Il dominio dello stigma psichiatrico , una drammatica deriva regressiva
di Enrico Di Croce, psichiatra, Torino
L’orribile omicidio a mani nude del cittadino nigeriano avvenuto di recente a Civitanova Marche è tragico e inaccettabile per diverse ragioni, fra le quali non esiterei a comprendere una parte delle reazioni emotive suscitate presso l’opinione pubblica. Mi riferisco alla vera esplosione di invettive stigmatizzanti che hannoinvestito non tanto l’assassino quanto la categoria antropologicaassegnatagli d’ufficio dai grandi mezzi di comunicazione: “i bipolari”, i “borderline”, gli “affetti da disturbi psichici”, i “sottoposti a tso”, in parole povere i malati di mente, additati in blocco come irresponsabili e pericolosi.
Forse in nessun caso di cronaca recente si era giunti a esprimereposizioni così retrive e fuorvianti sul rapporto fra psichiatria e violenza, in modo tanto esplicito e in contesti tanto influenti (i principali quotidiani, telegiornali nazionali, siti e social seguiti da milioni di persone).
La narrativa sul delitto ha fatto emergere, con assoluta evidenza,un pensiero egemone nella società, che potrebbe non essere estraneo alla drammatica deriva regressiva che sta vivendo l’assistenza psichiatrica nel nostro Paese. Si potrebbe discutere se venga prima l’uovo o la gallina: cioè se sia il degrado dell’assistenza a sostenere il pregiudizio o viceversa. In ogni caso il messaggio che proviene da cronache e commenti si può sintetizzare più o meno in questa sequenza:
Se l’assassino ha ricevuto in passato una diagnosi psichiatrica (o ha anche solo avuto un contatto con un centro di salute mentale, non parliamo poi di un ricovero) non può che aver ucciso per questa SOLA ragione
Se è malato di mente è per definizione pericoloso. Perché non è stato fermato prima? Perché era libero di circolare?
Se è malato di mente è per definizione irresponsabile. Quindi la responsabilità è di chi doveva curarlo (leggasi sorvegliarlo e metterlo in condizioni di non nuocere)
Sappiamo che questo modo di ragionare ha radici remote e profondissime, ma non possiamo cavarcela dando la colpa al solo pregiudizio popolare. Forse non è superfluo chiedersi quali meccanismi lo alimentino nel presente.
Vorrei qui proporre una riflessione sul ruolo degli psichiatri nel diffondere questa cultura, attraverso la comunicazione pubblica e, soprattutto, attraverso atti professionali che stanno assumendo una centralità sempre maggiore: le perizie.
Cominciamo dalla comunicazione pubblica. In casi come quello di Civitanova si ripete più o meno lo stesso schema. Dovendo trovare una spiegazione all’ennesimo “delitto della follia” i giornalisti interpellano il luminare di turno, il quale (a distanza, senza sapere nulla di specifico sulla situazione) snocciola ipotesi diagnostiche: da quelle più banali, che più o meno tutti hanno sentito nominare, a quelle più astruse, che ricordano il gergo dell’Azzeccagarbugli (“disturbo esplosivo intermittente”, “disturbi dirompenti degli impulsi e della condotta”). Il tutto in ossequio al principio per cui, se diamo un nome a un fenomeno, possiamoilluderci di averlo compreso.
Siccome i luminari che vanno per la maggiore hanno in genere un’impostazione biologista, producono spiegazioni compatibili con il loro modello, più o meno equiparando i comportamenti violenti a crisi di cefalea o nevralgie del trigemino. La lezione che ne traggono i lettori profani (e non solo) è che i pazienti sono pericolosi e non responsabili dei loro atti perché hanno il cervello che non funziona: in sostanza sono inconsapevoli mine vaganti, che si possono arginare solo con i farmaci e sorveglianza continua. Come non concludere che lo stesso valga per OGNI paziente, anche se non ha (ancora) commesso alcuna violenza?
Un percorso argomentativo analogo, solo un po’ più articolato, è contenuto nella maggioranza delle perizie psichiatriche, che sanciscono la non imputabilità di un reo affetto da infermità mentale. I caposaldi dei giudizi peritali sono esattamente gli stessi: patologia, inconsapevolezza, pericolosità, irresponsabilità, obbligo di cura e sorveglianza. Fra i periti l’impostazione dominante non è sempre biologista, la cultura psicoanalitica è altrettanto rappresentata ma i risultati sono simili; anzi, a volte peggiori, almeno da quando è stata sancita la rilevanza forense dei cosiddetti “gravi disturbi di personalità”, terreno di caccia preferito dei periti psicodinamici.
Viene così alla luce il lato più drammatico della questione, che non è tanto l’attribuzione di patologia (non ci vuole un luminare per capire che se ammazzi di botte un estraneo per futili motivi non puoi che essere una persona violenta, impulsiva e fortemente problematica). No, il problema è assai più profondo: è quella specie di mutazione antropologica a cui va incontro l’individuo quando gli viene attribuita l’etichetta di malato mentale; è il suo migrare verso il territorio delle non persone.
Se un reato è commesso da un essere umano a cui si attribuisce un disturbo psichiatrico, la persona scompare e rimane solo il disturbo. Con la persona si dissolvono la storia, le circostanze relazionali e sociali, la responsabilità individuale. Non si ritiene che sia stato l’individuo a uccidere, ma il suo disturbo, che sarà necessariamente considerato l’unica causa dei suoi comportamenti. Non a caso, a fronte della presunta follia dell’omicida molti commentatori si sono affrettati a concludereche il razzismo non può avere nulla a che fare con il delitto.
Del resto persone, anche in senso giuridico, sono solo gli individui responsabili delle proprie azioni. Un essere inconsapevole, incapace di controllarsi e quindi di autodeterminarsi, non può che essere qualcosa di diverso.
Se il malato è irresponsabile, ovvio che la responsabilità ricadaSOLO su chi è incaricato della sua cura e custodia, concetti che ci eravamo illusi di aver abbandonato per sempre grazie alla legge 180. Nel caso di Civitanova Marche è emersa un’interpretazione inedita del ruolo di controllore, in genere attribuita al personalesanitario. Secondo i giornali la Procura competente avrebbe invece valutato la posizione della madre dell’assassino, sua amministratrice di sostegno, colpevole di trovarsi “a diverse centinaia di chilometri dal figlio”; cioè di averlo perso di vista, e quindi di aver mancato ai suoi doveri, evidentemente interpretati come funzioni di pura sorveglianza fisica, che non si capisce bene come avrebbe dovuto svolgere (forse pedinandolo o tenendolo al guinzaglio?)
Purtroppo la vicenda ha i contorni tragici e, al tempo stesso, grotteschi che Michel Foucault considera tipici delle situazioni in cui si dispiega il “potere psichiatrico”. Più prosaicamente, visto ilclima culturale, diventa arduo stupirsi se il lavoro territoriale e l’inclusione sociale dei pazienti stanno scomparendo dal repertorio dei Dipartimenti di salute mentale; se un paziente su tre, o talvolta su due, nelle strutture residenziali è obbligato a rimanerci dalla Magistratura, perché considerato socialmente pericoloso; se tutela e amministrazione di sostegno vengono usate per disporre obblighi di cura a tempo indeterminato; se Regioni come il Piemonte impongono alle comunità di chiamare i carabinieri per ogni “allontanamento non concordato” e fanno stipulare polizze per danni a cose e persone che sembrano equiparare i pazienti a cani mordaci.
Una buona parte degli psichiatri, per fortuna, non pensa la propria funzione in modo così degradato, non si è arresa alla egemonia forense, non esterna in pubblico posizioni che si prestano tanto facilmente a interpretazioni stigmatizzanti. Ma, a fronte della deriva in atto, mi chiedo se siano più dannose le parole incaute o gli ostinati silenzi, individuali e collettivi, che equivalgono a una sostanziale acquiescenza.