Ho visto Mental, la serie della RAI sui disturbi psichici degli adolescenti, e complessivamente posso dare un giudizio positivo al lavoro degli sceneggiatori e dei realizzatori il quale, per quanto con alcuni limiti che proverò a spiegare di seguito, ha per lo meno il merito di aprire un dibattito informato attorno a questioni delicate e spesso trattate con troppa leggerezza.
Nella presentazione della serie è stato esplicitato in più occasioni che essa ha il fine di sensibilizzare i giovani e gli adulti a proposito dei disturbi mentali, superare lo stigma e l’alone di silenzio che riguarda questi temi e indirizzare chi ha bisogno d’aiuto verso la possibilità di parlarne e farsi aiutare, come recita un disclaimer posto all’inizio di ogni puntata. La serie si è avvalsa della collaborazione scientifica di Paola De Rose, dirigente dell’Unità di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, il cui direttore, professor Stefano Vicari, in un’intervista del maggio 2020 dichiarava: «Oggi, almeno il 10% dei bambini e una percentuale tra il 16 e il 20% degli adolescenti ha un disturbo mentale. Del resto il suicidio costituisce la seconda causa di morte sotto i 20 anni. Ansia, depressione, episodi psicotici, ma anche disturbi del neurosviluppo come autismo, disturbo da deficit dell’attenzione, dislessia, ritardo mentale riguardano una fetta di almeno il 10% dei bambini. […] Stiamo iniziando a vedere, soprattutto negli adolescenti, un aumento di ansia e di depressione».
Siamo quindi di fronte a un fenomeno importante e in crescita, che gli autori scelgono di trattare dall’osservatorio di una Clinica che ha tutte le caratteristiche dei tanti servizi residenziali di neuropsichiatria per l’infanzia e per l’adolescenza convenzionati con il nostro Sistema Sanitario Nazionale. Le caratteristiche sono quelle tipiche di questi contesti: attività terapeutiche e creative (talvolta queste ultime gestite da ex utenti) individuali e di gruppo, somministrazione farmacologica, in alcuni casi trasferimenti coatti eseguiti dalle forze dell’ordine, controllo medico, residenzialità h 24 con visite contingentate e uscite solo dietro autorizzazione (in realtà i personaggi nella serie escono solo una volta e senza autorizzazione, per fuggire dalla clinica). La vita dei pazienti si svolge dentro un mondo “totalizzante” e separato dal mondo esterno attraverso alti cancelli chiusi.
Lungo lo sviluppo narrativo della serie appaiono i limiti strutturali e umani di queste istituzioni ma emerge anche la loro centralità esclusiva, la certezza che esse costituiscano il contesto necessario per affrontare la cura. Quando i pazienti riescono a fuggire, per esempio, vedono che il “mondo esterno” non mantiene nessuna delle aspettative maturate nelle loro idealizzazioni anzi rivela tragicamente le sue caratteristiche più espulsive nei loro confronti. Tuttavia è proprio l’impatto con la realtà esterna che permette la crescita e il superamento dell’empasse esistenziale dei protagonisti. Collocando lo scontro con la realtà esterna e la conseguente svolta narrativa nel momento della fuga, forse in qualche modo si ammette che questo processo catartico non possa mai davvero avvenire all’interno dell’istituzione ma solo in percorsi di uscita a contatto reale con il “territorio”. Si potrebbe vedere qui un primo limite e una lacuna della rappresentazione, ove non sono mai citati questi percorsi “esterni” (tranne un caso di affidamento etero familiare), nonostante le più recenti elaborazioni in tema di salute mentale pubblica (per esempio il Budget di Salute e i percorsi formativi e lavorativi individualizzati) pongano l’accento proprio sui trattamenti extra clinici e a contatto con la realtà sociale, grazie ai quali possono avvenire le forme di crescita e di riconoscimento che nella serie avvengono solo per via di una disfunzione nelle maglie delle regole dell’istituzione.
La descrizione dei percorsi di cura restituisce correttamente l’idea di un susseguirsi di prove ed errori, tentativi inefficaci e ipotesi interpretative inadeguate che evolvono nel tempo anche grazie ai percorsi individuali di crescita dei giovani personaggi. Inoltre emerge chiaramente il peso dei “giochi relazionali” tra ospiti e operatori, la cui difficile posta in gioco è la costruzione di un clima di fiducia reciproca, contro il quale si staglia però la consapevolezza di uno scarto sempre presente tra le regole di comportamento imposte e le condotte “informali” dei giovani pazienti. È espressa, anche esplicitamente, la consapevolezza dell’incapacità di comprensione totale dei bisogni dell’altro da parte degli operatori, difronte a cui i medici chiedono spesso “collaborazione”. Emerge abbastanza forte in alcuni passaggi il tema del “paziente che non decide niente”, a proposito dei suoi percorsi di vita e sulla lettura della propria condizione. Si tratta di una criticità correttamente sollevata, che molti di noi tra utenti e operatori conoscono, anche se la narrazione non sviluppa realmente questo problema ma sembra evocarlo solo per il suo portato emotivo.
Complessivamente lo sforzo degli autori propende per una visione non solo organicistica della malattia mentale: la gran parte delle costruzioni narrative sui personaggi tende a collocare nella biografia dei pazienti le cause della crisi esistenziale che ha condotto al ricovero. Infatti le vicende dei personaggi si snodano attorno a episodi traumatici o violenti, sistemi di oppressione o forme di misconoscimento subite; emergono in modo abbastanza chiaro i fenomeni di invalidazione sociale subiti da una vittima di stupro e le conseguenze traumatiche di un caso di cosiddetto revenge porn; in altri due casi le caratteristiche dei disturbi vengono riempite di significati esistenziali ricostruendo storie da cui emergono dinamiche legate al lutto e alla colpa, a fenomeni di abbandono e di trascuratezza genitoriale legati all’uso di sostanze. Ciò che emerge è l’idea di disturbi con molteplici fattori causali: dinamiche psicologiche e relazionali, vissute in famiglia o a scuola, intervengono nella vita dei pazienti talvolta sovrapponendosi a preesistenti caratteristiche esistenziali e particolarità neurologiche (almeno in un caso si mostra chiaramente che queste atipicità esistenziali restano tali anche nel momento in cui la crisi è superata, il trauma risolto e si è ricostruita una forma storicizzata di esperienza, attraverso la quale, la serie sembra dire, si può arrivare a uno stato di benessere in cui si può anche convivere con caratteristiche divergenti della propria psiche, della propria percezione e della propria esperienza).
Si tratta in definitiva di una narrazione che sembra correttamente rispondere a un modello interpretativo bio-psico-sociale dei disturbi mentali. Tuttavia forse il termine “sociale” della triade è quello che risulta trattato in modo più superficiale. Dalla narrazione non emergono mai le domande su: quali sono le condizioni sociali che favoriscono vulnerabilità o protezione rispetto agli eventi traumatici? In che modo l’organizzazione sociale della cura può realizzare trattamenti efficaci e non traumatizzanti? Le forme di oppressione sistemica a cui gli eventi traumatici del racconto rimandano possono richiamare anche questioni più ampie di tipo politico e sociale o sono del tutto riconsegnati a una visione centrata solo sull’empowerment e sulla crescita individuale della vittima? Le condotte e le esperienze “divergenti” possono trovare una loro legittimità sociale al di là dei vissuti di invalidazione e traumatizzazione? Su questi aspetti c’è un certo silenzio nella serie. Non mi sembra sia sufficiente ridurre a questa impressione il riferimento al vissuto della protagonista Nico, paziente di 16 anni, per cui «nessuno vuole essere normale. Preferiamo fare schifo per dimostrare al mondo che non siamo noiosi».
Cosa possono dirci le esperienze di questi pazienti su come intervenire, piuttosto, sulla normalità?
C’è, elemento principale della narrazione, un forte accento sulle relazioni tra i pazienti che sono il motore dei percorsi individuali, e questo appare piacevole ma anche un po’ ideologico (da questo punto di vista la serie mi ha ricordato La pazza gioia di Virzì): chiaramente una serie ha bisogno di protagonisti positivi con cui sentiamo il bisogno di identificarci. Ma quanto si perde di realtà pensando che la capacità di cooperazione e la disponibilità ad affrontare collettivamente i problemi siano qualcosa di già realizzato nella popolazione che attraversa questi momenti di negazione della vita e non piuttosto un oggetto, se non il principale oggetto, dello sforzo che dovremmo compiere?
La scena non-sense dell’ultima puntata, quando il ragazzo con sintomi ossessivo-compulsivi inizia a spiegare che non bisogna dire più “manicomio” (come invece molti personaggi chiamano la clinica) perché c’è la legge 180, perché le cose sono per fortuna molto cambiate (ma questa pedante spiegazione dà luogo a una reazione imprevedibile) è forse una corretta dichiarazione politica e poetica: dobbiamo trovare un linguaggio diverso per parlare di questi argomenti e non possiamo più cullarci solo sul monumento delle vittorie del passato; modificare la rappresentazione sociale della “pazzia” (altra parola ricorrente in tono spregiativo nelle conversazioni dei personaggi) richiede uno sforzo di comprensione e immaginazione che può portarci al di fuori del già detto e del già visto.