di Madia Marangi
Non ricordo più neanche quando è cominciato questo isolamento, la mia difficoltà a misurare lo scorrere del tempo rimane anche ora.
L’unico modo per scandire il tempo sono le sveglie che segnano l’ora della terapia:
h 07.00: Eutirox+Esidrex
h 08.00: Carbolithium 450 mg/Aripiprazolo 15mg/Tegretol 400 mg/ Gabapentin 100 mg/ Venlaflaxina 75 mg/Escitalopram 5 mg
h 13.00: Rivotril 10 mg
h 20.00: Carbolithium 600 MG/Aripriprazolo 15 mg/Tegretol 400 mg/ Gabapentin 100mg
h 23.00: Trittico 75 mg/Rivotril 20gc
Ormai sono anni che ci convivo, coi farmaci, e sono consapevole che rappresentano uno strumento irrinunciabile che mi può aiutare a vivere una vita degna di essere chiamata tale.
Gli alti e bassi rimangono, ma “l’altezza delle montagne russe” si è ridotta notevolmente.
Quest’anno festeggio i miei ventisei anni d’ingresso al CSM, ventotto di malattia. Quante cose sono cambiate.
Avevo ventiquattro anni quando nel portone di casa di mia madre incontrai un uomo sui quaranta con la valigetta da medico, e un altro sui trentacinque, l’infermiere. Mia sorella mi aveva detto che il medico era un ortopedico, chiamato per una mia periartrite scapolo-omerale.
Io ero in fase ipomaniacale, intelligenza portata al massimo, non mi ci volle molto per capire che non era così.
Domandai: «Dottore, qual è la sua specializzazione?», e lui tra l’imbarazzato, il dispiaciuto e con un tratto di timidezza, mi rispose: «Sono un neurologo». Probabilmente mia sorella aveva mentito anche a lui, ma la sua gentilezza mi conquistò.
Capii che di lui potevo fidarmi, e mi fido ancora, sono ventisei anni che lo frequento, con una pausa di circa due anni in cui è rimasto il mio riferimento al Centro di salute mentale mentre io ero in cura da un privato.
Tutto quanto è successo in questo arco di tempo è ciò che mi ha portato a costruire quella consapevolezza di cui parlavo prima a proposito dei farmaci e non solo.
Fu difficile per me trovare all’interno del Centro di salute mentale (CSM) un’attività riabilitativa, nonostante il nostro fosse considerato all’epoca un Servizio all’avanguardia. Le proposte furono tante quanti erano i laboratori che venivano tenuti dai vari educatori, ma niente mi interessava.
Un pomeriggio un’infermiera, che conoscevo solo di vista, mi si avvicinò e mi invitò a partecipare a un incontro di auto-muto-aiuto, mi si aprì un mondo. Il bisogno che avevo era quello di parlare con altre persone che vivevano il mio stesso malessere, di confrontarmi con loro, di capire che non ero sola.
L’esperienza del gruppo “Il Gabbiano”, così lo chiamammo su suggerimento di Domenico, mi ha formato moltissimo. Il confrontarmi con gli altri mi ha insegnato a essere critica con me stessa, e a imparare dall’esperienza degli altri. Vorrei che il mio ringraziamento arrivasse a tutti, ora, ma per molti di loro non è più possibile.
A un certo punto parlare tra di noi non ci bastò più, cominciavamo a essere consapevoli dei nostri diritti e fu allora che decidemmo di presentarci alla città con un convegno nella biblioteca comunale. Democraticamente il gruppo decise che Luca avrebbe presentato il convegno e che io mi sarei occupata di preparare la relazione sul nostro percorso. Fu un successo, ci fu anche un servizio del TG3, e anche la presenza dei CSM del circondario.
Nel settembre del 1997 il fotografo Uliano Lucas si interessò della nostra realtà, ma non fu facile organizzare il servizio fotografico. Aldo e Donato, che facevano parte della cooperativa di pulizie, avevano avuto una brutta esperienza coi giornalisti, dai quali erano stati definiti “malati mentali”, e non si fidavano di Lucas. L’incontro si svolse con tutto il gruppo e alla fine Lucas mise al centro della stanza una sedia e mi chiese di sedermi, poi aggiunse altre due sedie e chiese ad altre due persone di sedersi e così via, fino a quando il gruppo fu completo. Il nostro era un gruppo aperto con utenti, operatori e volontari e in quegli scatti era impossibile distinguere i vari ruoli.
Pochi giorni dopo costituimmo l’associazione O.N.L.U.S. “Il Gabbiano”, scegliendo come attività secondaria l’attività editoriale, con l’obiettivo di autofinanziarci.
Con l’associazione abbiamo pubblicato tre libri senza riuscire a guadagnare una lira! Abbiamo partecipato a diversi convegni per portare la nostra testimonianza, tra cui il convegno “Tutti in gioco”, nel 1998, organizzato dalla Fondazione Basaglia all’università La Sapienza di Roma, e un incontro ad Amsterdam, dove è nata l’amicizia con Peppe Dell’Acqua.
Come presidente dell’associazione mi è capitato spesso di partecipare a convegni o di scrivere lettere in cui rivendicavo il nostro diritto alla cura, alla casa, al lavoro, a una vita degna di essere chiamata tale e tutto questo mi ha restituito nel corso degli anni tanta forza e consapevolezza delle mie capacità, cose che nessuno potrà mai togliermi.
Gli incontri del gruppo nel frattempo continuavano e tutti noi avevamo chi bisogno di una casa, chi di un lavoro. Il mio primo approccio al lavoro fu con una piccola azienda che si occupava di trascrizioni di libri per non vedenti, si lavorava molto e si guadagnava poco, anche se il lavoro era molto interessante e mi permetteva di leggere tantissimi libri.
Nel 1999, nel pieno di una fase ipomaniacale, comprai una macchina da 20 milioni di lire e quella fu la spinta per cercarmi un secondo lavoro. Grazie a Domenico venni a sapere che avevano aperto a Martina il primo call-center e mi presentai per un colloquio, lo superai. Non ero un granché come venditrice ma la titolare mi propose di fare da segretaria, otto ore al giorno, regolarmente pagata. A quel punto dovetti lasciare il mio primo lavoro.
Diventò sempre più difficile seguire l’impegno dell’associazione, di cui rimanevo presidente. Il mio sogno era che qualcun altro, con me, prendesse a cuore l’impegno associazionistico e volontariamente se ne occupasse, ma la fame di lavoro era molto più forte della fame di difesa dei diritti e nessuno sembrava volersi sacrificare o, meglio, esporsi.
Era il giugno del 2004, dieci anni esatti dal mio ingresso al Servizio. Rosa, la psicologa con la quale avevo un bel rapporto, era morta da poco e io ero stata affidata alla sua sostituta, che cominciò a parlarmi di scuole, setting terapeutico…
Rosa non lo aveva mai fatto, quello con lei era un rapporto umano. Io ero in una delle mie peggiori fasi depressive, e per la prima e unica volta tentai il suicidio. In quel momento io e i miei genitori capimmo che c’era bisogno di un cambio di passo. Chiesi e ottenni da Vito, lo psichiatra del Centro che mi conosceva da tanto, una relazione sui miei dieci anni di cura, e mi affidai a uno psichiatra privato di Taranto. Ma il rapporto con il Servizio, grazie anche alla collaborazione che Vito aveva dimostrato, non si interruppe nemmeno allora.
Fu la mia salvezza: cambio di terapia, con ritorno al Carbolithium, che avevamo sospeso. Forse l’arricchimento del percorso terapeutico e nuove conoscenze mi aiutarono nella ripresa. Qualche mese dopo mi sono fidanzata per la prima volta. Avevo trentacinque anni.
Il rapporto con le mie sorelle rimaneva il mio tallone d’Achille: una pensava che fingessi, l’altra che le avessi rovinato i momenti più belli della sua vita, dal matrimonio alla nascita dei figli, solo perché le mie crisi avevano coinciso con questi avvenimenti.
Le cose non erano migliorate nemmeno quando nel 2006 ero riuscita, grazie alla Legge 68, a trovare lavoro in una grande industria tessile, con un contratto a tempo indeterminato. Speravo che finalmente sarebbero state orgogliose di me.
Invece è andata avanti così fino a quando nel 2014 mia sorella minore è morta. Solo con il venir meno della loro alleanza contro di me, il rapporto con mia sorella maggiore è potuto migliorare.
Nel maggio del 2007 mi sono sposata, tutto bene fino al 2011, quando in una fase ipomaniacale ho pensato che la causa del mio star male fosse mio marito, e l’ho lasciato. Siamo rimasti lontani un anno e mezzo, e cioè fino a quando sono “rientrata” e ho capito che la causa del mio malessere era l’euforia, conseguenza del disturbo di cui soffro.
Il matrimonio diede il colpo di grazia alla mia partecipazione all’associazione. Mi sentivo troppo responsabilizzata per poter portare avanti anche l’impegno associativo. Prima di lasciare scrissi una lettera di denuncia al direttore di Rai 2. Un medico della mia città aveva sterminato la sua famiglia e si era ucciso. La notizia gridata da tutti i media era stata detta con la solita pesantezza al telegiornale. Noi del gruppo avevamo vissuto ancora una volta il dolore di essere omologati e appiattiti in quelle terribili notizie. Questo mi permise di partecipare all’incontro a Trieste di “Impazzire si può”, dove lessi la lettera e partecipai alla scrittura della “Carta di Trieste per un giornalismo della salute mentale”. Piccola grande soddisfazione, chiusura ideale di un’esperienza che aveva contribuito a rafforzare la mia consapevolezza.
Scrissi anche una lettera/denuncia al Governatore della Puglia, che allora era Niki Vendola, sulla situazione lavorativa delle cooperative sociali. La denuncia del nostro gruppo insieme alle cooperative sociali contribuì ad avviare una difficile vertenza che credo non potrà mai dirsi conclusa. Il lavoro per me continuava e continua a essere un diritto imprescindibile.
Una volta tornata, diedi le dimissioni. Ora il mio matrimonio aveva la precedenza.
Ma non siamo noi in realtà a decidere a cosa dare la precedenza, nel 2012 ci fu l’incontro con un’altra malattia invisibile, mi fu diagnosticata la fibromialgia e con essa ebbe fine il mio lavoro nell’industria tessile. L’azienda era in crisi, centocinquanta licenziamenti, tra cui io, non solo l’ultima arrivata, ma anche poco utile, viste le miei condizioni di salute. Dopo un anno passato a far niente, mi decisi a riprendere un lavoro che avevo fatto circa trent’anni prima per pagarmi gli studi: dare ripetizioni a bambini di scuola elementare e media.
Sono passati anni, e ora riesco a gestire i miei cambiamenti di umore, ho ben compreso l’alternarsi di fasi depressive e fasi ipomaniacali grazie all’aiuto di Vito e degli altri operatori del centro. Ora so quando è necessario chiedere aiuto, come proteggermi e inserire nella terapia i farmaci che mi permettono di “rientrare”. Sono tornata da tempo in cura al Csm, con Vito c’è una comprensione incredibile. Anche se il Csm non è più lo stesso: ormai le due associazioni, quella dei familiari e quella degli utenti, non ci sono più. Entrambe avevano contribuito a dare una spinta notevole alla tutela dei diritti, mentre ora il Csm sembra essere diventato solo un dispensario di farmaci.
Certo questo sconvolgimento del Coronavirus non ci voleva.
I miei colloqui quindicinali con Virginia, la psicologa che mi aiuta tanto, sono saltati. Per fortuna lei mi ha dato la disponibilità a sentirci telefonicamente, così come Vito. Sì, perché, come in tutta Italia, ora i Csm gestiscono solo casi urgenti e io, per fortuna, non sono un caso urgente da tempo. Ormai riesco a tenere un mio buon equilibrio da diversi anni.
È successa però una cosa che ritengo bella. Quando è scoppiata l’emergenza Coronavirus e mi hanno detto che non sarei potuta andare al Servizio, io non ho pensato a me, ma agli operatori che erano ancora senza dispositivi di protezione. Non sono più ripiegata su me stessa, sono capace di mettermi nei panni degli altri. Certo, il diritto di noi utenti a essere assistiti è sacrosanto, ma non è da meno il diritto di chi ci cura a essere protetto, e questa consapevolezza la devo a tutto il mio percorso di vita, compreso quello associazionistico. Che purtroppo non c’è più.
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