di Luana De Vita

Poi ti volti e non sai ancora dire e taci meravigliata”. Un sospiro sospeso la tua fine, ma poi il respiro riprende con un sorriso triste come quelli che ci hai regalato tu: non c’è fine alla tua poesia, non c’è mai stata fine per nessun vero poeta. Scrivesti che il pianto dei poeti è solo canto, dunque la morte di un poeta è energia che sprigiona meraviglia, è vita che torna ad essere libertà. No, no, non “sei sola nella dimora degli angeli”, siamo un po’ tutti con te, intrappolati nell’estasi della tua sofferenza e della tua dolcezza inquieta. Abbiamo attraversato con te le ombre della diversità e della reclusione dal mondo ma poi ci hai voluto accompagnare nell’altra prigione, quella del mondo di fuori. Fuori da quelle mura di follia e dolore dove hai incontrato di nuovo la miseria della vita e l’hai trasformata in un gemito, in un soffio, in un canto per restituirci almeno la certezza che non ci sono confini nella salute e nella malattia, solo persone, qualche volta poeti, forse anche rivoluzionari. I confini. Quelli dei manicomi per esempio, sono degli uomini meschini e del potere. Mai delle donne, che amano sempre troppo. “E, dopo, quando amavamo, ci facevano gli elettrochoc

perché, dicevano, un pazzo non può amare nessuno.” Là dentro le mura di Gerico, come hai chiamato i recinti manicomiali, e poi fuori. La tua “resurrezione” senza salire ai cieli, hai chiamato inferno questo mondo “altro” e da questo spazio inventato, questo “fuori” inventato dagli uomini che si sentono sani “guardavi stupita le mura di Gerico antica”. Solitudini e distanze, strappi alla carne e al cuore, abbiamo attraversato l’orrore della tua Palestina e della nostra, costretti a riconoscere nel tuo dolore antico l’eco delle nostre paure e delle nostre miserie quotidiane. Ma i poeti trasformano il dolore in un sogno, le donne trasformano umori e sangue in vita, le persone non sono la loro malattia e i confini non possono arginare la paura né contenere certezze. Ci hai restituito così l’incanto della semplice umanità anche verso chi, incapace di cogliere il senso di una verità personale, la nega e preferisce l’etichetta della malattia (questa o quella che importa?): chi non accoglie, respinge e imprigiona. Siamo rimasti un po’ più soli adesso, in questo mondo, ma non dimenticheremo.

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