Da un’intervista lunga che Franco mi aveva dato da leggere che io ritrovo nella memoria del mio computer. Non so dove e quando sia stata pubblicata. Di sicuro Piero Del Giudice, suo amico carissimo giornalista e scrittore, lo ha intervistato all’inizio del periodo aversano, nel 2002. Il testo è di una drammatica attualità. Credo utile condividere con tutti gli amici del forum e con i tanti attenti e coinvolti questo testo. E invitare Franco alla nostra prossima assemblea.

Peppe Dell’Acqua

Il forum dovrebbe essere una scena, un centro di dibattito su quel che si fa. Lo slogan di apertura del Forum che finora ha funzionato, “combattere la dissociazione tra la teoria e la pratica dentro la psichiatria”, partendo dalla percezione che sui discorsi c’è unanimismo, quantomeno insensato, ma sulle pratiche c’è una regressione sempre più grande e ci sono persone che sproloquiano in bellissimi discorsi, tutti basagliani… naturalmente, mentre le pratiche sembrano essere sempre più regressive, sempre più inesistenti, sempre più legate ai vecchi modi di concepire il rapporto col matto. Il forum vuole mettere al centro del discorso le pratiche e con quelle cercare di obbligare la gente a parlare, a parlarsi, a discutere, non possiamo più perdere tempo con le chiacchiere. Non è un’operazione semplice, per quanto tu ti sforzi, la gente di tutto parla meno di quel che fa. Tuttavia questo è il tentativo e si cerca di rilanciare a livello nazionale questo tipo di ragionamento e in particolare regione per regione dal momento che le pratiche ormai sono localistiche; il federalismo sanitario porta a far sì che siano le regioni a organizzare tutte le modalità di gestione dei servizi e quindi da regione a regione ormai ci sono differenze enormi anche sul piano legislativo e delle modellistiche, dell’organizzazione di tutta la sanità Gli scontri reali sulle pratiche non puoi che farli sui luoghi concreti.

Molto banalmente, per esempio, la gente parla di integrazione, di diritti, di rispetto di diritti, di pratiche di emancipazione, di pratiche di liberazione, da un lato; dall’altro se tu gli dici che tipo di organizzazione dei servizi specifici hanno messo in piedi nei luoghi dove lavorano, non riesci mai a capire come sia fatta questa organizzazione, non riesci mai a trovare una modalità comprensibile di organizzazione dei servizi che ti lasci  pensare che l’abbandono delle persone da un lato e/o l’affidamento a strutture non credibili dall’altro non siano poi la dominante in quell’area. Uno tra i tanti esempi che si possono fare: se un’ASL di 500.000 abitanti non ha messo in piedi centri, dispositivi, servizi che funzionano anche al sabato e alla domenica e anche di notte, come faccio a non ritenere che la gente o va in blocco nelle cliniche private dove non si sa cosa succede o va non si sa dove. Se la gente che mi parla di queste cose non mi dimostra che ha organizzato dei servizi in un certo modo, io come faccio a crederci alle cose che mi dice? Certamente organizzare i servizi in una data maniera non garantisce, però se non ci sono è garantito il contrario. Banalmente anche arrivando ad Aversa (direttore generale Asl Caserta2, dal 2001 al 2004) ho trovato psichiatri iscritti a psichiatria democratica, bene. E i matti dove andavano? Cliniche private, un po’ in piccoli serbatoi da 20-30 persone chiamati strutture intermedie, in cliniche universitarie. Si spendevano, fino a 2 anni fa, 10 miliardi all’anno in cliniche private. Cosa succede? Che le cliniche private ai colleghi non interessavano affatto, non sapevano neanche che i loro pazienti andavano nelle cliniche private, oppure lo sapevano ma non faceva parte dell’agenda dei loro problemi. La gente parla, parla ma poi della presa in carico dei problemi di queste persone, dei malati di mente, nulla garantisce, nulla dice. Poi tutti si scandalizzano, dappertutto, che i cosiddetti servizi psichiatrici negli ospedali siano dei posti blindati, orrendi, chiusi e inevitabilmente postacci demenziali con accumulo di problemi, gestioni regressive. Tutti si stracciano le vesti! Ma se quello è l’unico posto dove le persone in crisi possono andare! Si tratta di quindici posti letto dentro un ospedale con la struttura fisica banale, ovvia, classica di un reparto ospedaliero. Se ci accumuli quindici persone completamente fuori di testa, perché se no non ce li mandi neppure, in questo spazio cosa vuoi che succeda? se non queste cose? 

Ma i tecnici fanno i tecnici? Organizzano sistemi ragionevoli e strutturano ragionevoli organizzazioni che aiutino? Che favoriscano, consentano trattamenti, comportamenti, attività potenzialmente virtualmente strutturalmente  sensate per loro conto? 

No, siamo ancora in larghissima misura in Italia (ancora peggio oggi, ndc) di fronte a servizi, modellistiche di servizi che sicuramente garantiscono il contrario di quello che c’è da fare. E però siamo tutti democratici (e basagliani)!

Poi, non lo so, ci sono gruppi di persone, di servizi che dicono che si occupano di vari problemi: immigrati, la città sociale, si occupano di tutto. Benissimo, il problema resta, i matti dove sono? Gli psichiatri, pagati per fare gli psichiatri, stanno in servizio in un’ ASL  che dà uno stipendio per occuparsi di matti, va benissimo che si occupino di tutto, a maggior ragione gli chiedo conto di dove sono i loro matti, cioè i matti che esistono in tutti i territori del mondo, in una percentuale ormai più o meno standard. E cosa ne sanno di costoro? Poi va benissimo che la gente si occupi di politiche di quartiere, di andare in giro a parlare di qualsiasi cosa, va benissimo, però lo stato probabilmente paga i tecnici per fare una determinata cosa e prima di tutto voglio sapere cosa fanno di questa determinata cosa. Trovo l’80% di vuoto, il 20% di pieno che non è quello che si auspicherebbe.

L’impressione generale è di una vacuità di una parte consistente di psichiatri che hanno incorporato il nuovo linguaggio e hanno mantenuto una vecchia pratica, hanno incorporato nuove ideologie e – non avendo gli italiani in generale il senso dello Stato, non avendo in generale il senso della costruzione di istituzioni intelligenti, non avendo interesse in genere a modificare in concreto gli snodi degli apparati – da un lato si chiacchiera come si vuole e dall’altro il modus operandi resta fondamentalmente uguale. Quindi nel 90% delle ASL in Italia si lega la gente, in Lombardia i matti vengono equamente distribuiti tra posti in cui si lega la gente, grandi istituti tipo Fatebenefratelli per i cosiddetti cronici e piccoli istituti per situazioni intermedie in cui si accumulano 15, 20, 30 persone, posti affidati a Comunione e Liberazione, alla cooperativa Le giovani marmotte, la cooperativa più alla portata, insomma. Punto, fine della storia. 

Che cosa è successo al “popolo dei matti” qui in Italia? 

La scomposizione, la rottura del manicomio, ha portato a una centrifugazione, a una frammentazione e quindi a tutto e al contrario di tutto. Da una situazione sostanzialmente omogenea, in senso deteriore, si è arrivati a uno sparpagliamento, a uno sventagliamento di qualsivoglia cosa. In questa qualsivoglia cosa, le pratiche apprezzabili di azioni e di progetti, dove si possono realizzare davvero le chiacchiere che si fanno, sono una minoranza non residua, ma una minoranza secca. Certamente i dati di fondo sono stati modificati in modo decisivo: gli ospedali non ci sono più e c’erano centomila persone fino agli anni ’60 e certo non è poca cosa. Le pratiche di internamento si sono sminuzzate e ridimensionate enormemente, riguardano quote molto ridotte di persone, se parliamo di internamento di lungo periodo, e avvengono in istituti più simili a case di riposo che non ai vecchi manicomi, ma c’è anche di peggio. L’internamento di lunga durata è dunque diventato infinitamente meno consistente e questo non è poca cosa. Le pratiche però, sia pure di breve media durata, i comportamenti nell’affrontare le situazioni non sembra che vivano  modalità diverse, sguardi diversi. Certamente c’è la dominante del farmaco che diventa il meccanismo centrale per affrontare la crisi, lo star male, teniamo conto che ormai esistono farmaci  long acting che agiscono nel lungo periodo con una sola somministrazione. Questo diventa uno zoccolo duro rispetto al quale regoli la maggior parte delle questioni. E poi tutto finisce qui. Al di là di poche chiacchiere, di pochi interventi più o meno giustificatori, più o meno di facciata: il laboratorietto dove fai quadri, l’altro laboratorietto dove fai i tessuti, o si continuano a fare i cestini o i pupazzetti, basta, fine. L’intervento poi quello è e amen. Alternato con periodi di ricovero per lo più in situazioni private, questi servizi ospedalieri blindati in cui all’apice della crisi vai lì, stai lì un tempo per fortuna breve, di solito, lì succedono le stesse cose di sempre: farmaci, letti, rischio immanente di contenzione, porte chiuse. Per fortuna per brevi periodi. La cosa è tutt’altro che irrilevante.