Il modo in cui le agenzie dell’informazione e i media si occupano attualmente degli accadimenti di cronaca merita una riflessione critica. Sempre più spesso gli eventi vengono presentati in maniera sommaria e senza un approfondimento delle storie di vita. Le persone finiscono per diventare dei “casi”, talvolta oggetto di discussione nei salotti televisivi, al cospetto di esperti e opinionisti che emettono giudizi in assenza di una conoscenza pratica e di un interessamento concreto alla dimensione individuale e sociale delle persone coinvolte. Le notizie, diffuse in modo sensazionalistico, vengono sovente assimilate tra di loro, anche quando molto diverse, poiché uniformate da un comune denominatore: la presenza della malattia mentale.
È importante interrogarsi sull’adeguatezza della divulgazione che oggi viene offerta dai media soprattutto per le implicazioni negative che certi messaggi veicolano. Una tale modalità di diffusione delle notizie, anziché mettere in rilievo i molteplici fattori che possono essere stati la causa del disagio o che possono aver contribuito a esacerbarlo, pone il “problema” all’interno del soggetto, in una presunta malattia inguaribile per la quale si vede necessaria una soluzione coercitiva. È essenziale sottolineare come le spiegazioni derivanti da un modello ormai superato, come quello organicistico, non possano che alimentare una cultura custodialista della cura, anziché preventiva del rischio, contribuendo alla diffusione di un clima di diffidenza nella collettività e limitando la possibilità di ragionare su quanto si possa, e si debba fare, per creare le condizioni per il benessere collettivo.
La cosa preoccupante è che misure sempre più oppressive vengono richiamate a gran voce anche dagli esperti, e individuate nelle forme che nulla hanno a che vedere con la cura, come la reclusione o l’obbligo della terapia, frequentemente prima ancora che si sappia la realtà dei fatti. Ciò non fa che alimentare lo stigma, anziché stimolare la riflessione sulla fragilità del nostro sistema sociale e sul cambiamento necessario del nostro sistema educativo, culturale, politico e sanitario.
Le vicende di cronaca odierne devono agevolare un’attenzione sulla singolarità vissuta, e aiutarci a riflettere sulla debolezza dei servizi e sulla mancanza di risorse e di presenze nel quotidiano delle famiglie, e nelle istituzioni deputate alla cura. La tragicità di alcuni eventi deve stimolare un’analisi dei fattori che sono prodromi di accadimenti dolorosi, e una riflessione critica in merito alle decisioni scellerate che in questi ultimi decenni hanno portato la politica a disinvestire sulle pratiche relative alla salute e all’educazione.
L’affermarsi di una visione dicotomica che scinde la società in degni e immeritevoli è un rischio che non dobbiamo correre, poiché si tratta di un ritorno a un modello che ci ha già mostrato tutta la sua aberrazione con i manicomi, e dal quale la nostra società si è affrancata dopo anni di lotte. È necessario che si dica che il bisogno delle persone e delle famiglie oggi non trova accoglienza perché lo Stato ha deciso di non occuparsi del ben-essere dei suoi cittadini, e che è questa la causa maggiore di disagio e criticità.
Riguardo l’aspetto dei servizi di salute mentale, nei telegiornali e nei talk televisivi difficilmente viene fatto accenno al disinteresse crescente della politica nei confronti del bisogno delle persone e delle famiglie, e nei riguardi di chi si adopera per il sostegno di tutte le persone coinvolte. C’è chi lavora in condizioni impossibili da sostenere, e senza poter garantire una risposta tempestiva, e questo per mancanza di risorse economiche e di presenze. Va detto che negli ultimi decenni non aver dato priorità alla salute pubblica ha limitato fortemente la crescita di quella società di cura che il modello basagliano aveva messo in campo dimostrando che è possibile sostenere la vulnerabilità in altro modo.
Con una divulgazione che sostiene il modello medicalizzante, piuttosto che ragionare sulla “cura”, si può solo tornare ad agire in termini di custodia, mettendo di nuovo in atto quelle misure che sono state abbandonate proprio perché inefficaci.
La necessità oggi non è quella di trovare soluzioni facili a un problema complesso, ma tornare ad abitare la cura in una visione della fragilità che possa permettere alla società di dare priorità al bisogno, non come un “problema” interno al soggetto ma come un elemento essenziale della condizione umana, costitutivamente precaria e mancante, per la quale sono necessari servizi di cura forti e un’etica della responsabilità condivisa. I fatti di questi giorni, in tutta la loro drammaticità, devono stimolare la possibilità di ripensare il “dovere”, soprattutto in questa nostra contemporaneità sempre più individualista, incoraggiando il desiderio della collettività di rimanere umani, di essere quindi presenti e solleciti verso la singolarità del bisogno di ogni persona. Il dovere è una questione che concerne l’etica, e che si configura come un aspetto carente del dibattito odierno politico e culturale nel nostro paese, che deve invece tornare al centro dell’interesse della collettività e delle istituzioni.
Di fronte a tanto disagio è doveroso interrogarci più a fondo, perché il bisogno delle persone e delle famiglie non rimanga soltanto un “dato” di cui discutere in maniera superficiale e veloce, e perché l’ultimo “fatto di cronaca” non resti solo un “caso” tra gli altri, ma diventi sprone per la costruzione di ciò che manca, affinché le persone possano stare bene e affrontare la vita con il sostegno necessario.
Immaginare una società di cura che sappia costruire ciò che serve, in un orizzonte di senso adeguato alla vulnerabilità umana, è un impegno improrogabile; non è certamente un’utopia ma ciò che è stato fatto in Italia e che è importante ricordare e continuare a realizzare, non a partire da una ideologia della malattia ma da una visione etica ed esistenziale della persona umana e del suo bisogno.