futuroA cura di Allegra Carboni

I seguenti testi – non rivisti dagli autori – sono stati pronunciati da Benedetto Saraceno e Franco Rotelli al termine del convegno internazionale Good Practice Services: Promoting Human Rights & Recovery in Mental Health, promosso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità con il Centro Collaboratore OMS di Trieste per la Ricerca e la Formazione in Salute Mentale e tenutosi a Trieste dal 23 al 26 settembre 2019.

Benedetto Saraceno

Parlare del futuro della psichiatria. In un momento – non so se storico o personale – in cui mi sembra tutto ostile, perché il futuro della psichiatria dovrebbe essere fuori da questo cono d’ombra? Non so se parlerò del futuro della psichiatria, forse no. Mi concentrerò sui nodi da sciogliere per portare avanti battaglie.

Il discorso globale della salute mentale, la cosiddetta global mental health, non ha determinato alcuna trasformazione locale, si è limitato a diventare un mantra, senza alcun potere trasformativo. Il gap fra quanti hanno bisogno di cure e quanti realmente ne ricevono continua ad esistere, non sembra affatto essersi contratto. Forse c’è solo una mutazione positiva: se negli anni ‘70 chiedevano perché deistituzionalizzare, ora chiedono come si fa. Ci si è resi conto che esiste anche la porta di ingresso nei manicomi, non solo quella di uscita. Ecco uno dei primi nodi da sciogliere, connesso al superamento del manicomio: il modello della balanced care, quello che prevede un po’ di tutto, un modello sposato da tutto l’establishment psichiatrico più vecchio. Il modello non dice mai dove sono i letti o se le risorse vanno divise equamente fra letti e non letti o se l’85% delle risorse viene speso per il mantenimento del manicomio; non ci dice mai nulla sui diritti di coloro che stanno nel letto del manicomio. Questo modello di per sé non dice nulla, ed il primo obiettivo per il futuro della psichiatria deve essere la lotta dura alla balanced care.

Il secondo nodo riguarda lo sviluppo dei servizi di salute mentale laddove essi non esistono, promosso in modo altamente acritico. Di che servizi si parla? Non basta dire che dove non ci sono servizi ci devono essere servizi. Cos’è che si vuole aumentare? L’elettroshock, i letti manicomiali, la disponibilità di farmaci molto costosi con la benedizione delle big pharma? Bisogna definire e precisare queste condizioni.

Terzo nodo: affrontare i determinanti sociali della salute, che sono diventati un must della salute mentale. Gli operatori della psichiatria dicono: cosa possiamo fare noi? Saremo noi a fermare le guerre, a contrastare la povertà, ad impedire i cambiamenti climatici? No, quindi torniamo al nostro business as usual. L’intervento di cui parlo deve essere un micro intervento sui micro determinanti sociali. Prima la casa e poi il trattamento, e non prima il trattamento e poi un giorno, forse, se sarai buono la casa.

È la salute mentale davvero global? Qual è l’impatto sui paesi a basso reddito? Le persone con malattie mentali gravi saranno costrette dalle istituzioni e saranno ancora una volta lasciate cadere? Temo di sì. Credo per esempio che sia importante sviluppare riflessioni sul fatto che a curare non sia solo il sistema sanitario formale, ma anche la comunità, la città, la vita.

Fortunatamente la nuova direttrice Dévora Kestel non subisce affatto il fascino della global mental health, perché sa perfettamente che global è molto affascinante, ma local è reale.

Franco Rotelli

Non ho la più pallida idea di quello che sarà il futuro della salute mentale. Ho però delle idee sul passato: abbiamo attraversato un passato giusto e dobbiamo cercare di proiettarlo nel futuro. Spero che le cose che ho fatto e visto fare accadano nei prossimi cinquant’anni: mi piacerebbe vedere che si chiudano festosamente, con i Marco Cavallo, con gli artisti e gli studenti, con la gente e con i matti, i manicomi. Che si piantino fiori, rose, che ci si incontri, ci si scambino amori.

Abbiamo cercato di creare delle condizioni affinché molte persone potessero lavorare, amare, comunicare. Abbiamo cercato di far in modo che si creasse, attorno a questi determinanti sfavorevoli, una welfare artigianale, costruendo comunità ed impedendo che queste si chiudessero su se stesse. Abbiamo immaginato che la sanità potesse essere trainata verso le case della gente. Abbiamo cercato di immaginare che un sistema sanitario fondato sulla malattia fosse debole, mentre quello incentrato sull’intervento delle persone fosse intelligente. Abbiamo cercato di immaginare che ci sia una città che cura, ma che la città non cura: noi con la città possiamo costruire una città che cura. Né il cittadino né lo stato ce la potrà mai fare da solo. Abbiamo immaginato una prossimità fisica, la costruzione di una comunità tra di noi, prima di tutto, e abbiamo cercato di tenerla in piedi affinché potesse continuare a parlare e ad ascoltare, e ad essere ascoltata.

Non so cosa sia la global mental health, ma so che c’è una comunità globale che si interroga. Abbiamo il compito ed il dovere di alimentare e coltivare questi legami. Legami importanti, cosmopoliti, che ci dicono che esiste un futuro. Il mio passato può essere il vostro futuro, e credo questo sia importante. Dobbiamo continuare a ragionare sulle cose fatte, non solo esserne orgogliosi, ma attraverso una consapevolezza del valore su ciò che è stato dobbiamo proiettare sul futuro queste tante cose.

Abbiamo coniugato l’etica, l’amore per il bello e per l’estetica, lo Stato, le istituzioni, i legami fra i singoli, l’organizzazione e la gestione: un matrimonio che si è diffuso e che è penetrato in tanti luoghi di questo pianeta.

Si rimanda infine alla lettura di due volumi: L’istituzione inventata di Franco Rotelli e Psicopolitica. Città Salute Migrazioni di Benedetto Saraceno.

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