deyresDi Maria Grosso

[articolo uscito su il manifesto il 17 ottobre 2020]

La messa in atto di una concezione differente e liberatoria del lavoro, non come fattore di espropriazione da sé ma al contrario come antidoto al disagio e al disadattamento umano. La quintessenza di una psichiatria dirompente che crede talmente nella non sopraffazione dell’individuo da fare di un luogo di cura anche un avamposto di resistenza ai fascismi del mondo.

Les Heures Heureuses, di Martine Deyres in visione alla V edizione del Working Title Film Festival di Vicenza, rassegna stavolta online, diretta da Marina Resta, con un focus sulle tematiche del lavoro, è un dono di quanti sono stati ideatori e struttura vivente dell’Ospedale psichiatrico di Saint-Alban-sur-Limagnole – siano pazienti, medici o assistenti – fino a desiderare di farne memoria filmando. Una memoria che ha continuato a pulsare attraverso i decenni finché Deyres – in visita alla biblioteca del luogo – non si è imbattuta in uno scatolone carico di 42 bobine.

Così, in una trama tremolante in bianco e nero, si oltrepassa l’antico portone e siamo nella seconda metà degli anni ’30 – nella Lozère, una delle aree rurali più povere della Francia – a scoprire che il cancello è aperto e che non ci sono barriere tra ospedale e villaggio.

E se oggi nella psichiatria pubblica spaventosamente ritornano le porte chiuse le camicie di forza la videosorveglianza e l’isolamento, «questi dispositivi vogliono farci dimenticare che a Saint-Alban era differente», annota Deyres in voce over (come saranno tutti gli interventi, per esaltare la potenza delle immagini). Perché a Saint-Alban c’era chi lavorava all’esterno nell’azienda agricola o negli atelier di falegnameria, nei laboratori di ergoterapia, connubio di cooperazione tra assistenti e pazienti, e chi all’interno: tra lavoro a maglia, laboratorio di fotografia e Trait d’union il giornale dell’ospedale, la voce dei pazienti.

Allora il passato si fa presente della storia dell’ospedale: dal ’36, negli anni del Fronte Popolare, la direzione di Paul Belvet, che fa falsi certificati di degenza per rifugiati politici, tra cui tanti ebrei, e che all’unico congresso di psichiatria, che si tiene sotto occupazione nazista, denuncia le condizioni in cui versano gli internati – durante il conflitto 45mila moriranno di fame e di freddo – e solo a Saint-Alban si salveranno. E ancora l’impronta indelebile della psychothérapie institutionelle di François Tosquelles, psichiatra comunista catalano – cui oggi l’ospedale è dedicato – perseguitato dal regime franchista. E Paul Eluard che lì sosta, i suoi Souvenirs de la maison de fous, surrealismo e amore della follia come amore per la differenza, e Jean Dubuffet e Auguste Forestier – con le sue opere il film si fa a colori – (fu tra i ricoverati come l’artista tessile Marguerite Sirvins) e Frantz Fanon che voleva restituire ai pazienti la speranza di passato presente e futuro. Di ore felici danzando, guardando in macchina, immersi nel mare durante una vacanza con gli assistenti. Mentre parte dei guadagni dei pazienti è investita in laboratori di cinema, teatro, feste, biblioteca, caffetteria. Perché non è possibile separare lavoro salute globale umana e piacere.

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