­ria lun­ghis­si­ma se­gna­ta an­che da mo­men­ti in cui ve­de­vo so­lo buio at­tor­no a me, da cri­si e an­che da mol­ti ri­co­ve­ri (non so nean­che quan­ti, tan­ti so­no sta­ti) e pe­rò an­che da una no­te­vo­le ca­pa­ci­tà di ri­pre­sa, per cui, quan­do sto be­ne, sto pro­prio be­ne, nel sen­so che so­no in gra­do di af­fron­ta­re in ma­nie­ra com­ple­ta­men­te re­spon­sa­bi­le tut­ti gli aspet­ti del­la mia vi­ta, gli aspet­ti so­cia­li, di la­vo­ro e di ri­cer­ca, in­tel­let­tua­li, e an­che tut­te le co­se pra­ti­che che bi­so­gna fa­re quo­ti­dia­na­men­te.
La sof­fe­ren­za, che so­prat­tut­to in pas­sa­to è sta­ta ve­ra­men­te atro­ce, abis­sa­le e che ri­cor­do con ter­ro­re, è qual­co­sa che io ac­cet­to, che fa par­te di me. Di­men­ti­co più fa­cil­men­te la fa­se di re­cu­pe­ro ri­spet­to ai mo­men­ti in cui so­no sta­ta ma­le… quel­li me li ri­cor­do tut­ti. Quel­lo che vo­glio di­re è che tut­to que­sto fa par­te del­la mia vi­ta e non so­lo l’ho ac­cet­ta­to, ma so che mi ha aiu­ta­to a cre­sce­re; an­che so­lo ri­spet­to a cin­que an­ni fa, og­gi so­no più con­ten­ta di me stes­sa, per­ché la sof­fe­ren­za mi ha fat­to an­da­re avan­ti, mi ha fat­to cre­sce­re. An­che se vo­glio es­se­re chia­ra: di­re che la ma­lat­tia fa par­te di me non vuol di­re che io so­no so­lo quel­lo. Io uso sem­pre la pe­ri­fra­si an­glo­sas­so­ne “per­so­ne con espe­rien­za”. Io so­no una per­so­na con espe­rien­za di di­sa­gio psi­chi­co, ma so­no for­te di que­sta co­sa, è un’e­spe­rien­za di cui so­no or­go­glio­sa: io so del­le co­se che gli al­tri non san­no. Quan­do mi met­to in rap­por­to con un dot­to­re, con un me­di­co, ora lo fac­cio in ma­nie­ra ab­ba­stan­za pa­ri­ta­ria, nel sen­so che so­no io che ho da rac­con­ta­re del­le co­se sul­la mia espe­rien­za. Do­po­di­ché, sia chia­ro, io pre­fe­ri­rei non sof­fri­re. Col tem­po ho im­pa­ra­to a chie­de­re aiu­to…
Fa par­te del­la gua­ri­gio­ne an­che sa­per ri­co­no­sce­re quan­do far­si aiu­ta­re…
Sil­va. Sa­per ri­co­no­sce­re di do­ver chie­de­re aiu­to è un pas­so im­por­tan­te. Non vo­ler sof­fri­re è un buon se­gno. Ci so­no an­che per­so­ne che qua­si si ab­bar­bi­ca­no al­la ma­lat­tia, che fan­no del­la lo­ro ma­lat­tia una stra­te­gia so­cia­le, an­che nel­l’am­bi­to fa­mi­lia­re. In­ve­ce io so­no una per­so­na che se po­tes­se di­re “so­no gua­ri­ta in ma­nie­ra as­so­lu­ta”, ec­co lo di­rei con mol­ta fe­li­ci­tà, pe­rò non ho que­sta hýbris, que­sta tra­co­tan­za. Bi­so­gna ave­re, in­ve­ce, l’u­mil­tà del gior­no per gior­no: og­gi so­no sta­ta be­ne, que­sto me­se so­no sta­ta be­ne, que­sti sei me­si so­no sta­ta be­ne…
Nel­la re­co­ve­ry, c’è la di­men­sio­ne sog­get­ti­va, ma con­ta an­che quel­la so­cia­le. Che ruo­lo han­no gli al­tri nel­l’a­iu­ta­re o nel boi­cot­ta­re?
Iza­bel. Una co­sa che boi­cot­ta tan­tis­si­mo nel so­cia­le, è la que­stio­ne del­lo stig­ma…
Sil­va. È per quel­lo che fa­re il co­ming out è dif­fi­ci­lis­si­mo. An­che se poi io de­vo di­re che le rea­zio­ni che ho re­gi­stra­to do­po la pub­bli­ca­zio­ne del li­bro so­no sta­te mol­to po­si­ti­ve.
Iza­bel. Al­cu­ne per­so­ne scel­go­no di non par­lar­ne mai, so­prat­tut­to nel­l’am­bien­te di la­vo­ro. Il fat­to è che la que­stio­ne del­lo stig­ma è in­si­dio­sa. Spes­so co­min­cia ad emer­ge­re pro­prio nel­la fa­mi­glia e nel con­te­sto più stret­to. Al­l’i­ni­zio ma­ga­ri c’è un’in­com­pren­sio­ne, un’im­pos­si­bi­li­tà di co­mu­ni­ca­re… a vol­te la fa­mi­glia non è pre­pa­ra­ta, al­tre è la fa­mi­glia stes­sa che ali­men­ta il di­sa­gio. Per­ché la per­so­na che sta ma­le, se per­ce­pi­sce che c’è una ri­spo­sta di­ver­sa, può co­min­cia­re a pen­sa­re che ve­ra­men­te in lei ci sia qual­co­sa che non va, qual­co­sa di brut­to e di ir­ri­me­dia­bi­le, crean­do una sor­ta di au­to-stig­ma. In que­sti ca­si, può ac­ca­de­re un pro­ces­so gra­dua­le di in­te­rio­riz­za­zio­ne del ruo­lo del di­ver­so, del ma­la­to men­ta­le. Que­sto lo si ve­de be­ne nel­le isti­tu­zio­ni to­ta­li: il fat­to che gli ope­ra­to­ri di­ca­no o pen­si­no: “Tu non gua­ri­rai mai” fa sì che le per­so­ne in­te­rio­riz­zi­no que­sto sen­so di man­ca­ta spe­ran­za e di fi­du­cia in se stes­si… Una del­le bat­ta­glie che han­no fat­to mol­ti uten­ti è sta­ta an­che quel­la per il di­rit­to a non es­se­re stig­ma­tiz­za­ti dai ser­vi­zi, so­prat­tut­to ri­spet­to al lin­guag­gio che gli ope­ra­to­ri adot­ta­va­no. Al­cu­ne per­so­ne ad­di­rit­tu­ra si so­no ri­fiu­ta­te di far­si cu­ra­re pro­prio per non im­bat­ter­si in que­sta si­tua­zio­ne. In­som­ma, lo stig­ma si­cu­ra­men­te non aiu­ta.
Che co­sa aiu­ta in­ve­ce?
Iza­bel. Si­cu­ra­men­te aiu­ta una di­men­sio­ne di ac­co­glien­za in cui sen­ti di po­ter es­se­re co­me sei an­che quan­do stai ma­le. Poi con­ta­no le per­so­ne si­gni­fi­ca­ti­ve, che so­no quel­le che la­scia­no una trac­cia sul tuo per­cor­so. Con­ta­no an­che co­se ap­pa­ren­te­men­te in­si­gni­fi­can­ti. Uno dei ra­gaz­zi di cui ab­bia­mo rac­col­to la sto­ria rac­con­ta del pe­rio­do in cui vi­ve­va da so­lo e sta­va ve­ra­men­te mol­to ma­le; ec­co, in quei me­si, il pa­dre, fi­ni­to il la­vo­ro, ar­ri­va­va, fa­ce­va la spe­sa, ce­na­va con lui, do­po­di­ché lo met­te­va a let­to e gli rim­boc­ca­va la co­per­ta; pro­prio que­sti ge­sti l’a­ve­va­no se­gna­to mol­to.
Que­sto ra­gaz­zo ave­va co­min­cia­to a star ma­le o a per­ce­pi­re il suo ma­les­se­re pro­prio nel­l’am­bien­te di la­vo­ro. In­fat­ti, a un cer­to pun­to, de­ve an­dar­se­ne, per­ché non reg­ge più, e lì crol­la un pez­zo del suo mon­do: le re­la­zio­ni di la­vo­ro e an­che le ami­ci­zie. La svol­ta per lui sa­rà tor­na­re a vi­ve­re a ca­sa dei suoi. Pe­rò que­sto pas­sag­gio non è af­fat­to fa­ci­le; non c’è mai nien­te di scon­ta­to nel­la vi­ta di una per­so­na che at­tra­ver­sa un pro­ble­ma psi­chi­co. Il ra­gaz­zo in­fat­ti ha do­vu­to con­qui­star­si que­sti spa­zi. La pri­ma not­te i ge­ni­to­ri gli met­to­no una bran­di­na in sa­lo­ne, so­lo pia­no pia­no gli re­sti­tui­sco­no lo spa­zio che ave­va oc­cu­pa­to pri­ma di usci­re di ca­sa, la sua ca­me­ra. Ec­co, lui rac­con­ta che, ad un cer­to pun­to, rien­tra­to a ca­sa, una mat­ti­na, si sve­glia di­ver­so. È una sor­ta di ri­sve­glio in cui sen­te di aver re­cu­pe­ra­to la vo­lon­tà di vi­ve­re e di fa­re del­le co­se per sé.
Sil­va. Dal­le sto­rie che ab­bia­mo pub­bli­ca­to emer­ge un di­sa­gio dif­fu­so. C’è mol­ta sof­fe­ren­za in gi­ro e noi non sem­pre la ve­dia­mo. Mol­te per­so­ne pur­trop­po non so­lo non aiu­ta­no quan­do ve­do­no una per­so­na in dif­fi­col­tà, ma an­zi tal­vol­ta fi­ni­sco­no col ren­der­le tut­to an­co­ra più dif­fi­ci­le. Il non sen­tir­si ade­gua­ti sul po­sto di la­vo­ro, l’av­ver­ti­re un’in­com­pren­sio­ne in fa­mi­glia, il vi­ve­re l’in­co­mu­ni­ca­bi­li­tà, che non è una co­sa let­te­ra­ria, ma è pro­prio il non par­la­re, il non tro­va­re mai la ca­pa­ci­tà di di­re qual­co­sa di sé, so­no si­tua­zio­ni do­lo­ro­sis­si­me.
Io non so che co­sa aiu­ti. Nel mio ca­so, co­sì co­me in al­tri, suc­ce­de quan­do si toc­ca il fon­do, cioè quan­do si toc­ca un pun­to che più in bas­so di co­sì non po­treb­be es­se­re. Quel­lo è un pun­to di svol­ta. Il toc­ca­re il fon­do non è ugua­le per tut­ti, ma spes­so è la chia­ve di vol­ta del cam­bia­men­to. È il mo­men­to in cui si ca­pi­sce che co­sì non si vuo­le più sta­re, che bi­so­gna fa­re qual­co­sa per sta­re me­glio.
Io al­l’i­ni­zio ho mes­so in at­to stra­te­gie di­ver­se. C’è sta­to tut­to un pe­rio­do in cui ho chie­sto aiu­to in pri­va­to, ma il ve­ro mo­men­to in cui ho co­min­cia­to a ca­pir qual­co­sa di tut­to quel­lo che mi sta­va suc­ce­den­do è sta­to quan­do ho co­min­cia­to a fre­quen­ta­re i ser­vi­zi e il cen­tro di sa­lu­te men­ta­le di Bar­co­la. Là ho tro­va­to me­di­ci, ope­ra­to­ri, una strut­tu­ra, in­som­ma, che ha sa­pu­to dar­mi l’a­iu­to di cui ave­vo bi­so­gno. Io, da par­te mia, ho la­vo­ra­to mol­to per cer­ca­re di usci­re dal mio iso­la­men­to, per met­ter­mi in un con­te­sto so­cia­le. Pro­prio gra­zie al cen­tro di sa­lu­te men­ta­le mi so­no aper­ta so­prat­tut­to a que­sti grup­pi di don­ne; ho fat­to un per­cor­so an­che no­te­vo­le, per­ché ad un cer­to pun­to so­no sta­ta pre­si­den­te del­l’as­so­cia­zio­ne cul­tu­ra­le “L’u­na e l’al­tra” e la pri­ma pre­si­den­te del­la Ca­sa in­ter­na­zio­na­le del­le don­ne di Trie­ste, che è una real­tà im­por­tan­te, un’ag­gre­ga­zio­ne di ot­to as­so­cia­zio­ni.
In que­sti ul­ti­mis­si­mi an­ni ho ri­pre­so una di­men­sio­ne un po­co più iso­la­ta, non nel sen­so che non ho ami­ci­zie, ma nel sen­so che so­no un po­co più se­let­ti­va. For­se sto be­ne an­che da so­la. Ho ri­tro­va­to un equi­li­brio… Par­te­ci­po sem­pre a tan­te at­ti­vi­tà, ma sce­glien­do quel­le che van­no be­ne per me e met­ten­do an­che un pun­tel­lo ri­spet­to ai miei spa­zi pri­va­ti, per­so­na­li, fa­mi­lia­ri. Ho avu­to una lun­ga re­la­zio­ne che si è con­clu­sa tre an­ni fa. Cer­te vol­te la so­li­tu­di­ne mi pe­sa, non pos­so di­re di no, pe­rò è una mia scel­ta e va be­ne co­sì. Ho tan­te ami­che, an­che ami­ci uo­mi­ni, ho una vi­ta pie­na di in­te­res­si e di co­se che fac­cio o che vor­rei fa­re… in­som­ma, pos­so di­re che la se­ra va­do a let­to stan­ca. Pe­rò so­no sem­pre se­gui­ta dal cen­tro di sa­lu­te men­ta­le di Bar­co­la.
Ma co­sa vuol di­re es­se­re se­gui­ta?
Sil­va. Es­se­re se­gui­ta vuol di­re che as­su­mo dei far­ma­ci, men­sil­men­te, e che ogni tan­to fac­cio dei col­lo­qui. An­co­ra un me­se e mez­zo fa ho chie­sto aiu­to. È suc­ces­so tan­te vol­te. Co­min­cia col pa­ni­co, le vo­ci, la sof­fe­ren­za… A quel pun­to, se vo­glio sen­tir­mi pro­tet­ta, se ho il ter­ro­re di star so­la a ca­sa, chia­mo un ta­xi e mi fac­cio por­ta­re al cen­tro. Lì pos­so par­la­re con un ope­ra­to­re, con un me­di­co che va­lu­ta la si­tua­zio­ne. Se ser­ve ri­man­go an­che la not­te, que­sto suc­ce­de qua­si sem­pre, non è che so­no la­scia­ta da so­la…
Ov­via­men­te lo fac­cio quan­do sto pro­prio ma­le: nes­su­no pren­de l’o­spe­da­le per l’al­ber­go. An­che quel­la è una co­sa che vor­rei non si ri­pe­tes­se più; co­me non vor­rei più star ma­le, co­sì non vor­rei più es­se­re ri­co­ve­ra­ta. Que­ste so­no le mie pre­ghie­re…
Sem­bra che gli epi­so­di di ri­ca­du­ta non sia­no co­sì dram­ma­ti­ci…
Sil­va. For­se sem­bra ma non è co­sì. L’an­no scor­so, a no­vem­bre, è suc­ces­so di nuo­vo ed è sta­to paz­ze­sco. So­no un po’ in ba­lìa di que­sta co­sa, è più for­te di me. Tra l’al­tro non ne­ces­sa­ria­men­te la cri­si è le­ga­ta a even­ti stres­san­ti.
Pe­rò quan­do esci, si ri­co­min­cia, non è una co­sa che ti pa­ra­liz­za.
Sil­va. Sì, la cri­si du­ra un pe­rio­do mol­to cir­co­scrit­to, quan­do fi­ni­sce ho un re­cu­pe­ro mol­to ra­pi­do e so­no di nuo­vo pa­dro­na del­la mia vi­ta.
Il rap­por­to con i far­ma­ci è pro­ble­ma­ti­co?
Sil­va. Quel­lo con i far­ma­ci è un rap­por­to vis­su­to, ge­ne­ral­men­te, in ma­nie­ra am­bi­va­len­te: ci so­no quel­li che as­su­me­reb­be­ro far­ma­ci a go-go, che ne abu­sa­no a ri­schio di una di­pen­den­za e poi ci so­no quel­li che vor­reb­be­ro non pren­der­li mai. Io ap­par­ten­go, piut­to­sto, a que­sta se­con­da ca­te­go­ria, ed è per que­sto mo­ti­vo che fac­cio un’i­nie­zio­ne ogni me­se. Sic­co­me pren­de­re le goc­ce mi met­te­reb­be ogni se­ra di fron­te al­la ma­lat­tia, al ma­les­se­re, pre­fe­ri­sco que­sta so­lu­zio­ne: suc­ce­de una vol­ta al me­se e non ci pen­so più, mi di­men­ti­co qua­si, ri­muo­vo.
Pe­rò ogni vol­ta è una sof­fe­ren­za, cioè per me quel­lo è un brut­to gior­no, va­do un po’ in cri­si, an­che se do­po mi di­men­ti­co…
Iza­bel. Non è fa­ci­le. In­tan­to de­vi tro­va­re il far­ma­co giu­sto per te e sa­reb­be op­por­tu­no pren­der­lo per un po’. Lì con­ta mol­to il rap­por­to con­trat­tua­le col tuo me­di­co: è fon­da­men­ta­le po­ter­ne par­la­re e an­che spe­ri­men­ta­re, per esem­pio pro­van­do a ca­var­se­la sen­za il far­ma­co. Ef­fet­ti­va­men­te, il far­ma­co può da­re sen­sa­zio­ni di an­neb­bia­men­to, di as­sen­za, an­che se so­no tut­ti ef­fet­ti mol­to sog­get­ti­vi. Co­mun­que mol­te per­so­ne han­no smes­so di as­su­me­re far­ma­ci.
Que­sto bi­so­gna dir­lo. Si trat­ta di per­so­ne che, in qual­che mo­do, han­no tro­va­to quel­l’e­qui­li­brio che per­met­te lo­ro di far­ne a me­no ac­cet­tan­do ca­so­mai di ave­re qual­che scoc­cia­tu­ra in più, di sta­re ma­le…
La re­co­ve­ry è un per­cor­so fa­ti­co­so…
Sil­va. Sai, io vi­vo con le vo­ci, se so­no po­si­ti­ve mi fan­no com­pa­gnia, mi so­sten­go­no, mi dan­no an­che la for­za di vi­ve­re, so­no quel­le ne­ga­ti­ve che di­strug­go­no. Io con­vi­vo con tut­to que­sto… le vo­ci, cer­te vol­te, le cer­co pro­prio.
Le cer­chi?
Sil­va. Sì, per­ché so­no un gran­dis­si­mo aiu­to. Dal­l’an­no scor­so ten­go un dia­rio quo­ti­dia­no in cui scri­vo an­che co­sa mi di­co­no le vo­ci.
Ave­te par­la­to di ser­vi­zi orien­ta­ti al­la re­co­ve­ry, co­sa si­gni­fi­ca?
Iza­bel. Ne stia­mo di­scu­ten­do ades­so con un grup­po di stu­dio sul­la re­co­ve­ry com­po­sto da ope­ra­to­ri e per­so­ne che han­no at­tra­ver­sa­to l’e­spe­rien­za del di­sa­gio men­ta­le. Chi è sta­to in cu­ra pres­so un ser­vi­zio di sa­lu­te men­ta­le di­ce che una co­sa mol­to im­por­tan­te è il pri­mo im­pat­to con la strut­tu­ra.
Sil­va. Quan­do una per­so­na sta ma­le, il co­me vie­ne ac­col­ta è de­ci­si­vo. An­che per­ché già an­da­re in un cen­tro di sa­lu­te men­ta­le co­sta una fa­ti­ca ine­nar­ra­bi­le, è do­lo­ro­sis­si­mo e al­lo­ra il fat­to che ti ac­col­ga un sor­ri­so, che ti ac­col­ga una per­so­na che si pre­oc­cu­pa e si oc­cu­pa di te, in­di­vi­dual­men­te, è fon­da­men­ta­le. Tra l’al­tro più si sta ma­le e più si è sen­si­bi­li e si col­go­no tut­te le sfu­ma­tu­re del­la ri­spo­sta del­l’al­tro.
Iza­bel. Le per­so­ne rac­con­ta­no di es­se­re os­ser­va­to­ri mol­to “at­ten­ti” in quel mo­men­to, per cui i ge­sti con­ta­no mol­to. Per esem­pio, se ve­di che l’o­pe­ra­to­re è un po’ al­te­ra­to e al­za la vo­ce, que­sto può met­te­re a re­pen­ta­glio l’in­te­ra ac­co­glien­za. D’al­tra par­te il ser­vi­zio ha una sua vi­ta. I ser­vi­zi di sa­lu­te men­ta­le so­no mol­to at­tra­ver­sa­ti, du­ran­te tut­ta la gior­na­ta. Per al­cu­ni uten­ti que­sto è po­si­ti­vo: so­no qui e sto da ca­ni, ma ve­do che c’è una vi­ta in­tor­no a me e que­sto mi aiu­ta. Per al­tri è ne­ga­ti­vo: so­no tal­men­te con­fu­so che se ve­do con­fu­sio­ne at­tor­no a me, non pos­so reg­ge­re. Co­mun­que non ba­sta l’at­ten­zio­ne, ci vuo­le an­che uma­ni­tà, la co­sa fun­zio­na quan­do c’è sog­get­ti­vi­tà da en­tram­be le par­ti. E poi de­ve crear­si un rap­por­to di fi­du­cia. Pren­dia­mo la que­stio­ne del­le vo­ci. Mol­te per­so­ne non rac­con­ta­no che sen­to­no le vo­ci, per­ché han­no pau­ra di una me­di­ca­liz­za­zio­ne più pe­san­te.
Per­ché si rea­liz­zi la re­co­ve­ry ci de­vo­no cre­de­re an­che gli ope­ra­to­ri, che i pa­zien­ti pos­sa­no gua­ri­re. Su que­sto a che pun­to sia­mo?
Iza­bel. Qui apria­mo un ca­pi­to­lo pe­no­so, che ri­guar­da an­che la for­ma­zio­ne. Se tu pen­si al­le uni­ver­si­tà, ai fu­tu­ri me­di­ci, a co­me ven­go­no for­ma­ti, in qua­le con­te­sto, in­dub­bia­men­te c’è tan­to pes­si­mi­smo e an­che tan­to pre­giu­di­zio.
An­che per que­sto mo­ti­vo le nuo­ve ri­cer­che qua­li­ta­ti­ve, ba­sa­te sul­la rac­col­ta di espe­rien­ze di gua­ri­gio­ne, so­no im­por­tan­ti per­ché van­no ad apri­re la men­te di chi si sta for­man­do ades­so. La for­ma­zio­ne con­ta mol­to. Do­po­di­ché è chia­ro che se la­vo­ri in con­te­sti in cui non si cre­de al­la pos­si­bi­li­tà di vi­ta di­gni­to­sa, sod­di­sfa­cen­te, il ri­schio del­la pro­fe­zia che si au­toav­ve­ra è mol­to for­te. Il cre­de­re che è pos­si­bi­le è fon­da­men­ta­le. Tan­t’è che in que­sto grup­po di stu­dio sul­la re­co­ve­ry, al­cu­ni uten­ti ma­ni­fe­sta­no pro­prio que­sto bi­so­gno: “Vo­glio che qual­cu­no mi di­ca che quel­lo che ho non è co­sì gra­ve”.
Ma non ba­sta. Un ser­vi­zio orien­ta­to al­la gua­ri­gio­ne è an­che un ser­vi­zio che non ri­man­da a spe­cia­li­smi, ma che pren­de in ca­ri­co la per­so­na con tut­ta la com­ples­si­tà del­la si­tua­zio­ne, dei suoi bi­so­gni, de­si­de­ri. In­tan­to se quel­la per­so­na non ha un la­vo­ro, se ha in­ter­rot­to gli stu­di o se non ha una ca­sa bi­so­gna oc­cu­par­si an­che di que­ste co­se. Pur­trop­po con la con­tra­zio­ne del­le ri­sor­se sta di­ven­tan­do più dif­fi­ci­le, pe­rò gli obiet­ti­vi re­sta­no que­sti. L’i­dea è che si fa un pez­zo di stra­da as­sie­me; l’im­por­tan­te è che le per­so­ne cam­mi­ni­no con le pro­prie gam­be e su que­sto, se­con­do me, an­che il ser­vi­zio de­ve far­si una ra­gio­ne. Cioè il ser­vi­zio non de­ve ca­de­re nel­la ten­ta­zio­ne del “gran­de ab­brac­cio”, de­ve es­se­re ca­pa­ce an­che di per­met­te­re che le per­so­ne ri­fiu­ti­no, si in­caz­zi­no, va­da­no via, si eman­ci­pi­no del ser­vi­zio stes­so, sen­za pe­rò sot­trar­si al­l’im­pe­gno di tu­te­la del­la sa­lu­te.
L’im­por­tan­te è che le per­so­ne che non so­no più in con­tat­to con il ser­vi­zio, per­ché non ne han­no bi­so­gno, lo ten­ga­no pre­sen­te, sap­pia­no che co­mun­que c’è. Qui i ser­vi­zi so­no aper­ti ven­ti­quat­tr’o­re su ven­ti­quat­tro, set­te gior­ni su set­te e chiun­que può ac­ce­der­vi se ha un bi­so­gno.
I cen­tri di sa­lu­te men­ta­le re­sta­no luo­ghi che la gen­te cer­ca di evi­ta­re.
Iza­bel. Nes­su­no è mai con­ten­to di an­da­re in un ser­vi­zio di sa­lu­te men­ta­le. Pri­ma di ar­ri­va­re spes­so i per­cor­si so­no lun­ghi e tor­tuo­si. Ma­ga­ri si pre­fe­ri­sce an­da­re pri­ma da un me­di­co in pri­va­to; da quan­do com­pa­re il pro­ble­ma al­l’ar­ri­vo in un ser­vi­zio pub­bli­co, pos­so­no pas­sa­re an­che de­gli an­ni. Non è una de­ci­sio­ne fa­ci­le quel­la di far­si as­si­ste­re…
Ol­tre al­lo stig­ma, può es­ser­ci an­che la pau­ra del­la ma­lat­tia, di ve­der­la san­ci­ta?
Sil­va. No, non cre­do che sia tan­to que­sto, per­ché se uno va dal me­di­co pri­va­to, co­mun­que ha ri­co­no­sciu­to per­lo­me­no di non star be­ne e di aver bi­so­gno di un aiu­to. È più che al­tro la que­stio­ne del­la pri­va­cy, del­la tu­te­la, di non far­si ve­de­re in quel po­sto.
Nel­le sto­rie che ave­te rac­col­to, in que­sta con­qui­sta di un be­nes­se­re mag­gio­re non c’è mai al­cun trion­fa­li­smo…
Sil­va. C’è po­co da es­se­re trion­fa­li­sti­ci. Io ho la con­sa­pe­vo­lez­za di aver del­le co­se da di­re; que­sta sof­fe­ren­za, in qual­che mo­do, l’ho fat­ta mia e mi è sta­ta an­che uti­le, di­cia­mo, pe­rò avrei pre­fe­ri­to non do­ver sof­fri­re tan­to, non so­no ma­so­chi­sta. No, nes­sun trion­fa­li­smo. Ca­so­mai, ri­spet­to al­lo stig­ma, l’or­go­glio di di­re: “Sì, io ho que­st’e­spe­rien­za in più”, ma poi c’è tut­ta l’u­mil­tà del­la fa­ti­ca quo­ti­dia­na e so­prat­tut­to del ter­ro­re che si ri­pe­ta…
Quel­lo re­sta…
Sil­va. Io vi­vo mol­to il pre­sen­te, ma se pen­so al fu­tu­ro, pen­so mol­to a que­sto.
Iza­bel. La re­co­ve­ry si ali­men­ta an­che di que­sto da­re im­por­tan­za, por­ta­re ri­spet­to al­la pro­pria espe­rien­za. Al­cu­ne per­so­ne di­co­no che so­no cam­bia­te, che so­no ad­di­rit­tu­ra mi­glio­ra­te nel ca­rat­te­re, nel mo­do di pren­de­re la vi­ta. È co­me se que­sta espe­rien­za gli aves­se in­se­gna­to a vi­ve­re. L’al­tro gior­no, par­lan­do nel grup­po di stu­dio che si è mes­so as­sie­me per fa­re una boz­za del­la car­ta del­la gua­ri­gio­ne, un pa­io di ra­gaz­zi di­ce­va­no di es­se­re tal­men­te ri­spet­to­si del­la pro­pria espe­rien­za che non vor­reb­be­ro nean­che par­la­re di gua­ri­gio­ne, non osa­no.
Gua­ri­gio­ne è una pa­ro­la che non rie­sce an­co­ra ad es­se­re ben col­lo­ca­ta. Sem­pre al­l’in­ter­no di que­sto grup­po, qual­cu­no ha chie­sto se il me­di­co scri­ve mai “gua­ri­to” sul­la car­tel­la. Non sia­mo riu­sci­ti a dar­ci una ri­spo­sta. Un’al­tra do­man­da po­sta da un uten­te è sta­ta: “Ma quan­to tem­po de­ve pas­sa­re per­ché io pos­sa con­si­de­rar­mi gua­ri­to?”.
Se la ma­lat­tia è un pez­zo di te, la gua­ri­gio­ne non può es­se­re vis­su­ta un po’ an­che co­me un’am­pu­ta­zio­ne, il per­de­re qual­co­sa? Si può af­fe­zio­nar­si al­la ma­lat­tia?
Iza­bel. Le per­so­ne di­co­no che le co­se ini­zia­no a cam­bia­re quan­do c’è un’ac­cet­ta­zio­ne; la chia­ve è che pian pia­no co­min­ci a con­vi­ve­re, a co­no­sce­re e a tra­sfor­ma­re; il cam­bia­men­to av­vie­ne un po’ at­tra­ver­so que­sto non ne­ga­re l’e­spe­rien­za del­la sof­fe­ren­za. Quin­di non è che ti strap­pi via qual­co­sa. La Dee­gan di­ce che è ac­cet­tan­do le tue li­mi­ta­zio­ni, quel­lo che non puoi es­se­re, che co­min­ci a fa­re le co­se che vuoi fa­re e ad es­se­re quel­lo che vuoi es­se­re. C’è que­sto pa­ra­dos­so.
Sil­va. Io cre­do che le per­so­ne non vo­glia­no tor­na­re a sof­fri­re e che quin­di vor­reb­be­ro gua­ri­re. Cioè, io, per­so­nal­men­te, non mi di­ver­to af­fat­to quan­do sto ma­le. Vo­glio star be­ne, ago­gno a quel­lo. Cer­to, non ri­pu­dian­do nien­te di quel­lo che è sta­to il mio per­cor­so di vi­ta.
L’u­ni­ca co­sa che chie­do è quel­la di non fer­mar­mi, di con­ti­nua­re a mi­glio­ra­re co­me per­so­na; su que­sto la ma­lat­tia in ef­fet­ti è uno spro­ne. Ec­co, non so se sta­re in que­sto pro­get­to di cre­sci­ta mi sia con­ces­so so­lo at­tra­ver­san­do la sof­fe­ren­za. Fran­ca­men­te vor­rei pro­va­re an­che al di fuo­ri del­la sof­fe­ren­za.
(a cu­ra di Bar­ba­ra Ber­ton­cin)

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