Introduzione di Loredana Di Adamo

Tornare a ripensare la soggettività diviene essenziale in questa nostra contemporaneità, sempre più impersonale e delocalizzata, in cui molto spesso è difficile poter emergere nella propria singolarità senza ricorrere a forme di protagonismo e di sopraffazione, le quali – paradossalmente – seppur ricercate, non fanno altro che isolare ancora di più, allontanandoci da quella socialità essenziale per la realizzazione di sé che invece è funzionale ad abitare il senso delle cose in maniera condivisa. 

Il mondo, costituito perlopiù di non-luoghi, ovvero di spazi a cui manca la dimensione identitaria, relazionale e storica, non facilita i rapporti interpersonali, frequentemente destituiti del loro valore, per cui l’opportunità della propria affermazione, in una dimensione di reciprocità, sembra oggi essere votata allo scacco. L’unica strada da percorrere diviene quella dell’individualismo, che rende sicuramente più visibili gli individui, ma destituiti della possibilità di emergere nella propria singolarità e nella propria possibilità di essere-con gli altri. 

Attraverso la riflessione puntuale e articolata di Pier Aldo Rovatti il paradosso dell’esistente si dispiega dunque in tutta la sua controversa attualità, come sempre errante alla ricerca del senso e pur sempre lontano dal trovarne dimora, mostrando l’immensa fragilità di un sistema che oggi mette in scacco l’individuo, tra la voglia di uscire fuori dall’anonimato e la perdita di senso del becero protagonismo.

Rovatti traccia, con questa sua disamina, una strada ulteriore al pensare, unendo agli strumenti dell’antropologia lo sguardo del fenomenologo, riportando dunque il ragionamento su quel terreno scosceso e arduo dell’esperienza vissuta in ‘prima persona’, la quale – seppur impegnativa e più lunga – permette ancora di ritornare sulla via dell’umano, e di impegnarsi nella ricostruzione di una dimensione d’essere-con gli altri adeguata all’esistente.  

Con la fenomenologia, Rovatti, apre di fatto un varco percorribile in cui inoltrarsi, per ripensare la soggettività e i rapporti, non senza il rischio di cedimenti, di cui il maggiore rimane, comunque e sempre, quello di ricadere nell’individualismo. La scelta personale diviene quindi responsabilità, ma anche monito e speranza, per il recupero di quel senso dell’uomo, oggi sempre più svanente, che invece va ricercato con l’impegno e la pazienza necessari all’esistente, quale essere-nel-mondo a cui ne va del suo essere. 

Nel leggere l’articolo di Rovatti ho pensato quanto male stia apportando la deriva dell’individualismo al rapporto tra l’operatore della salute mentale e l’utente dei servizi, a quello tra operatori e familiari, e – non in ultimo – al rapporto tra operatori. La possibilità di ‘essere nella cura’ non può esistere in non-luoghi, in azioni virtuali destituite di senso, e soprattutto non può accadere in mancanza di quella dimensione di autenticità dell’incontro che è invece essenziale al sostegno e alla reciprocità. 

Quanto male sta facendo alla nostra cultura della cura la deriva individualistica verso cui si corre senza sosta, nell’ignoranza dei reali bisogni della persona, e nella più cieca capacità di riconoscere il dolore dell’esistente come il proprio dolore? Quel ‘tu’ che possiamo interpellare, e a cui possiamo prestare ascolto, e rispondere, credo rappresenti la sola possibilità d’esserci per l’altro, ma anche per noi stessi, in quella dimensione dell’incontro capace di restituire senso alle persone, alla loro unicità, garantendo il rispetto vicendevole, e non la prepotente sopraffazione che oggi invece imperversa nuovamente nella relazione di cura. In questa nostra contemporaneità dove il soggetto è sempre più destituito della sua autenticità, della sua capacità di essere sé e di essere-con l’altro, ripensare il fenomeno dell’individualismo diviene dirimente.

Individualismo, perché no? di Pier Aldo Rovatti
da Etica Minima, 10 agosto 2023

Marc Augé, il noto studioso francese recentemente scomparso, aveva caratterizzato con l’espressione “non-luoghi” quelle situazioni della vita quotidiana di oggi in cui le persone si incontrano senza mai davvero incontrarsi, come le stazioni, gli aeroporti o le metropolitane: lì non ci sono relazioni ma flussi di individui, dunque trionfa l’anonimato.

Il discorso sulle pratiche digitali, che ormai avvolgono l’intero pianeta, appartiene a sua volta a questi non-luoghi, per quanto sia più complesso dunque meno circoscrivibile, e non è un caso che adoperiamo qui il termine “siti”. Anche il sito non è un autentico luogo perché i nostri veri luoghi sarebbero quelli in cui abitiamo effettivamente insieme agli altri, socializziamo concretamente con altre esistenze individuali, senza isolarci, senza alimentare la solitudine.

È abbastanza evidente che la solitudine è il rischio che sta correndo il mondo contemporaneo, forse perfino identificabile con la oscura malattia che sta corrodendo la vita di ciascuno di noi senza una medicina in grado di curarla. Eppure stiamo paradossalmente remando verso la sponda opposta e percorriamo ogni giorno la strada dell’individualismo, nella persuasione sempre più diffusa che sia la via opportuna per stare bene proprio in questo mondo così delocalizzato e anonimo.

Se ci pensiamo un momento, ci apparirà per quello che è, cioè un clamoroso paradosso. Da una parte vorremmo sfuggire dall’anonimato consolidando il valore dell’individuo in un’esistenza possibilmente da protagonisti e dunque promuovendo il pronome “io” sopra tutti gli altri pronomi personali (il “tu”, il “noi”, ma anche il “lui” e il “loro”), facendone appunto una bandiera individualistica da imbracciare in qualunque momento.

Dall’altra parte ci stacchiamo dalla comune socialità proprio quando dovremmo tentare di riconoscerle il ruolo che sta perdendo, cercando di allentare il nostro desiderio di protagonismo. È palese che in tale gioco paradossale la scelta di impegnarsi a ritrovare la socialità e il senso dei luoghi che stiamo perdendo è quella più faticosa e meno premiante, o almeno non in tempi brevi.

Noi, invece, vorremmo risultati immediati, abbiamo fretta, non abbiamo voglia di attendere che dinamiche lente ci affannino di continuo. Perciò ci iscriviamo senza troppo esitare sul registro degli individualisti, anche quando ci accorgiamo dei rischi che possiamo correre: i vantaggi ci sembrano molto più promettenti e allora diciamo a noi stessi “perché no?”. E infatti, in varia misura, stiamo tutti diventando individualisti, come facilmente possiamo verificare.

Da praticante del pensiero filosofico, più precisamente nella veste di chi riconosce alla fenomenologia meriti evidenti per ciò che ci ha insegnato sulla questione del “soggetto”, vorrei aggiungere un’osservazione a proposito della cultura che promuove l’importanza di un pensiero “in prima persona”. La mossa da fare pare proprio un ritorno a quel “soggetto in prima persona” che siamo portati quasi sempre a tralasciare a vantaggio di idee che non fanno i conti con un simile ritorno o passo indietro.

Eccoci allora in una vistosa e pericolosa conseguenza, non così facile da evitare, ovvero che ciò significhi premiare l’“io” e con esso aprire la porta all’individualismo. È tutto il contrario, perché qui il processo passa attraverso una messa in questione radicale di sé stessi, o almeno la più radicale possibile, che ci permetta di sgombrare il terreno da ogni pretesa collegata alla potenza (all’onnipotenza?) dell’io.

Mi fermo per non tediare il lettore. Si tratta di distruggere l’io che ci siamo costruiti con innumerevoli rivestimenti ideologici, tentando di “sospenderne” l’automatismo, cioè si tratta dell’esatto contrario di una promozione dell’individualismo. La scoperta dell’individuo che ciascuno è nella propria differenza ci porta subito alla comprensione che tra soggetto e intersoggettività c’è un ponte che non abbiamo costruito noi e che ci conduce proprio verso quella socialità che l’individualismo trionfante vorrebbe cancellare.

Accade l’esatto contrario, e cioè che possiamo “tornare” a quel soggetto che siamo solo se riusciamo ad attraversare l’insieme dei soggetti entro cui viviamo e che ci caratterizzano.