di Peppe Dell’Acqua e Silvia D’Autilia
Salerno, 1° gennaio 2014
“Testa di maiale sotto casa di De Luca: è Marcello De Martino il colpevole.
Fermato l’autore delle minacce al sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca: si tratta di Marcello De Martino di 36 anni. È lui che il 26 novembre ha fatto ritrovare la testa di maiale sulle cassette postali nell’androne del palazzo, dove abita il primo cittadino”.
(da salernotoday)
Questo il fatto. Marcello viene portato in questura e di lì di fronte al giudice Donatella Mancini per le indagini preliminari. Sembra che sia stato proposto un Trattamento sanitario obbligatorio da eseguirsi nel Servizio psichiatrico del San Leonardo di Salerno. Non sappiamo perché non ha avuto luogo. È accaduto invece che un giudizio di pericolosità richiesto dal giudice abbia avviato in tempi davvero rapidissimi l’invio nel vicino Opg di Aversa in applicazione di una misura di sicurezza provvisoria (art. 206 c.p.).
Che cosa era veramente accaduto? E perché a Marcello De Martino era venuto in mente di “donare” al Sindaco una testa di maiale? Marcello De Martino aveva lavorato fino a qualche tempo prima come precario nel progetto/cooperativa Salernopulita. Alla fine del rapporto di lavoro stupore e rabbia.
Marcello ha famiglia. Non riesce a farsi una ragione di quanto è accaduto. Comincia a protestare prima coi responsabili del progetto e poi direttamente al Comune. Naturalmente col Sindaco. La sua protesta assume toni eclatanti e bizzarri. Sempre nel mese di Novembre e sempre per protestare si era impossessato di un minibus del trasporto pubblico. Aveva percorso alcuni km prima di essere fermato dalla polizia. Portato davanti al magistrato era stato da questi affidato ai familiari con la raccomandazione di aver cura di lui perché qualcuno (i servizi di salute mentale?) lo ascoltasse. Non sappiamo se questo è accaduto. Sta di fatto che si ritrova di nuovo davanti al giudice e viene indagato per “tentata estorsione” con il metodo mafioso (l’oggetto dell’estorcere è un posto di lavoro). Invece del posto di lavoro viene “offerto” un posto all’Ospedale psichiatrico di Aversa.
Tutto accade nel rispetto della Legge: codice Rocco, codice penale del 1930, anno VIII dell’era fascista.
Il giudice, di fronte alla necessità di trattenere l’indagato in carcere (custodia cautelare), di fronte al sospetto di un disturbo mentale e alla presenza determinante della pericolosità sociale, può applicare la misura di sicurezza provvisoria. Tutti questi passaggi sono avvenuti in un lasso di tempo brevissimo. Non osiamo pensare ai potenti, ai tempi lunghissimi della giustizia, all’archiviazione dei casi per la decorrenza dei termini.
Non sappiamo come lo psichiatra certamente convocato dal Gip abbia potuto – ma forse lo sappiamo fin troppo bene – in non più di tre giorni e fossero anche sette non cambia molto, accertare un disturbo mentale, sostenere l’incompatibilità di questo con la carcerazione, vedere come impraticabile un ricovero nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura ed emettere senza ombra di dubbio il giudizio di pericolosità sociale. Che, come tutti sanno, corrisponde a una condanna pesantissima che condiziona irrimediabilmente il destino delle persone.
E non sappiamo perché il Gip Donatella Mancini abbia potuto disattendere o dimenticare quanto è previsto all’articolo 286 del codice di procedura penale:
“Se la persona da sottoporre a custodia cautelare si trova in stato di infermità di mente che ne esclude o ne diminuisce grandemente la capacità di intendere o di volere, il giudice, in luogo della custodia in carcere, può disporre il ricovero provvisorio in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero, adottando i provvedimenti necessari per prevenire il pericolo di fuga. Il ricovero non può essere mantenuto quando risulta che l’imputato non è più infermo di mente.”
Sappiamo che Marcello De Martino, sottratto a questa urgente solertia della giustizia, avrebbe potuto essere curato, restare a disposizione delle autorità giudiziarie e se del caso, vista l’esiguità e la ragione del reato, restare in attesa di giudizio a piede libero o per un brevissimo tempo in carcere. Sappiamo che la misura di sicurezza per Marcello, come per altre 280 persone, oggi internate in Opg con lo stesso criterio, può diventare una pena senza fine. L’ergastolo bianco. Sappiamo che la difesa garantita a tutti i cittadini dalla Costituzione ha già perduto molto della sua possibilità di contrasto. Marcello, soggetto debole, per Marcello una difesa debolissima.
Ultima cosa che sappiamo. Marcello protesta perché ha perduto il lavoro. È disoccupato. Sta facendo qualcosa che almeno negli ultimi sei anni ci sta ossessivamente segnalando la stampa quotidiana. Proteste isolate e disperate. Proteste collettive. Più volte siamo rimasti attoniti di fronte al suicidio di chi aveva perduto il lavoro e con un determinismo che non riusciamo affatto a condividere si è detto: “un imprenditore ha perso il lavoro e si è ucciso; un precario ha perso il suo lavoro precario e si è ucciso”. Molte e più complesse riteniamo siano le ragioni perché un gesto così estremo accada. Tuttavia se Marcello avesse rivolto contro di sé la rabbia e la disperazione, se si fosse ucciso, avremmo compianto e condiviso da lontano la sua protesta. O più probabilmente di Marcello non avremmo mai saputo nulla. L’unica colpa di Marcello è allora quella di non essersi ucciso? Ma, a metterlo via, ci ha ben pensato il Codice Rocco.