La Collana 180 delle edizioni Alpha Beta Verlag è ormai preziosa. Peppe Dell’Acqua negli ultimi anni vi ha pubblicato saggi fondamentali per comprendere cos’è stata e cos’è la salute mentale in questo paese, paese così singolare da essere stato il primo (e tutto sommato l’unico) ad aver abolito i manicomi. Ha pubblicato il libro di Pier Aldo Rovatti (Restituire la soggettività) sul pensiero e la prassi di Basaglia, il libro di Peppe stesso (Non ho l’arma che uccide il leone) dove narra, in prima persona, il processo di demolizione del manicomio di Trieste e la creazione dei servizi territoriali, il libro di Giovanna Del Giudice (E tu slegalo subito) dove si affronta il tema del legare le persone nei luoghi di cura, il libro di Daniele Piccione (Il pensiero lungo) dove si inserisce il pensiero basagliano nel solco della Costituzione, di Franca Ongaro (Salute/Malattia), il libro di Franco Rotelli (L’istituzione inventata), già recensito per “A”, di Daniele Pulino (Prima della 180), tutti saggi davvero preziosi. Volumi di narrativa pochi, tra cui il recente bel libro di Alberto Fragomeni (Dettagli inutili), che è una sorta di diario del proprio vissuto di disturbo psichico.
Il libro di Carlo Miccio, dunque, La trappola del fuorigioco, è, tutto sommato, il primo vero romanzo edito da questa collana. Un romanzo non solo romanzo. Perché a un certo punto, nel romanzo, dove la vita di Marcello e suo padre sono scanditi dal calcio e dai mondiali di calcio, fanno capolino i temi cruciali della salute mentale. Il titolo già di suo evoca la trappola che può essere l’irrompere, nell’esistenza di ognuno, del disturbo psichico. Così. Ex abrupto. Oggi sei uno normale, il giorno dopo sragioni. Può succedere. La trappola può essere pure l’essere preso nelle maglie della psichiatria, quella repressiva, quella che non cura ma controlla, e finire in uno dei vari, diversi manicomi di cui la psichiatria s’è dotata, manicomi fisici fatti di luoghi, manicomi chimici fatti di diagnosi e farmaci.
Il fuorigioco invece può significare uscire (per dirla con Eraclito) dal mondo comune di chi è sveglio (il koinos kosmos) per ripiegarsi nel mondo proprio di chi dorme, e sogna, e delira (l’idios kosmos). Il fuorigioco è questa dimensione di estrema introflessione che sempre caratterizza il disturbo psichico grave. Fuorigioco è, anche, uscire dalla società dei normali e entrare nella società dei devianti, e nei luoghi a parte dedicati ai devianti.
“Le leggi di quei comunisti del cazzo” – dice la zia
Dopo torno sugli altri leitmotiv del libro: il calcio, per esempio, o il comunismo. Togliamoci subito il pensiero, fatemi fare lo psichiatra che parla del tema psichiatrico del libro, e cominciamo con quello che, secondo me, è un tema delicato cui in più punti allude questo libro, riguardo la sua parte psichiatrica: il TSO.
Se uno è matto, dice Marcello (il cui padre, a cavallo degli anni ’80, inizia una carriera di disturbo bipolare) ci deve essere una maniera per costringerlo a curarsi. No, dice sua zia, Lidia, con la nuova legge non si può. È quella maledetta legge nuova (la legge 180, appunto), sbuffa zia Lidia, con cui hanno chiuso i manicomi ma i matti sono tutti in giro. Sono le leggi di quei comunisti del cazzo.
Ecco, questa è stata la vulgata, in Italia, e nel Lazio in particolar modo (le vicende della storia accadono a Latina), dato che il Lazio è una delle regioni messe peggio in tema di assistenza psichiatrica (dodici case di cura private, un migliaio di posti letto – disse Basaglia, sarà più facile chiudere i manicomi che le case di cura degli imprenditori della follia – e sono le case di cura del Lazio che dissanguano e ricevono metà del budget destinato ai dipartimenti di salute mentale, per cui se nel Lazio molti CSM sono gusci vuoti, e la presa in cura non la riescono a fare, è colpa di questo flagello storico): i comunisti hanno chiuso i manicomi, per cui ora non si può più curare una persona che non vuole curarsi.
Sbagliato. Esiste il TSO. Che è, nonostante le pessime applicazioni, uno strumento importante. Chi ha una persona che ha un disturbo grave e non vuole curarsi, sa che il TSO è una extrema ratio necessaria.
Ma proviamo a ripercorrere la storia della legge psichiatrica in Italia. La legge 180 è una legge straordinaria che cambia il paradigma; non più il malato, per il solo fatto di essere affetto da un disturbo psichico, considerato “pericoloso per sé e per gli altri o di pubblico scandalo” (questo il criterio per l’internamento in manicomio della legge 36 del 1904), e, in quanto pericoloso, sottoposto a ricovero coatto, ricovero disposto dal pretore e attuato dalla pubblica sicurezza.
Quando il TSO è un sequestro sanitario
Con la 180 il trattamento dei disturbi psichici diventa volontario, quindi ha ragione la zia Lidia, però ha pure torto, perché eccezionalmente può essere imposto (ed ecco allora che diventa Trattamento Sanitario Obbligatorio) se (attenzione ai tre se):
1. Esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici;
2. Gli stessi non vengono accettati dal paziente;
3. Non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere.
Questa legge è stata una rivoluzione copernicana: toglie la parola pericolosità, che da allora non è più implicita nel concetto di malattia mentale. Ciò non significa che, per legge, il disturbo psichico non determini, mai più, condotte pericolose, figuriamoci (e la storia di Sebastiano, il padre di Marcello, o di Rocco, suo zio, racconta bene quanto una persona con disturbo possa rappresentare, anche, un pericolo), ma il pericolo non è la regola, anzi, le statistiche confermano che le persone con disturbo psichico delinquono e sono pericolose meno delle persone considerate normali (un marito può essere pericoloso per sua moglie pur senza essere un malato psichico, un autista può essere pericoloso per i pedoni, senza essere malato). La conseguenza di questo spostamento di paradigma è che l’obbligo alle cure (il TSO), quando necessario, non accade più (come nella precedente legge manicomiale) per tutelare la società dal pericolo del folle, ma viceversa per un dovere etico di cura, perché i disturbi psichici non rappresentano più una questione di pubblica sicurezza, ma una questione terapeutica.
Nella storia che Carlo Miccio ci racconta, i servizi della nuova riforma psichiatrica, nel Lazio, sembrano pressoché assenti. Ciò (ci lavoro nel Lazio) non mi stupisce affatto. Sebastiano viene seguito da un neurologo. Per molti anni è abbandonato a sé. È l’alibi, e la malafede, e la disonestà di chi dice: non posso ricoverarlo, la nuova legge me lo impedisce.
Rotelli (l’erede di Basaglia a Trieste dopo la sua morte) negli anni ’90 fa il punto sulla legge 180. L’Italia si divide in tre, scrive. Chi lavora per realizzare i principi della legge (la minoranza egemone, appunto), chi lavora apertamente per combatterla, e chi, pur aderendovi a parole, nei fatti la stravolge, la svuota di senso, la rende un vuoto feticcio (è la maggioranza democratica, la maggioranza passivo-aggressiva). Ecco, quelli che interpretano la legge 180 a modo loro sono coloro che in questa storia narrata dicono: la nuova legge mi impedisce di ricoverarlo.
Negli anni, poi, è accaduto che gli psichiatri che lavorano con in testa il fascino discreto del manicomio, hanno reso i TSO non più l’extrema ratio, ma un modo semplice per non negoziare le cure e dar luogo, nei fatti, a un sequestro sanitario. Ciò ha determinato, in questi ultimi anni, episodi drammatici, morti detti (erroneamente, o in malafede) da TSO (in realtà morti da cattive pratiche neo-manicomiali): Casu, Mastrogiovanni, Soldi, Malzone, eccetera. Eventi che hanno riportato in auge i detrattori del TSO, con coloro che vorrebbero abolirlo.
La risposta più semplice a questa istanza, apparentemente libertaria, che il protagonista del libro, Marcello, darebbe, è: ma una persona con un disturbo psichico grave è davvero libera? Non è più violento il suo abbandono, rispetto al suo diritto a ricevere delle cure?
Caratteristiche drammatiche
Altro punto. Un TSO si realizza quando, “non vi siano le condizioni per adottare idonee misure sanitarie extraospedaliere”. Significa: il ricovero ospedaliero coatto è l’ultima chance, quando i servizi territoriali di salute mentale non sono riusciti a organizzare un’assistenza in grado di evitare l’ospedalizzazione. Questo è il tema dolente, inerente la qualità dei servizi di salute mentale nella gran parte di questo paese. Servizi che, quasi dappertutto in Italia, tranne in pochi luoghi di buone pratiche, non sono riusciti a organizzarsi con strutture territoriali forti, efficaci, accoglienti, capaci di vera presa in carico della sofferenza (Centri di Salute Mentale aperti nelle 24 ore tutti i giorni, tanto per cominciare), ma hanno saputo implementare solo i reparti ospedalieri adatti per acuzie, emergenze e TSO.
Ma se il TSO diventa un evento abusato, routinario, ecco che perde l’originale caratteristica di eccezione rispetto alla normalità del ricovero volontario, ed è più facile che assuma caratteristiche drammatiche.
Dunque queste morti cosiddette per TSO sono la punta dell’iceberg, eventi sentinella di una psichiatria italiana che sta facendo ritorno al manicomio: nessuna prevenzione, nessuna presa in carico, prevalente intervento sull’emergenza con trattamenti coatti gestiti con modalità poliziesche, ricoveri ad infinitum con aggressive terapie farmacologiche e contenzione al letto.
Perciò io contesto sia chi utilizza il TSO come strumento poliziesco e repressivo, sia chi, come i pochi sopravvissuti antipsichiatri, o i radicali, ne auspica l’eliminazione.
Recentemente ho collaborato col partito radicale per una legge d’iniziativa popolare che rendesse più indaginoso il TSO e permettesse meglio di tutelare la persona che lo subisce. Quando ho capito che questa proposta di legge si preoccupava solo della cosiddetta liberabilità del paziente, e poco o niente del suo diritto a essere curato, o del potenziamento dei servizi di salute mentale, rendendoli idonei alla piena presa in cura, sempre aperti, eccetera, ecco che mi sono fatto da parte.
I cliché della psichiatria
Nel libro c’è questa scena, dove il figlio (Marcello) va a trovare suo padre (Sebastiano) in SPDC, che ha subito l’ennesimo ricovero, e lui non vuole prendere la benzodiazepina che l’infermiere gli dà, allora il figlio, senza farsi vedere, la divide col padre, fanno metà per uno, ed è forse anche grazie all’effetto ansiolitico del farmaco che Marcello riesce a empatizzare come mai prima con la depressione che muove il padre, e per la prima volta vede questo padre che non è solo euforico ma anche triste, e quando è triste vuole uccidersi.
Forse disinibito dall’ansiolitico, Marcello chiede per la prima volta di parlare col medico del reparto, e questi gli snocciola un bel po’ dei meglio luoghi comuni della psichiatria: “La malattia di tuo padre si chiama sindrome bipolare, ed è un’alterazione di alcune sostanze chimiche del cervello, e non si guarisce in realtà, se ce l’hai te lo tieni, è come il diabete, coi giusti farmaci puoi imparare a gestirla, abbiamo perfino pensato di fargli la TEC, ovvero l’elettrochoc, che funziona bene, lo dicono i numeri, per la malattia di tuo padre soprattutto è indicato, ma è lui che deve volersi curare, non possiamo costringere nessuno noi, lo dice l’articolo 32 della costituzione, comunque adesso proveremo con il litio”.
Ecco, in questa scena è riassunta la banalità della psichiatria, e la semplicità degli specialisti.
L’originalità della proposta etnopsichiatrica
Ma le spiegazioni complesse che gli psichiatri, prigionieri del loro riduzionismo, non hanno Marcello le trova nel suo corso di laurea in filosofia, e nell’incontro con Ernesto De Martino, con Sud e magia, con La terra del rimorso, e le tarantolate, queste isteriche salentine la cui cura non è delegata al tecnico, ai farmaci, alla diagnosi, ma alla comunità, è l’intero villaggio col suo rito-esorcismo, coreutico musicale, che si fa carico della sofferenza della morsicata, perché se no “l’alienazione di uno diventa alienazione di tutti”. Ed è tutto sommato il modulo del calcio collettivo olandese, applicato alla sofferenza psichica. Grazie a De Martino, Marcello scopre che quelle manifestazione di ecoprassia che ha manifestato il padre in una delle sue prime crisi (imitava i movimenti degli altri) è simile a una sindrome malese di nome Latah. Forti emozioni, quando diventano ingestibili, portano a questo stato di trance, di automatismo. Ecco una risposta diversa, dall’etnopsichiatria, rispetto a quella della psichiatria organicista che riduce tutto a quattro neurotrasmettitori turbati.
E la riconciliazione col padre
Non è grazie alla psichiatria e al suo pensiero debole e banale che Marcello si riconcilia con suo padre ma grazie all’etnopsichiatria di Ernesto De Martino. Ma deve arrivare a trent’anni. Si trova a Londra. Un amico d’infanzia incontrato per caso gli ricorda cosa era capace di fare questo suo padre utopista e visionario. È al tempo delle medie, è primavera, e l’umore del padre inizia a virare verso l’allegrezza, gli viene l’idea di mietere il davanti la chiesa e trasformarlo in campo da calcio, con tanto di porte. Per tutti i ragazzi del quartiere suo padre diventa un eroe. Una specie di messia che si mette in testa progetti grandiosi e sa pure realizzarli. “La capacità di vedere l’impossibile e trasmetterlo ad altri”. Il campetto dura finché una bestemmia fa indispettire il prete. Che fa segare le porte, dimostrando l’ipocrisia della religione cattolica.
Ma suo padre, agli occhi dei suoi compagni, non è un folle ma un eroe. È certamente un pensiero etnopsichiatrico, quindi, che permette a Marcello di riconciliarsi con suo padre. Suo padre, in un’altra epoca, non vi fossero stati i normalizzatori, cioè gli psichiatri e la psichiatria e i manicomi, sarebbe potuto diventare un utopista, o un santo.
Santo come Francesco d’Assisi. Secondo alcuni, tutte le sue manifestazioni soddisfacevano i criteri diagnostici del manuale diagnostico americano (il DSM) per il disturbo bipolare. Suo padre, come san Francesco, si era spogliato in piazza, aveva predicato l’inutilità delle cose terrene, aveva donato i suoi averi ai poveri e agli sconosciuti, come il santo anche suo padre avvertiva dio, dentro di sé. Allora, perché uno è stato santificato e l’altro psichiatrizzato? Anche Francesco, a suo modo, aveva fatto il Latah, l’imitazione di Cristo. Anche Francesco si era seppellito in una grotta nella sua crisi depressiva e ne era uscito in preda all’euforia per comporre il cantico dei cantici. (Mentre leggo questa parte del libro penso a Carlo Cafiero, l’anarchico che dilapida i beni della sua nobile famiglia pugliese per la causa anarchica, morirà infine nel manicomio di Nocera Inferiore. Anche lui era vissuto nell’epoca dei manicomi, e degli psichiatri).
Ecco che, anche da questa relativizzazione etnopsichiatrica, Marcello si riconcilia con suo padre, mezzo santo mezzo matto, e va a viverci perfino insieme, e quando un giorno suo padre sente, per la prima volta (ha 76 anni) il nome che ha la sua malattia (disturbo bipolare) e Marcello prova a spiegargli che cosa è, Marcello ne percepisce la banalità, l’inutilità della diagnosi, quella cosa che in fondo (insieme alla possibilità di prescrivere farmaci) è l’unico sapere di cui dispongono gli psichiatri (Kant, nel suo Saggio sulle malattie della testa: esiste un tipo di medici convinti di essere di grande utilità nel trovare il nome per le sofferenze).
Calcio e anarchismo
E concludo con una considerazione su una delle cose più divertenti del libro. Il calcio come metafora di comunismo o collettivismo o anarchismo, di condivisione, insomma. Da ragazzo, confesso, giocavo col 14, come Cruyff appunto. Il calciatore che in questo libro viene spesso evocato.
Da ragazzo vivevo in un paesino dell’Irpinia dove erano tutti democristiani e io facevo parte di una famiglia di comunisti del PCI, e alle elezioni la DC prendeva ogni volta 1200 voti e il PCI nemmeno 100. Da ragazzo poi divenni anarchico, perché così mi pareva di essere ancora più comunista dei comunisti, per cui il mio vissuto è diverso da quello che racconta Carlo Miccio in questo libro, per me il male non erano i comunisti, visto che ci vivevo coi comunisti, ma erano i democristiani della balena bianca.
Insomma questo libro mi fa ricordare che giocavo col 14 perché pure in campo ero anarchico, e a volte giocavo da 10 tipo Antognoni all’occorrenza giocavo da 9 come Rossi per segnare di rapina ma poi tornava indietro perché avevo il fiato e mi andavo a riprendere i palloni e allora diventavo il 4 mediano alla Oriali, solo il 7 come Bruno Conti non ho mai voluto fare, mai l’ala destra, ciò per una questione politica.
Poi, a sedici-diciassette anni smisi, da un giorno all’altro, di giocare a calcio, quando compresi che non sarei arrivato in serie A. Mi iscrissi a medicina e mi ingaggiai in questo mestiere assurdo. È andata così. Ormai è tardi per tornare indietro.