Una riflessione di Luigi Benevelli

Il degrado della politica e dell’etica pubblica in Italia ha consentito e consente che la possibile transizione verso la chiusura degli opg si svolga senza un impegno del Parlamento in direzione della riforma del Codice penale delle norme in tema di imputabilità e pericolosità sociale  delle persone con diagnosi psichiatrica autrici di reato. Esse si basano sui seguenti assunti:

– i folli sono cittadini diversi dagli altri; il  paziente con diagnosi psichiatrica che abbia compiuto un reato è condannato per quello che è, non per il reato che ha compiuto;

– dai disturbi mentali si può guarire poco o nulla, la pericolosità dei folli è potenzialmente per sempre, quindi possono anche  non essere mai dimessi.

Un paziente con diagnosi psichiatrica che abbia compiuto un reato non viene processato, ma sanzionato con una misura di sicurezza in quanto persona socialmente pericolosa, internato in un ospedale psichiatrico giudiziario (opg). Il Codice in vigore consente che nostre concittadine e nostri concittadini che abbiano compiuto anche piccoli reati  restino internati in opg  per decenni, perché ritenuti pericolosi e quindi non dimissibili. Civiltà  giuridica vorrebbe che ciascuno fosse giudicato e condannato per le sue responsabilità, che pagasse il suo debito e, nel caso soffrisse di disturbi mentali fosse curato sì negli ambiti penitenziari, ma solo fino al termine della pena.

Le conclusioni del lavoro della Commissione Marino sono sfociate nella legge 9/2012 che indica in strutture residenziali psichiatriche, sia pure non-ospedaliere,  i luoghi esclusivi dei trattamenti. La scelta appare troppo rigida: le pazienti ed i pazienti autori di reato sono persone fra loro diverse,  con disturbi diversi, in fase diversa e non è detto che necessitino di trattamenti  simili di lunga durata in una struttura residenziale psichiatrica protetta. Anche quando i manicomi pubblici sono stati chiusi, non tutte le persone che uscivano dai manicomi pubblici furono trasferite in comunità protette e non tutte le comunità protette ebbero, ad esempio, la stessa copertura assistenziale, con presenza di operatori sanitari durante la notte. Per questo, proprio in ragione del fatto che il titolare della presa in carico e della programmazione dei trattamenti è il Dsm, sarebbe più opportuno riconoscere allo stesso la possibilità di scegliere luoghi e modalità diversi dalla collocazione in residenze protette.

Questioni aperte

Il silenzio della Magistratura, delle associazioni professionali e delle società scientifiche degli psichiatri italiani ha accompagnato il lavoro della Commissione Marino; anche quando il Senato ha discusso di opg, per la prima volta nel secondo dopoguerra nella storia del Parlamento italiano, approvando all’unanimità le conclusioni della Commissione d’inchiesta e il Parlamento discusso e votato il Decreto Legge “svuota carceri”. Nell’ultimo anno, fuori dal Parlamento è stato soprattutto e quasi esclusivamente il comitato Stopopg a discutere gli scenari,  i tempi, le risorse e a proporre la campagna per dare un volto e un nome a tutte le 1500 persone internate. Si può capire che l’argomento sia impervio, ma tutto questo ‘imbarazzo’ potrebbe nascondere la speranza che del provvedimento approvato non se ne faccia niente. E invece è  un’occasione straordinaria quella che abbiamo.

Vi  è chi ha definito la legge 9/2012 solo una tappa di una strada lunga e difficile;  altri la considerano un arretramento rispetto a quanto conquistato e sancito dalla legge 180.  I  rischi ci sono tutti specie se si aprono nuovi mini opg in presenza di servizi di salute mentale territoriali deboli. Gli opg, anche mini, non sono luoghi di cura perché le culture, le visioni strategiche e i processi terapeutici sono condizionati dalle cornici legislative, dagli assetti istituzionali, dalle scelte scientifiche, dagli interessi delle lobby professionali, dal paradigma della psichiatria (manicomiale).

L’ultima bozza  del Decreto sulle strutture del Ministero della salute con il concerto di quello della Giustizia non afferma più la possibilità di  affidare a privati la gestione delle strutture sanitarie che dovrebbero accogliere le persone internate negli opg, Regione per Regione.  È una notizia positiva importante; ma va segnalato che non è indicato un limite al numero dei posti letto per struttura e questo potrebbe consentire alle regioni che hanno un numero elevato di persone internate di attivare grandi strutture psichiatriche dai tratti necessariamente manicomiali, quando si consideri il mandato della custodia, in contrasto con la scelta della de-ospedalizzazione dei trattamenti compiuta dalla legge 9/2012[1].

Un altro elemento di preoccupazione è che l’assenza nella legislatura in corso di seri proponimenti di riforma del Codice penale nelle parti risalenti al Codice Rocco, ha favorito  l’irruzione nel dibattito parlamentare sulla modifica della legge 180/78 dei temi della pericolosità sociale e dei luoghi per contenerla (opg o loro succedanei) :

  • Nella discussione alla XII Commissione Affari Sociali della Camera del 17 scorso, al termine della quale è stato deliberato di adottare il testo Ciccioli come testo-base, fra i deputati intervenuti, Carla Castellani (Pdl) ha denunciato il fatto che  “i dipartimenti di psichiatria non costituiscono una risposta adeguata, anche in considerazione delle situazioni ad altissimo rischio che si vengono a creare” e Laura Molteni (Lnp) ha attaccato il governo per non aver “dato attuazione concreta” al decreto svuota-carceri[2].
  • Al Senato il sen Bosone (Pd), componente della Commissione Marino, ha presentato nel dicembre scorso il ddl 3067 di modifica alla 180 proponendo di costruire un sistema di presidi e strutture che, a caduta,  parte dall’ ospedale per arrivare ad un alloggio che non è una propria casa, ma diventa un “domicilio terapeutico”.  I tempi dei trattamenti (fino a tre mesi di Spdc) sono  dilatati, da cui consegue la richiesta di investimenti per acquisire ed attrezzare spazi più o meno ameni in cui trascorrere le degenze mentre i luoghi abituali, le relazioni famigliari, di vita e sociali delle persone con disturbo mentale o sono tenuti distanti dai servizi di salute mentale, o sono presi in considerazione solo dal punto di vista del trattamento specialistico. È così operato il capovolgimento della legislazione del 1978 che mette al primo posto la persona e la sua comunità di riferimento. UNASAM  ha commentato molto negativamente l’iniziativa del sen Bosone che ha replicato affermando che il disegno di legge nasce anche da quanto riscontrato dal sottoscritto nel variegato panorama italiano nel corso dell’inchiesta sulla psichiatria condotta dalla Commissione parlamentare sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale. La proposta Bosone è stata firmata anche dal sen. Fioroni, attuale responsabile delle politiche di welfare del Partito democratico.

I due esempi citati mostrano uno sbandamento nelle fila della politica, col risultato che si  scaricano finalità di “difesa sociale” tout court sui servizi di salute mentale, tenuti in posizione ancillare rispetto alle esigenze dell’amministrazione penitenziaria. E non va ignorato il peso delle culture  di quella parte della psichiatria accademica e forense che ignora le acquisizioni dell’assistenza psichiatrica “civile” che ha mostrato la nocività del regime manicomiale.

C’è quindi bisogno di grande passione civile e politica perché il nodo di dolore e  violenza riscoperto e riportato alla luce dall’indagine della Commissione Marino sia sciolto. Il passaggio è aspro per il peso degli interessi e delle culture che gravitano intorno all’istituto dell’opg, per il consenso che lo circonda e contiene:  per più di un secolo intorno all’opg  si è venuto costituendo un consistente intreccio di interazioni, prassi, carriere professionali fra Amministrazione penitenziaria, Magistratura inquirente e giudicante, psichiatria forense, avvocatura, servizi di assistenza psichiatrica pubblica. E mentre resta difficile l’integrazione dell’assistenza sanitaria ai detenuti e agli internati nella rete dei servizi territoriali, appaiono di portata modesta gli obiettivi del Piano sanitario nazionale 2012  in materia di sanità penitenziaria e salute mentale[3].

Mantova, 30 maggio 2012


[1] Gianfranco Rivellini (Sole 24 ore Sanità 15-21 maggio 2012) ha individuato nella bozza l’indicazione di una gerarchia fra le nuove strutture con gradi diversi di controllo, per gravità di reato, per rischio di recidiva: strutture a massima protezione collocate dentro gli istituti penitenziari; strutture a media protezione con attività perimetrale di sicurezza e strutture a minima sicurezza.

[2] Contro il testo Ciccioli hanno preso posizione gli psichiatri emiliani affermando che “oltre trent’anni di psichiatria territoriale hanno sviluppato un consenso rispetto al fatto che l’uso degli strumenti direttivi ed obbligatori di per sé non produce salute e può avere pesanti conseguenze in termini di allontanamento dai processi di cura, di passivizzazione e cronicizzazione. C’è semmai bisogno di proseguire nel percorso di informazione, coinvolgimento, negoziazione trasparente col paziente e con il suo contesto”.

[3] Gli obiettivi di Psn 2012 per la  sanità penitenziaria prevedono progetti per i problemi psicologici, clinici, sociali complessi e particolari dei detenuti, sviluppando le rilevazioni epidemiologiche e l’attenzione alla popolazione immigrata detenuta. Un capitolo è dedicato alla tutela delle detenute e della loro prole. Le aree di intervento per la salute mentale riguardano gli interventi precoci sugli esordi delle psicosi, la presa in carico dei disturbi mentali in età evolutiva (soprattutto adolescenti) e dei disturbi mentali nella persona anziana, la progettazione di interventi terapeutico-riabilitativi integrati.

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