Dovremmo mandare un grande ringraziamento a Franco Basaglia nella ricorrenza del centenario della sua nascita. Ci ha lasciati nel 1980, poco dopo la realizzazione di una legge, la 180, decisiva per il salvataggio della salute mentale. Poi ci sono stati decenni in cui lo slancio delle idee di Basaglia è stato rallentato e infine sopito, al punto che oggi sarebbe assolutamente necessario un rilancio prima che una cortina di silenzio e normalizzazione allontani da noi la pratica e il pensiero che si sono diffusi in tutto il pianeta a partire da Trieste.

Dobbiamo “restituire” quel Basaglia che ci è stato sottratto in maniera lenta, programmatica, quasi inesorabile. Dobbiamo, soprattutto, a mio parere, mettere al centro del nostro atteggiamento di rilancio critico la parola stessa “restituzione”, osservando come Basaglia l’ha adoperata. Nei confronti di chi? Innanzi tutto nei confronti dei cosiddetti “malati mentali”, con la chiusura dei manicomi e la trasformazione in cittadini di tutti coloro che avevano perduto in manicomio i loro diritti civili.

Di questo non finiremo mai di ringraziarlo, attraversando i mille inciampi che la legge 180 ha incontrato e ancora subisce: una “liberazione” non facile, che è stata ostacolata abbassando gli occhi e turandosi le orecchie in modi spesso indecenti.

Ma la parola “restituzione” va al di là di un simile snebbiamento sociale, culturale e politico, ci chiede di tornare a osservare che ne è della malattia mentale e quanto resti da fare per riattivare quel dialogo concreto che Basaglia ha promosso e di cui solitamente ricordiamo poco e male. Qui “restituire” significa entrare nella carne viva della questione della cosiddetta follia, vuol dire non limitarsi a parlare dei malati mentali, mentre noi ci sentiamo sani e comunque diversi da loro.

Dobbiamo dire grazie a Basaglia perché ci ha insegnato che qui è in gioco nel suo complesso la soggettività, non solo quella di alcuni, là fuori, bensì la soggettività di ognuno di noi, qui dentro, medici inclusi certamente, ma compresi proprio tutti al di là di qualunque differenza di ruolo, di censo, di genere. Quando Basaglia ci ha detto che occorre “restituire la soggettività”, non si è limitato a parlare da psichiatra agli psichiatri perché ha lanciato il suo messaggio da “soggetto” a tutti i soggetti che volevano ascoltarlo, un messaggio in cui era in questione il “chi siamo?” di ciascuno di noi.

Venti anni fa ho parlato, in un corso di lezioni all’università di Trieste, di questa “soggettivazione” promossa da Basaglia, invitando a esprimersi molti suoi collaboratori e naturalmente gli studenti che partecipavano a quelle lezioni di filosofia: ne è uscito un volume intitolato appunto Restituire la soggettività (pubblicato da alphabeta Verlag e previsto in una riedizione da parte dell’editore Meltemi, che sta oggi rilanciando la collana “180. Archivio critico della salute mentale”). Ma che cosa significa precisamente “restituire la soggettività”?

Possiamo capirlo se constatiamo che, ai malati di mente, il manicomio ha sottratto la propria soggettività rendendoli muti e inerti. Arriviamo a comprenderlo se pensiamo al fatto che i malati di mente subiscono oggi, comunque, un potenziale degrado: non dispongono pienamente della loro soggettività. Ma facciamo molta fatica a credere che ciascuno di noi parteciperebbe a un tale bisogno di restituzione, in misura minore o maggiore. 

Basaglia ci ha fatto capire che ragione e follia appartengono a ciascuno di noi, nessuno escluso, che la ragione non cancella la follia e, soprattutto, che è essenziale riconoscere che solo così possiamo entrare in risonanza con il disturbo mentale e lavorare per restituire la soggettività dell’altro che ci sta accanto e chiede di prendersi cura di lui.

Dobbiamo saperlo se pretendiamo di restituire la soggettività a qualcuno. Ma dobbiamo, innanzi tutto, capire che si tratta sempre di avere ben presente che questa soggettività va restituita anche a noi stessi, perché ciascuno di noi, da questo punto di vista, è un soggetto oscillante e incompiuto. Grazie Basaglia per avercelo fatto capire, o anche solo intuire, come un’esigenza culturale decisiva senza di cui il nostro vivere può difficilmente venire inteso come civile.