All’indomani dell’assurda morte di Jefferson Tomalà, tra le tante incoerenze delle narrazioni che venivano proposte, tracui l’invenzione di sana pianta del Tso(!), mi ha colpito soprattutto la differenza manifesta nei due differenti comunicati (anzi, tweet nel primo caso) emessi dal Ministro degli Interni e dal prefetto Gabrielli, capo della Polizia. Se il primo si è limitato a far sentire esclusivamente la vicinanza dello stato al poliziotto ferito (“Non solo da ministro, ma da cittadino italiano e da papà sarò vicino in ogni modo possibile a questo poliziotto che ha fatto solo il suo dovere salvando la vita a un collega”) il secondo, dopo aver espresso soddisfazione per le condizioni non gravi del collega ferito aggiungeva: “anche se queste vicende lasciano sempre un aspetto di amarezza, perché quando muore una persona, anche se è una persona che delinque, che si è posta in una condizione di offesa nei nostri confronti, credo che non sia mai una cosa positiva e mi fa piacere che di questo ne abbia contezza anche il collega, perché mai dobbiamo perdere quel profilo di umanità che alla fine contraddistingue la nostra attività.”
Confesso che, all’inizio, ho interpretato tutto come il classico esempio di poliziotto buono/poliziotto cattivo, dove due colleghi si scambiano il gioco delle parti per mantenere sotto pressione l’indagato (=in questo caso leggi: opinione pubblica). Solo dopo un po’ mi sono ricordato che Salvini non è un poliziotto e, nonostante le felpe che ama tanto indossare, non lo è mai stato.
Allora il caso mi si è definito in un’altra maniera: si tratta di un caso di poliziotto vero/poliziotto finto. La dimensione di Salvini, un ministro che la politica la fa su twitter ma si guarda bene dal presentarsi in parlamento quando si tratta di discutere Dublino, è quella della virtualità assoluta, dove non ci si scontra mai con le dure ambivalenze della realtà. Una dimensione virtuale tra l’altro necessaria per alimentare le dicotomie buono/cattivo, giusto/sbagliato, nero/bianco di cui si nutre il suo scarno pensiero politico. Niente di più lontano quindi dal piano di realtà vera con cui si confronta chi il mestiere di poliziotto lo fa sul campo, e non al telefonino o al computer.
Un poliziotto sa che, per affrontare il proprio mestiere, è indispensabile esercitare pietas verso le vittime di ogni storia, di ogni caso, di ogni umana vicenda. Un poliziotto entra in case degradate, quartieri a rischio, realtà sociali marginali e marginalizzate, tocca con mano le tante mancanze in cui tante famiglie sono costrette a vivere in Italia, e sa che parlare di colpe davanti a tragedie come queste ha senso solo dopo aver espresso dolore sincero e partecipazione umana a tutte le persone coinvolte. Il poliziotto, per usare le parole del Capo della Polizia, sa che mai si dovrebbe perdere quel profilo di umanità che alla fine deve contraddistinguere un lavoro così difficile e complesso.
Ma questo Salvini non lo sa, perché lui non si stacca dal cellulare per andare in quelle case: lui al limite fa un salto dalla D’Urso o commenta la finale del Grande Fratello su Facebook. Una pratica del mestiere vero Salvini non ce l’ha, perché poliziotto non è mai stato. Sarà per questo che le vittime vere di questa tragedia (Jefferson e la sua famiglia) il Ministro degli Interni non le ha neanche notate: il non citarle è stato semplice conseguenza.