Più che un documento in cui risulti la storia del paziente sembra spesso una pezza giustificativa che l’ospedale (il servizio) prepara per motivarne il ricovero (il trattamento). La formulazione della diagnosi illumina di un colorito particolare ogni atto o avvenimento della vita del paziente, mettendo in evidenza soltanto gli aspetti che possono essere interpretati sotto questa luce. Nella cartella clinica non solo viene ricostruita (a posteriori) la malattia ma anche la storia del paziente, una storia che sembra sia stata vissuta soltanto in funzione di quella malattia e, soprattutto, in funzione del ricovero […]. Sembra rivolta a individuare gli elementi più negativi, i fallimenti più nascosti, gli avvenimenti più vergognosi che abitualmente l’individuo riesce a celare; e ciò per costruire un quadro del “malato” perfettamente rispondente all’ipotesi diagnostica. Gli stessi elementi collezionati nella cartella clinica di un malato istituzionalizzato restano fatti privati personali per chiunque non entri in una istituzione psichiatrica. All’internato (all’utente psichiatrico) invece non resta più niente di personale e meno ancora di privato. E la cartella clinica, con l’elenco delle sue «stranezze» e dei suoi «errori» diventa perciò un nuovo strumento antiterapeutico che si aggiunge agli altri, aiutando a fissarlo in quella sua immagine di pazzo, ormai pubblica e quindi irreversibile
(F. Ongaro Basaglia in Noi matti – Dizionario della nuova psichiatria, pubblicato in l’«Espresso-colore» del 21 marzo 1971)
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[Ci proponiamo con questi interventi minimi, che chiamiamo ‘cantiere salute mentale’, di tentare di ri-attivare interesse all’interno di tutta quella comunità di persone che siamo e che in un modo o nell’altro si muovono intorno alla ‘questione psichiatrica’, nel contrasto alle persistenti istituzioni totali (e sempre rinascenti), per ampliare margini di libertà e diritti, per promuovere emancipazione e possibilità.]