Per gentile concessione della Collana 180 – Archivio critico della salute mentale pubblichiamo l’introduzione a Il pensiero lungo. Franco Basaglia e la Costituzione
24 aprile 2013
Questo libro, per l’argomento, la struttura e il linguaggio, esige dall’autore un corredo di conoscenze, e di saperi, che fanno capo alla disciplina dello studioso; il quale esercita talento e vocazione sottoponendoli a un metodo di lavoro fondato su premesse razionali, senza che una congerie di dati e riflessioni s’infili nelle strettoie del tecnicismo e men che meno negli slarghi innaturali e subdoli del pregiudizio.
Parlo di Daniele Piccione, un giovane funzionario parlamentare che ho cominciato ad apprezzare durante questi anni trascorsi nella Camera alta, giovandomi del suo ruolo nelle lunghe e non di rado difficili sedute di Palazzo Madama. Prima di leggere queste pagine non potevo dire di conoscerlo a fondo; poi, scorso il manoscritto, ho preso a domandargli di lui, dell’interesse per la Costituzione, dei suoi studi.
Si era rifatta viva la curiosità del giornalista. Avevo scoperto l’influenza su Daniele del papà psichiatra, allievo diretto di Franco Basaglia, impegnato con il maestro prima a Gorizia e a Trieste e infine a Roma; dove, scomparsa la sua guida, continuò l’opera di superamento dell’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà e la costruzione della rete di servizi territoriali indicata dalla legge 180.
Trovavo confermata la sensazione di un incontro tra due frammenti, pur distanti, di storia personale; ed è ora singolare che si annodino grazie a un libro, in un tempo così poco incline a cercare esempi, inducendoci a considerare quanto invece possa essere necessario il richiamo offertoci da una giovane democrazia repubblicana per riconsiderarne i valori. Tra i quali la sfida della scienza, di concerto con la politica, per affrontare i temi dell’oppressione, come per esempio gli ospedali psichiatrici giudiziari, un’esigenza continuamente rimossa, e ravvivata dalle severe parole del Capo dello Stato nel messaggio di fine d’anno 2012; sapendo quanto doverosa debba essere la menzione di studiosi, clinici, sperimentatori, paramedici che hanno offerto intelligenza e passione a generazioni di malati, alle prese con le diagnosi, i metodi e gli strumenti suggeriti dalle conoscenze via via acquisite da una scienza protesa verso traguardi incerti e persino contradditori.
Solo un autore poligrafo, capace di varie scritture e tonalità, poteva dar vita a un libro su cui, non a caso, si è cimentato un intellettuale tra i più giovani e accreditati tra quanti perseguono l’inderogabile stile e le dovute modalità cui il Senato della Repubblica affida varie e delicate competenze; per esempio, come in questo caso, sugli atti relativi ai complessi lavori dell’Aula. E non può stupire la scelta di aggiungere all’ordinaria attività l’altra – ugualmente intellettuale, ma più libera – che consente di trasformare in un ritratto fortemente emblematico del nostro tempo la storia di un periglioso iter legislativo, di cui si è parlato in mezzo mondo.
L’argomento è Franco Basaglia, lo psichiatra al cui nome si lega una legge, la 180, che riforma la disciplina dei princípi e dei criteri a lungo interpretati da una “letteratura” attraverso la quale, lungo consuetudini non di rado prive di convenute saldezze scientifiche, la “follia” è rimasta tra i mali più infidi, tanto appaiono, e spesso sono, imprendibili e cangianti; e che l’istituzione ospedaliera, uso parole di Giovanni Bollea, ha «imposto a creature tenute nascoste nei meandri del pensiero malato», una critica franca, rivolta non alla scienza, in sé, ma ai suoi alterni e spesso sfiduciati dettami, fino alle innumerevoli compromissioni dell’ordinamento sanitario, fonte di grandi dedizioni, ma anche di indebite, o inadeguate, interpretazioni terapeutiche.
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La prenderò da lontano, nientemeno da quando, in una Grecia al culmine del suo splendore, un grande storico ateniese, Tucidide, narrando eventi di cui era stato testimone, e in parte protagonista, volle escludere da quelle vicende tutti i fattori non umani, come le divinità, il fato, la forza della natura, che oracolando sui misteri ne evocavano i prodigi, cioè i limiti della ragione, in quanto giurisdizioni che le rimangono estranee. Credeva, invece, che tutte le responsabilità civili, politiche e morali, in ogni campo, ricadessero solo sull’uomo. Tanto che ai politici – primo, credo, al mondo – consigliava di dedicarsi ogni tanto a un “ripensamento etico” dei loro convincimenti e delle loro azioni. Un bell’esame di coscienza che oggi, per non comprometterci troppo, si chiama pausa di riflessione.
«Indaghiamo la natura del nostro essere dotati di raziocinio», esorterà Tucidide, come dire: non siamo solo persone, ma anche cittadini, e nelle nostre debolezze singole e comuni, private e pubbliche,vanno cercate le prime cause dei nostri guai.
Dopo avere sprigionato tanta intelligenza al servizio della ragione, la viviamo nel dubbio di non essere riusciti a vincere due grandi battaglie, contro la cecità sociale e il mutismo morale. Cesare Musatti non avrà il vigore dello storico ateniese, ma il nostro psicologo e psicanalista ne raccoglierà il messaggio: «Basta anche un’insofferenza, o un piccolo calcolo egoistico, e figuriamoci un rifiuto, a gettare una persona debole nel caos», scriveva «e ciò vale anche per gruppi sociali e comunità, popoli e nazioni». Lavoriamo, insomma, per una cittadinanza che non escluda nessuno, a cominciare da chi ha più bisogno d’aiuto, domandandoci come debba uscirne tutelata anche la condizione dei singoli cittadini. Usciti tutt’altro che indenni dalle idee massificanti, oggi corriamo il rischio opposto: il disinteresse collettivo per i percorsi individuali. Eduardo, volendo esprimere la nostra separatezza, ne spiegò l’“ubiquità” dicendo che dopotutto «si muore uno per volta». Ma la solitudine – che bel tema per la politica, la scuola, la comunicazione d’oggi – non è una sofferenza e un problema soltanto privato. Più denso, e insieme più semplice, lo studioso Alvin Toffler: «Tutto, in questa civiltà di massa, cioè del collettivo, del comune, dei grandi numeri, tende alla riscoperta della dimensione individuale, ma con il pericolo che, perdendosi la solidarietà, ne nascano solo egoismi e rifiuti. L’accelerazione delle novità tecnologiche influirà sui nostri sentimenti: soprattutto amore e fratellanza, comprensione e vicendevolezza costrette in stagioni troppo brevi ne saranno condizionati. È sufficiente un modico senno per stabilire che occorrerà del tempo per dare all’uomo una quantità emotiva che gli consenta di dividere con gli altri il necessario e il comune».
Qui, tornando a questo libro bello e utilissimo, si levò dal silenzio Franco Basaglia: «A creare il malato, per esempio consunto dalla solitudine, non è sempre e solo la malattia, ma anche la società; spesso, cioè, ci si perde non di fronte al proprio vuoto, ma dentro quello prodotto dal cosiddetto consorzio umano. Che comprende, va detto senza lo scrupolo virtuoso di offendere un intangibile valore, anche la famiglia», con il martoriato scenario della sua quasi sempre irrisolvibile impotenza. Dove può iniziare un sentimento di esclusione, di paura, infine di spaesamento e d’inerzia: perché non ci sono creature più sole di quelle costrette all’insignificanza e all’inutilità, quando la malattia, parente prossima di un disagio spesso negato, suona come una colpa, quindi un rifiuto e un castigo. Talvolta addirittura una condanna. A tanto si può andare incontro persino in una realtà familiare, e ben peggio è destinato a chi, perduta ogni relazione con il mondo, trova il più paradossale dei rifugi nel suo stesso marasma, collaborando al discredito che lo circonda.
Sembra semplice, così, chiudere il discorso. Ma se tutta l’intelligenza e la spiritualità umana, da Pitagora a Confucio, da Socrate a Platone, da Budda a Cristo, da Omero a Dante, da Galileo a Kant, da Marx a Freud, da Gandhi a Einstein non bastano a darci la misura piena di ciò che è e può l’uomo, sarà forse perché ci si aspetta troppo dall’uomo? – si domandano prudentemente i pessimisti. Dove cercare, allora, ciò che non abbiamo ancora capito? In un computer? Ma dell’uomo colpito dal “pensiero malato” il computer saprà dirci che è parzialmente inabile, che cosa gli manca, ma non che quell’uomo, anzitutto, ha bisogno di attenzione, di mani tese. Il problema, in chi è privo di certezze – cioè destinato a vivere, come un sonnambulo, nella sua inerte vaghezza – è drammatico. Perché, ad esempio, il 23% dei prigionieri, specie tra quelli in attesa di giudizio nelle dolentissime segregazioni carcerarie, soffre di una sindrome “da isolamento” che nei soggetti più fragili “induce un malessere anche di natura psichiatrica”? Ciò che serve – quante volte ce lo siamo detto – è il nuovo e il rischioso: occorrerebbe educare l’uomo a una sorta di continua “diseducazione”, purché questa fosse ordinata secondo un nuovo criterio dell’equità, della misericordia, dell’ordine. Ma di fronte alla tragedia dei malati di mente c’è chi torna a parlare di “scontentezza di Dio”, “vendetta del Diavolo”, ”scherzi della Natura”. È ancora difficile, direbbe Tucidide, uscire dagli spericolati trascorsi nei nostri vicoli culturali, sociali e politici. Di fronte a ciò che non vogliamo vedere, e capire, ci si adatta anche alla più astratta delle frustrazioni e alla più arresa delle deleghe. C’è, a questo proposito, un modello di pessimismo, tra mistico e letterario, che colpì molto, ricordo, proprio Basaglia. «Non è solo un discorso positivista, fondato sul naturale, è anche una parabola per il cammino umano dell’immaginazione politica». Da Aristotele in poi sappiamo che nel “fare politica” l’uomo trova la misura, insieme, di sé e dell’altro. Sarà d’accordo anche don Milani: «La politica è uscirne insieme».
In realtà, dicono i basagliani, il malato di mente riceve spesso un trattamento più duro di altri malati perché è senza voce e diritti; nel mondo dei sofferenti equivale agli apolidi, ai sottoproletari, ai neri, a chi è senza stato sociale, famiglia, quartiere, vicinato. Vittima di pregiudizi e privazioni.
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È sperabile che prima o poi sia possibile sottrarre ai “subdoli volti della mente”- è un’immagine di Franca Basaglia, la moglie sopravvissuta al marito il tempo di difendere in Parlamento la 180 – quel pregiudizio, quella paura, quel rifiuto, ma anche le approssimazioni, la letterarietà, in definitiva l’alone che accompagnano la malattia, generando equivoci non di rado devastanti su una realtà così poco angolare e ordinata; anzi, così incerta e sfuggente; dalla quale deriva per paradosso anche una nostra indicibile complicità, quasi si fosse tutti un poco malati, per dir così, del sospetto di poterlo essere, o diventare.
Questa malattia ha in realtà la doppiezza di ciò che sembra non possedere lo spazio e il tempo in cui consistere. Montaigne, nei suoi Essais, scrive: «Siamo, non so come, doppi dentro di noi, per cui quello che veramente crediamo non lo crediamo». Forse dipende da infondati messaggi di quel laboratorio non di rado ingannevole che è il cervello, diceva Basaglia. Ciò che conta è che tutto possa essere o diventare diverso – un’idea stoltamente contesa tra eresia e utopia – affidando al raziocinio il compito di scoprire perché il circuito va in corto; quando cioè “l’errore della mente” dovrà essere una malattia, non una colpa e ancor meno una dannazione. È il caso di quanti ho conosciuto, tra i sani, che non capivano se dover credere o no, ma sotto sotto credendovi, a ciò per cui Basaglia si batteva! Ricordo tre ospedali psichiatrici di una volta, vale a dire tre manicomi non ancora del tutto convertiti alle strutture previste dalla nuova legge; cioè prima che una ragione appena ragionevole avesse sbugiardato la “fatalità” del pessimismo.
Come quel vecchio “paziente” di Bari – mai aggettivo è stato più idoneo a indicare un malato, per giunta mentale – che a 74 anni, di cui trenta in ospedale tra “letti di contenzione” e “camicie di forza”, mi disse: «Uno che non ha famiglia, non ha nessuno, dove va? … Uscendo, dove vado? Mi dica lei dove devo andare! Finché il padreterno ci lascia qui, qui stiamo! Quando Dio vorrà ci rimetteremo nelle sue mani … Chissà, magari il Signore potrà compensarmi… Ci voleva prima, un altro manicomio!»
Ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi, Napoli (un paziente): «Mi hanno ammazzato. Mi avete ammazzato! Voi, a me, mi avete ammazzato … e resterò ammazzato qui dentro … »
Ospedale psichiatrico di Perugia (un paziente): «La casa … la mia casa è questa. Ci siamo abituati, è come la famiglia con le sue sofferenze. Nell’altra casa, quella vera, non ci vogliono! Oh sorella mia, oh figlia mia, quando mi dirai: resta qua, nella tua famiglia! Ma non ci vogliono. Do fastidio, do fastidio, do fastidio … E io, cristianamente, voglio morire.»
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La 180 è la più umana e controversa delle leggi. Oggi si stenta ancora, da più parti, a riconoscerle, e apprezzarne, lo straordinario mutamento. Eppure l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ha indicata come «l’unica legge capace di affrontare la lotta all’esclusione del malato di mente». La stessa Società Italiana di Psichiatria, la quale respinge risolutamente le “contrapposizioni ideologiche o guerre di religione”, pur non difendendo la 180 quasi fosse un dogma, ne ha salvato legalmente i princípi. Certo, se l’affidamento dei “matti” alle cure di un ospedale generale ha sottratto alla malattia un cupo destino di segregazione, è tuttavia aumentata la responsabilità di famiglie spesso impreparate e va subito aggiunto, senza infingimenti, non adeguatamente sostenute. Bisognerà ottenere un equilibrio che, senza snaturare la legge, ne riduca alcune anche pesanti difficoltà applicative. Lo stesso Claudio Magris, che pure ha solidalmente accompagnato, condividendola, la novità basagliana, si è chiesto se non sia lecito domandarsi quanto la 180 abbia potuto rappresentare «anche l’illusione di aver risolto, felicemente, tutti i problemi».
Ufficialmente i manicomi, oggi, sono vuoti. Li chiusero il 31 dicembre del 1996. Un malato mi aveva detto: «Si aprono le gabbie, ma molti non sanno più volare». C’è ancora chi sogna di prendere il volo in tre metri per tre.
Nella Costa d’Avorio, accanto a un piccolo villaggio chiamato Akakrou, cioè nelle boscaglie limitrofe, si possono portare le persone “ammalate dentro la testa”, legandole agli alberi con una catena alla caviglia. Gregoire Ahongbon, responsabile dell’Associazione San Camillo de Lellis, gira nei boschi per liberare i “posseduti dagli spiriti maligni” e restituire ai villaggi, chissà dopo quali programmi terapeutici, le persone messe in catene: «Qui» dice Ahongbon «c’é un individuo incatenato in ogni villaggio, e le famiglie se ne vergognano a tal punto che dopo un po’ non vanno più a trovarlo». Ci penserà qualche volontario.
Del resto, ripensando alle interviste di Gorizia, nei Giardini di Abele un malato mi raccontava: «Farsi legare a un albero è umiliante, ma è una cosa che un uomo alla fine si rassegna… Io spero sempre di dimenticarla quella prigionia all’aperto…»
Sorge una domanda: quanto dista quel parco di Gorizia da una boscaglia africana?
Traggo da un giornale indiano: «A Yerwadi, un centro di pellegrinaggio nei pressi di Ramanathapuram, il 7 agosto 2001 i ricoverati del Moideen Badsha Mental Asylum sono tutti morti per un incendio». Erano legati ai letti con catene definite terapeutiche. Il giornale riferisce che l’incatenamento dura non si sa più da quando. Episodi non di questa gravità, ma comunque impressionanti, non sono mancati neppure in Italia. Leggo sul Corriere della Sera del febbraio 2000: «In una clinica per degenti psichiatrici vedi gettare l’acqua gelata sui malati, scopri materassi zuppi di urina, cucine sudice, ed ecco riemergere l’orrore dei vecchi manicomi…». Il controllo sulle strutture psichiatriche private rappresenta, non di rado, un altro problema. Spesso il numero dei ricoverati è superiore a quello previsto e si può rischiare, è già successo, che gli interessi economici abbiano il sopravvento sui diritti e la dignità dei malati.
Per indignarsi, dunque, non è necessario andare in Africa o in India; a Salerno, un capannone di vetro-resina ha preso fuoco e 19 malati di mente sono arsi vivi dentro un rogo subitaneo e indomabile. Indagini, fermi, arresti, e trafile. I “matti” muoiono dentro la loro follia – si consola qualcuno – e forse non soffrono come soffriremmo noi! Questo è lo scandalo che nessuna sentenza condannerà mai. Infatti, spesso, è nella nostra testa.
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Ho letto il libro d’un fiato, anzitutto perché mi sono riconosciuto nell’idea che a guidare Daniele Piccione sia stato il medesimo interesse da cui io stesso fui coinvolto mezzo secolo prima. Poiché in una redazione di radiocronisti si coltivavano anche interessi culturali, forse obbedendo a una sorta di trasmigrazione fantastica chiesi di dedicarmi a un problema che presto avrebbe condotto a una delle più difficili riforme del secolo: da una parte giudicata un atto di riparazione civile e morale, dall’altra un’ideologica, pericolosa scorciatoia socio-sanitaria. A Gorizia vidi e ascoltai cose che screditavano non solo nel “profondo” la tradizionale visione della pazzia. I “matti” erano al limite estremo della città: un muro di cinta dell’ospedale segnava un tratto di confine tra lo Stato italiano e quello iugoslavo. Quel territorio di confine era anch’esso una metafora. Mi si potrebbe incolpare di avere usato nei confronti di quei malati una nuova forma di violenza rivelando senza ambiguità il volto di un dolore abitualmente nascosto tra le mura di ospedali nati per custodire una società di esclusi; o di apolidi, se il termine è meno inquietante. Il libro di Daniele Piccione, nella sua rigorosa costruzione combinatoria, è volto soprattutto all’aspetto giuridico del problema, ma non trascura di lasciarci percepire e intendere quanto può restare di un uomo dopo che l’istituzione delegata a curarlo lo ha come oggettivato, riducendolo a numero, a cosa.
Il congedo dai Giardini di Abele stette in questi pensieri: poiché accade facilmente a chi ha perso tutto di perdere infine se stesso, occorre restituire a chi è ridotto soltanto a sofferenza e bisogno la possibilità d’essere riconosciuto, a priori, attraverso una vicinanza che coinvolga e affratelli, obbligandoci a ricercare anche le nostre possibili complicità nel suo male. I lebbrosari, rimasti inutilizzati, dopo la scomparsa della malattia, ritroveranno nei “matti” la nuova popolazione. Una legge antica, in bilico tra pietà e paura, stabiliva il confine tra quanti nella società hanno il diritto di essere difesi e il “matto” che, in quanto tale, perde questo diritto perché la comunità lo giudica pericoloso a sé e agli altri, e di pubblico scandalo. Ma qui sorge una domanda: se dopo due secoli il malato di mente è ancora da ritenersi soprattutto pericoloso, le regole sulle quali si fonda l’istituzione che deve occuparsi della sua cura sono state studiate in funzione di questa pericolosità e della malattia di cui soffre? A chi lasciare il dilemma? Alla brutale efficacia dei grandi sedativi, non tutti solo farmacologici?
Ce n’era abbastanza per interpellare lo scienziato lucido e veggente che aveva messo in atto tutto quel cambiamento. Ecco qualche stralcio dell’intervista a Basaglia.
– Si rimprovera all’ “ospedale aperto” di essere più una denuncia civile che una proposta psichiatrica. «Sono perfettamente d’accordo! Io non saprei assolutamente proporre niente di psichiatrico in un manicomio tradizionale. In un ospedale dove i malati sono legati credo che nessuna terapia, di nessun genere, biologica o psicologica, possa dare giovamento a persone costrette in uno stato di sudditanza e di cattività da chi li deve curare. Non può esservi una possibilità di cura dove essa non conosce una libera comunicazione tra medico e malato».
– Si dice che ai suoi interessi di natura sociale non corrisponda un impegno altrettanto vivo dal punto di vista psichiatrico. «Io faccio questo lavoro tenendo presente che esistono due tipi di psichiatria: quella per i poveri e quella per i ricchi. Un proverbio calabrese recita: chi non ha non è. Questa contraddizione, che esprime esemplarmente le contraddizioni della società, si manifesta nel modo più evidente all’interno degli ospedali psichiatrici, dove davvero chi non ha non è. D’altronde, quando una persona povera disturba, malata o no che essa sia, va a finire o in manicomio o in carcere».
– Lei nega la “pericolosità” del malato di mente? «Io non dico che il malato di mente non sia pericoloso, dico che la pericolosità non dipende soltanto dalla sua malattia, ma anche da altri fattori che vanno indagati e rimossi. La malattia mentale non è soltanto una situazione biologica: è un insieme di fattori che giustificano, nelle loro vittime, le spinte a determinati comportamenti».
– Chi è, in definitiva, il malato di mente? Perché conti¬nuiamo a rifiutarlo? «Non posso dirle chi è, perché non lo sa nessuno. Importante è non respingere la malattia e soprattutto non respingere il malato. Avvicinarsi a una persona che soffre è un compito che trascende la figura semplice e banale del medico che ha imparato determinate tecniche. Il suo approccio dev’essere estremamente dialettico: cioè la presa di coscienza che il malato è spesso il sintomo di una contraddizione sia sociale sia medica».
Le interessa più il malato o la malattia? «Oh, decisamente il malato!»
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Non riesco a togliermi dalla mente un ragazzo “apparentemente normale”, con un di più di gentilezza e pazienza. Lo scelsi come prova documentale di quanto fosse mutata la condizione dei “disturbati che disturbano”.
– Come giudica la sua malattia? «Io dicevo che nella mia vita non aveva senso, anche perché l’ospedale psichiatrico non ha senso. Appunto per il motivo che… forse non ero ammalato…»
– Come le è venuto questo dubbio? «Io ho avuto un’infanzia molto sana, ma con dei problemi particolari che mi hanno condotto alla malattia. E oggi si tratta soltanto di suggestione dell’ospedale!»
– Quando ha cominciato a pensare di non essere malato? «Beh, subito.»
– Già nei vecchi ospedali? «Sì.»
– Secondo lei, avrebbe potuto guarire in quegli ospedali? «No!»
– E quando ha giudicato la malattia qui, nell’“ospedale aperto”, in quale rapporto si è messo con il suo male? «Beh, direi così: dato che io sono libero, ho pensato che qualcuno ha della fiducia verso di me; e quando verso un individuo si ha della fiducia, non si può dire che è pazzo.»
– Che cosa farà per farsi capire, per farsi voler bene? «Beh, per farsi voler bene non c’è nessun mezzo…»
– E per farsi accettare? «Per farsi accettare bisogna parlare delle cose di lavoro. Prima di tutto i soldi, no? Diritti civili e soldi. Tocca formarsi un avvenire.»
– Fuori, cosa conta di più? «Beh, il denaro. Anche un malato ha facili rapporti fra individui quando fa vedere che lavora e guadagna. Allora viene considerato dalla società! La società chiede a me di essere uomo. Nell’oste¬ria tutti sono uomini! Essendo uomini capiscono tutto della vita e perciò negano tutto fuorché il guadagno, perché il guadagno dà da vivere. E allora, se io sono malato e incomincio a farmi uomo anch’io, tutti mi capiscono e diventano amici… Se parlo di film, di sole, di poesie nessuno mi sta ad ascoltare, mentre se parlo di cose serie tutti mi ascoltano. Se parlo di soldi tutti mi ascoltano…»
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Perché è ancora malattia dire cose, tutto sommato, ragionevoli? È questo ragazzo che parla o il suo male? Che i poveri siano “matti” è solo un’ipotesi letteraria, in realtà possono esserlo sia i poveri sia i ricchi. Ma i poveri, di fronte alla malattia, sono indifesi e facilmente si perdono. Chi può criticare la realtà si difende. Questo ragazzo non c’è riuscito, era inerme.
Come si fa, del resto, a capire fino a che punto “siamo doppi dentro di noi” se quella “doppiezza” diventa lo stigma, e la prova, della nostra inguaribilità personale o sociale, psicologica o biologica. Da qui la lettura dei profani, turbati o attratti dalle tante “possibilità” che l’uomo ha al suo interno, essendo ogni persona il frutto di mille mondi, come postulano Franco Basaglia e Umberto Galimberti, in due contigue interpretazioni.
Va da sé che il libro di Daniele Piccione non aveva il compito di isolare e commentare la parte patologica del fenomeno, né di indulgere a ingegnerie dialettiche di sorta; il suo scopo era e rimane quello di dar forma al tentativo di screditare, con un testo non suggestivo, ma puntualmente documentato il corteo delle “dicerie” che accompagnano la malattia con le sue realtà visionarie.
D’altronde, finché lo scenario si ripeteva tal quale – finché tutto, quindi, rimaneva pari a se stesso – non c’era crescita o novità. La scienza, con la 180, ha conosciuto altri percorsi, scalzando tante cose, compresi gli dei. Specialmente i più infidi, i nostri preconcetti.
«Siamo» diceva Benedetto Croce «ciò che sappiamo e possiamo»: sapere e potere non sono traguardi per tutti, c’è chi non ce la fa. Dal principio, ma anche in seguito. Essere visti, conosciuti, capiti è la prima possibilità di farcela. Non sempre, si dirà, ma la 180 non è solo per togliere alla malattia i suoi incubi, beninteso quando si possa; è anche perché non resti altro che pestare, con i nostri piedi, la nostra ombra, obliqua compagna di non sempre misteriose “doppiezze”.
Sergio Zavoli
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