Trent’anni di lavoro nel campo della salute mentale, in uno scenario legislativo e istituzionale che ha restituito diritto e possibilità, ha sostenuto e continua ad alimentare le aspettative di cittadini, di familiari, di operatori, ma soprattutto delle stesse persone con disturbo mentale, ormai sempre più consapevolmente presenti sulla scena.

L’assetto legislativo del nostro Paese, è stato ampiamente ripreso dal Parlamento Europeo per tradurlo nel Libro Verde “Migliorare la Salute Mentale in Europa”, e le diffuse positive esperienze organizzative, le buone pratiche già attuate nel territorio nazionale rappresentano quanto di più prezioso si è prodotto in questi 30 anni.

L’impensabile successo, nazionale e internazionale, della fiction su Franco Basaglia rappresenta, di fatto, una dimostrazione straordinaria di quanto la necessità di cambiamento sia penetrato nel sentire comune e nella personale consapevolezza degli individui.

La salute mentale deve essere sempre più posta come questione nazionale e il superare la frammentazione che si è prodotta tra i singoli assetti regionali è il vero banco di prova. Infatti le diverse forme di autonomia hanno prodotto venti sistemi sanitari, con le relative differenze organizzative. Ciò rende sempre più diseguale e precario l’esigibilità del diritto alla cura. Sono drammaticamente difformi le risorse impegnate e i percorsi terapeutici, le opportunità (abilitative, formative, di inserimento lavorativo) e gli stessi servizi del territorio. Di conseguenza il ricorso, per esempio, al trattamento sanitario obbligatorio (TSO) e al ricovero è spesso dannoso, tardivo, burocratico, inutilmente violento e lesivo dei più elementari diritti. Solo per fare un esempio quantitativo: la media nazionale dei TSO si attesta sui 18 ogni 100.000 abitanti, ma in alcune aree il tasso quasi raddoppia (Sicilia, Emilia Romagna) e in altre si riduce ad 1/3 (Friuli Venezia Giulia).

Il recente documento approvato dai Presidenti nell’ambito della Conferenza Stato Regioni sulle linee guida sull’attuazione dei Trattamenti e Accertamenti sanitari obbligatori, con la finalità di renderne più omogenee le forme di attuazione rappresenta uno strumento strategicamente molto utile e traccia un possibile percorso politico/istituzionale da seguire in tutti gli altri ordini di problemi della salute mentale.

E’ indispensabile che il governo, piuttosto che riformulare la Legge 180, adotti un punto di vista unitario che diventi metro di giudizio generale e condiviso. La salute mentale è una questione nazionale ed è diventata europea, anche a seguito delle grandi innovazioni avvenute nel nostro Paese. Cittadinanza, persona, individuo sono le parole che ricorrono nel documento di Helsinki (OMS, gennaio 2006), che sono riprese nel già citato Libro. Questo atto d’indirizzo segna la svolta che oggi viene chiesta, dopo quanto accaduto in Italia, a tutti i Governi europei per far uscire da una condizione non più accettabile le persone con disturbo mentale e le loro famiglie.

Uno dei risultati più evidenti della riforma italiana nel confronto con altri paesi europei ricchi è la forte riduzione della percezione dello stigma ma soprattutto il contrasto alle carriere istituzionali prodotte da infiniti passaggi tra diverse istituzioni con lunghi e costosi ricoveri, quanto oramai evidentemente dannosi per la vita reale delle persone.

Parlare di cittadini, di persone e di individui vuole dire che la cura e il lavoro terapeutico si possono materializzare solo garantendo cittadinanza e diritto, rispettando ogni esperienza umana, valorizzando la singolarità e la differenza che ognuno porta con la propria storia. Non è solo limitando le garanzie dei cittadini prolungando i ricoveri, ridando potere incondizionato ai medici, alimentando la medicalizzazione e il ricorso a paradigmi “clinici”oramai desueti che aumenta le possibilità di ripresa delle persone con disturbo mentale, il sostegno ai familiari, la sicurezza sociale.

Bisogna accettare la sfida del diritto alla cura e alla salute per tutti, ripensando le strategie e le forme dell’organizzazione dei sistemi sociali e sanitari, spostando i percorsi di cura e di assistenza nei contesti di vita dei vecchi, delle persone con malattie croniche e invalidanti, degli uomini e donne che per varie ragioni sono indeboliti nel corpo, nel diritto e nell’identità.

E’ di una profonda innovazione nel campo sociale di cui ha bisogno il nostro Paese e, ripeto, non di un rimaneggiamento della Legge 180.

Oggi è quanto mai chiaro che la vita e il destino delle persone con disturbo mentale e delle loro famiglie non sono più ineluttabilmente segnati. Operatori e operatrici, volontari, familiari, amministratori, cittadini, persone con disturbo mentale, sempre più presenti con le loro associazioni, hanno potuto sperimentare culture e pratiche innovative e contribuiscono nella quotidianità al cambiamento.

Una rete di servizi è ormai presente in ogni provincia e azienda sanitaria italiana, tuttavia le risorse messe in campo risentono di molte approssimazioni amministrative e, in alcune aree, sono assolutamente insufficienti.

La qualità dell’assistenza resta in generale scadente: i Centri di Salute Mentale, tranne poche eccezioni dove sono aperti 24ore (Friuli Venezia Giulia, Toscana e Campania), sono aperti solo da 7 a 12 ore al giorno per non più di 6 giorni la settimana, immiserendo e vanificando i percorsi di cura possibili.

I servizi ospedalieri di diagnosi e cura psichiatrica sono spesso angusti, collocati in luoghi indecenti, con le porte sbarrate, dove legare le persone diventa consuetudine. La ricerca dell’ISS (Progres Acuti) rivela che 7 servizi su 10 usano queste pratiche. Negli ultimi 4 anni ben 4 persone sono morte di “psichiatria”, legate al letto di contenzione. Anche qui il Gruppo Tecnico della Conferenza Stato Regioni ha elaborato un documento che, per quanto ancora distante dall’affermare l’inutilità della contenzione stessa, propone riflessioni sui principi e suggerisce operazioni che potrebbero, se attuate, ridurre fino ad azzerarlo il ricorso alla contenzione. Anche qui una modalità di lavoro: un gruppo tecnico interregionale che può essere assunto come esemplare

Le strutture residenziali finiscono spesso per essere luoghi pietrificati, dove i percorsi abilitativi e di socializzazione si snaturano in proposte di attività senza tempo e senza senso.

In molte regioni le indicazioni dei Progetti Obiettivi Nazionali e delle “buone pratiche” vengono ignorati. Fino a scelte di dirottare il grosso delle risorse per finanziare la gestione di strutture neomanicomiali (come è accaduto nel Lazio) o alla confusione organizzativa e all’abbandono dei pazienti a più basso potere contrattuale nei circuiti assistenziali privati (come in Lombardia) o alla frammentazione dei Dipartimenti di Salute Mentale (come accade un po’ dovunque) o alla proliferazione di strutture private che recludono, nuovi veri e propri manicomi (come in Calabria o in Sicilia).

In generale le aziende sanitarie investono poco nella salute mentale (raramente arrivano a sfiorare il 5%), spesso i DSM languono abbandonati a se stessi o in condizioni di pesante marginalità rispetto ad altre attività sanitarie o sociali ritenute più importanti.

Si capisce così che l’abbandono denunciato dalle famiglie, l’inguaribilità e la cronicità che sembrano riemergere dal passato, nascondono l’inerzia e l’incapacità della psichiatria accademica e dei governi locali di vedere i propri limiti e di produrre organizzazioni efficaci. Queste situazioni, questi rischi e queste riflessioni che, in misure e coloriture diverse, si ripropongono in quasi tutte le Regioni italiane, possono essere il motivo conduttore dell’azione del governo nazionale.

E’ possibile sperimentare strumenti ed incentivi affinchè i governi regionali si sentano obbligati ad assumere responsabilità e iniziativa.

Riformulare con attenzione i piani socio-sanitari.

Restituire risorse e promuovere articolati sistemi di integrazione.

Impegnarsi contro ogni forma di psichiatria restrittiva.

Avviare la realizzazione in tutto il territorio nazionale di Centri di Salute Mentale aperti 24 ore su 24 e sette giorni su sette.

Rendere accoglienti i luoghi della cura e del vivere delle persone con disturbo mentale.

Favorire lo sviluppo e la crescita delle cooperative sociali.

Restituire forza e capacità al servizio pubblico per coordinare e integrare l’offerta dei privati, impedendo che la debolezza delle politiche di welfare alimenti la crescita di un privato privo di regole e autoreferenziale.

Occuparsi della salute mentale in carcere, realizzando la presenza del servizio sanitario regionale negli istituti penitenziari e segnando la fine di ogni forma di medicina penitenziaria separata.

Promuovere e sostenere programmi personalizzati per chi rischia la deriva dell’ospedale psichiatrico giudiziario.

Il Ministero della Salute del governo precedente ha prodotto un importante documento (DPCM 21.03.08: Linee d’indirizzo per la salute mentale) che può rappresentare, se preso seriamente in considerazione, un punto di partenza per ricercare e condividere livelli essenziali d’assistenza, standard organizzativi, percorsi di cura che quanto mai oggi potrebbero permettere di raccogliere quanto è stato generosamente seminato nel corso degli ultimi 30 anni, a partire dal cambiamento prodotto dalla chiusura degli ospedali psichiatrici, dalla restituzione dei diritti, dalle possibilità di cui ora dispongono le persone con disturbo mentale e i loro familiari.

Credo che la ragione per cui partecipo a questa audizione sia l’essere il Direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste.

Il Dipartimento che dirigo rappresenta con coerenza e con assoluta continuità il lavoro di chiusura dell’ospedale psichiatrico avviatosi già alla fine degli anni ’60. Ma non è per la chiusura del manicomio che sono qui invitato ma, credo, per la coerente e diffusa rete di servizi che sono operanti nella comunità da oramai più di 30 anni.

Il sistema dei servizi triestini che, più avanti, schematicamente, rappresento, costituisce in Italia una delle più efficaci realizzazioni delle indicazioni della Legge di Riforma e, nel mondo, una delle poche esperienze capaci di rispondere ai bisogni di cura con efficacia, di fornire articolati e complessi percorsi terapeutici riabilitativi, di rispondere con puntualità alle emergenze e ai bisogni di rassicurazione della popolazione.

Le evidenze di questo lavoro sono davanti agli occhi di tutti. Tanto che l’OMS considera Trieste un importante Centro Collaboratore soprattutto per lo sviluppo delle reti di salute mentale territoriali. Ogni anno centinaia di operatori italiani e di ogni paese del mondo vengono in visita, compiono stages, stabiliscono rapporti di collaborazione.

Siamo in attesa della imminente visita del Direttore Generale Salute Mentale dell’OMS Ginevra, dr Shekhar Saxena.

Credo che la Commissione e il Suo Presidente possano prendano atto di un tanto e trovino la possibilità di raccogliere l’invito per una visita a Trieste che io, anche a nome del Direttore Generale dell’azienda sanitaria ASS1 – Triestina, caldamente porgo.

Trieste vive senza manicomi da più di 30 anni, nessun cittadino triestino è internato in OPG, il tasso di TSO per anno è tra i più bassi che si registrano nel nostro Paese, nel corso degli ultimi 12 anni la rete dei servizi di prossimità e un progetto finalizzato di prevenzione ha visto ridurre il tasso dei suicidi di oltre il 40%.

Per sintesi, di seguito, nel rinnovare l’invito alla Commissione, rappresento i servizi di salute mentale di Trieste:

IL DIPARTIMENTO DI SALUTE MENTALE DI TRIESTE/2009

Il Dipartimento di salute mentale di Trieste serve una popolazione di 236mila abitanti.

Il suo punto di forza è rappresentato da 4 Centri di Salute Mentale, distribuiti su 4 aree territoriali di circa 60.000 abitanti. Le stesse aree su cui insistono i Distretti, le Unità Operative del Dipartimento delle Dipendenze e dei Servizi Sociali del Comune. I Centri di Salute Mentale sono dotati ciascuno di 6-8 posti letto e sono attivi 24 ore su 24, 7 giorni su 7.

La Clinica Psichiatrica è parte integrante del Dipartimento di salute mentale e con questo sviluppa la sua attività di ricerca, formazione e di assistenza.

Il Servizio Abilitazione e Residenze coordina le strutture e le attività abilitative, riabilitative e di integrazione sociale ed articola i suoi programmi in luoghi differenziati, poco meno di 10 strutture residenziali con 60 posti letto a differenti gradi di intensità assistenziale (pari a 2,5 per 10.000 ab.) ed un Centro Diurno Diffuso con diversi laboratori in sedi e con intenzioni diverse. Il Servizio coordina inoltre i rapporti con 13 cooperative sociali convenzionate ed accreditate, circa 200 borse di lavoro/anno che, nel corso degli ultimi 15 anni, hanno portato all’assunzione di 25 persone/anno.

Il Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura con 6 posti letto fornisce la prima risposta all’emergenza di pronto soccorso psichiatrico e svolge la funzione di filtro e di avvio al Centro di Salute Mentale.

Sono attualmente 236 gli operatori del Dipartimento di Salute Mentale: 26 psichiatri, 9 psicologi, 135 infermieri, 9 assistenti sociali, 10 tecnici della riabilitazione, 27 operatori socio-sanitari nonché 14 unità di personale amministrativo e ausiliario.

Il numero delle persone in Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) si è stabilizzato negli ultimi 5 anni sulla media di 7 per 100mila abitanti: fra i più bassi tassi che si registrano in Italia. Tutte le porte sono aperte e le pratiche di contenzione e di terapia elettroconvulsivante sono state abbandonate dal 1971.

La rete dei servizi del Dipartimento di Salute Mentale a chiusura del bilancio 2009 è costata complessivamente 18,5 milioni di euro, circa 34 miliardi di lire, 65 euro pro capite. Nel 1971 l’Ospedale Psichiatrico, a chiusura di bilancio, più di 500 unità di personale, costò all’Amministrazione Provinciale più di 5 miliardi di allora, 50 miliardi di vecchie lire attuali, pari a 27 milioni di euro

Peppe Dell’Acqua

Direttore Dipartimento di Salute Mentale – Ass 1 – Triestina

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