La razionalizzazione dei servizi di salute mentale
è solo una scorciatoia per tagliarli

di Andrea Angelozzi

da Quotidiano Sanità

Taluni meccanismi gestionali sono talmente ripetitivi da rappresentare ormai specifici schemi. Quello che è avvenuto negli ultimi 10 anni nell’ambito delle politiche della salute mentale è stato un progressivo impoverimento delle risorse del personale secondo più binari paralleli. Il primo è una logica di contenimento della spesa attraverso l’accorpamento di servizi e la creazione di unità operative complesse e dipartimenti sempre più grandi. Questa opera di “razionalizzazione” ha di fatto non solo creato megastrutture slegate dalla singola realtà territoriale in violazione dei principi base della psichiatria di comunità, ma ha creato un accorpamento del personale dimensionato per strutture, a tentare di gestire la sopravvivenza delle poche rimaste, invece che per attività, dimenticando quindi la proporzione con l’utenza o il territorio seguito. Si è sostituita in modo impoverente una capillarità di servizi generali con il contentino di qualche ora di frammentata competenza dedicata a presunte patologie specifiche.

Questa logica dell’accorpamento come impoverimento è in parte alla base del legittimo sospetto con cui i servizi guardano a possibili integrazioni strutturali, quali quelle con i SerD o le Neuropsichiatria Infantile che meriterebbero invece attenzione.

La seconda strada è stata un inesorabile rosicchiare sul turnover che puntualmente dimenticava di autorizzare la sostituzione di qualche operatore. O meglio, gli operatori più onerosi quali medici e psicologi, mentre rimanevano spazi per qualche infermiere, qualche educatore e molti OSS, creando l’illusione che comunque poi i numeri complessivi per i report resistevano. Nel frattempo altre realtà specie ospedaliere potevano contare per i motivi più vari su una diversa attenzione, assorbendo le risorse non sostituite dei servizi più fragili, quali salute mentale, neuropsichiatria infantile, SerD, consultori. E poi ci si sorprende che servizi appena gestibili siano finiti sotto il minimo, che gli operatori siano stati spremuti fino a voler andare via e che ora non ci siano più medici disponibili.

Alla fine il tetto di spesa per il personale complessivo era raggiunto comunque e risorse per tappare i buchi nelle strutture più disastrate semplicemente non ne sono rimaste.

Il terzo meccanismo vede il completo scollamento fra enunciazioni teoriche ed operatività, che rappresenta la perfezione di realtà politiche che promettono e pianificano cose bellissime che non possono però realizzarsi per imperscrutabili motivi esterni. E questo senza che mai appunto i motivi siano esplicitati e chiariti. È il caso dei nuovi standard per il personale, approvati da tempo in Conferenza stato regioni, ma di cui non c’è traccia applicativa forse anche perché non si comprende come possano essere finanziati. O di Regioni (è quanto la stampa locale sta riportando in Veneto) che bandiscono concorsi per tamponare le falle createsi in passato ma che poi bloccano le assunzioni, ammettendo candidamente che le ASL hanno già raggiunto il tetto della spesa possibile.

Quando la salute mentale chiede il 5% del FSN dimentica che la spesa è soprattutto per il personale e qualunque adeguamento può nascere ormai solo se si tratta di risorse aggiuntive e se si accetta che le ASL superino i limiti nella spesa del personale. Ma non c’è traccia di nessuna delle due condizioni, e nemmeno se ne parla.

Non a caso vengono ricercate le iniziative in ambito psicologico presso i Comuni, che di fatto sono il soli a poter fornire, anche se poche, risorse aggiuntive, in progetti peraltro disgiuntivi rispetto alla Salute Mentale del SSN.

Alla fine emerge la sensazione di trovarsi in un labirinto in cui non si sia fatta l’uscita e si continua ad essere rimbalzati fra i vari percorsi; così come la realtà economica poco appetibile di CSM e SPDC supporta il dubbio che più che un progetto di impoverimento della sanità pubblica a favore del privato, quello che domina è la mancanza di un progetto. Ci sia cioè una semplificazione gestionale che di fronte alla complessità dei problemi opera come il bonsaista inesperto che quando non sa come posizionare un ramo lo taglia, sorpreso poi di ritrovarsi solamente un tronco destinato a morire.

E si fa strada l’idea che molta razionalizzazione dei servizi sia solo scorciatoie fallimentari per domare la inevitabile complessità dei servizi a colpi di tagli ed esternalizzazioni.