«I selvaggi non hanno fucili. È questo il vero significato dell’essere selvaggi, una condizione che possiamo definire come di dipendenza rispetto allo spazio, così come viceversa si parla del dominio dello spazio da parte dell’esploratore. Il rapporto tra padrone e selvaggio è un rapporto spaziale»
J.M. Coetzee, Terre al crepuscolo
Chi sei determina in quali spazi tu puoi stare: questo potrebbe benissimo essere un breve riassunto dell’ultimo libro di Wolf Bukowski, La buona educazione degli oppressi. Piccola storia del decoro, pubblicato pochi mesi fa da Edizioni Alegre. Wolf ci parla di spazi pubblici che non hanno più nulla di pubblico, democratico e neutrale ma sono pensati e progettati per escludere qualcuno e far stare a proprio agio qualcun altro – ed è soltanto una questione di classe.
Zygmunt Bauman in un saggio del 2005, Seeking Shelter in Pandora’s Box, definisce lo spazio pubblico come quello spazio in cui non vi sono regole di accesso nè di permanenza, in cui non esistono criteri predefiniti per accedervi e, prosegue, per questo motivo «è proprio nei luoghi pubblici che il futuro della vita urbana si decide» [1]. Il libro di Wolf ci permette di osservare come siano cambiati questi spazi andando proprio a creare delle regole di accesso e di permanenza. Si inizia con Tolleranza Zero a New York e si prosegue con Città sicure a Bologna, ma il percorso, ahinoi, non riguarda soltanto queste due città.
Per esempio, in quest’ultimo mese a Trieste, città dalla quale sto scrivendo, è arrivato l’esercito, perché – testuali parole del Prefetto – «i dati statistici ci dicono che la città è sicura e i reati in diminuzione ma, al di là dei numeri, non possiamo ignorare la percezione e il sentire delle persone» [2]. Gli esempi riportati da Wolf nel libro dimostrano come quando i crimini non ci sono ma vengono percepiti è il momento giusto per intensificare le misure repressive perché «la teoria egemonica sulla sicurezza urbana afferma che la percezione conta più dei fatti» [3].
E una volta percepiti i crimini, cosa bisogna fare in nome di questa agognata sicurezza? Semplice, trovare i criminali. E come si trovano i criminali? Semplice anche in questo caso, basta cercare quelle persone che fuoriescono dalla norma sociale [4] e che, colpevoli della loro diversità e non omologazione diventano potenziali colpevoli di crimini. «Emerge così, dalle ordinanze e dallo sguardo da esse trasformato, la categoria del “disordinato”, a indicare qualcuno che, pur non essendo criminale, merita ugualmente di essere perseguito» [5]. È un passaggio sottile dal percepito crimine al potenziale criminale, tanto sottile quanto crudele perché agisce sulla pelle delle persone – sulla pelle di quelle persone che sono povere, emarginate, escluse e che, in una città sana, sarebbero quelle su cui costruire politiche di accoglienza ed inclusione. Invece hanno [6] deciso che è meglio escluderle perché non meritano di vivere la città, perché non sanno come vestirsi, dove mangiare, dove pisciare, dove sedersi o dove bivaccare, cosa ascoltare e a che ora uscire. Ci sono i cittadini perbene che sanno come si vive lo spazio cittadino e ci sono i barbari permale che invadono e terrorizzano. D’altra parte, non è la prima volta nella storia in cui c’è bisogno dei barbari per costruire le regole di civiltà e c’è bisogno del Diverso per definire la propria identità.
E qua entra in gioco il binomio Decoro/Degrado, anche se si fa presto a vedere la precarietà su cui si reggono questi concetti: se ci soffermiamo anche solo un attimo, non sappiamo dire bene che cosa essi significhino: «se il decoro è civiltà o educazione, come si definiscono educazione e civiltà? Ebbene: tramite il loro manifestarsi, e cioè il decoro stesso. Tentiamo al contrario: degrado è inciviltà, è barbarie, ma come si riconoscono inciviltà e barbarie? È semplice: osservando il degrado che le caratterizza» [7]. Come dice Wolf, ci troviamo sulle scale di un quadro di Escher, dove si usano delle idee – che diventano concetti chiave per la politica – ma non si sa bene cosa siano. Degrado/Decoro hanno acquistato una rilevanza mediatica notevole negli ultimi anni ma cui non corrisponde, pericolosamente, una definizione precisa: è tutto relativo. Nessuno però ci pensa, sentiamo sventolare queste parole per far approvare leggi e decreti, nuovi regolamenti comunali e di polizia urbana, ci siamo convinti di vedere il degrado per le strade della città (perché le coperte di un senza fissa dimora, cos’altro potrebbero essere? [8]) e ormai ci sembrano concetti così chiari e naturali che non ci viene da metterli in discussione.
«Chi è quindi titolare del pieno diritto ad attraversare, frequentare, vivere la città decorosa? È ormai chiaro che i tradizionali diritti civili non sono sufficienti, e che bisogna sapervi associare un comportamento adeguato, che si sostanzia in un adeguato consumo» [9]. Qualcuno viene escluso: è chi non produce, quindi chi non genera profitto e che non ha soldi da investire nella città, nelle sue catene di negozi, nei suoi ristoranti stellati o chi non vuole assolutamente cedere a questo ricatto e vivere la città senza essere giudicato ed escluso per quello che (non) ha nel portafoglio.
Mi sono tornate alla mente altre parole, alla fine sto scrivendo sul Forum Salute Mentale e non potrebbe essere altrimenti. Nel 1979, Franco Basaglia tenne alcune conferenze in Brasile, in una di queste, a San Paolo (Analisi critica dell’istituzione psichiatrica, 20 giugno 1979), si soffermò sul nesso tra “essere folli” e “essere improduttivi” e su come l’istituzione manicomiale andasse a colpire le persone povere: «abbiamo capito che l’internamento dei “folli poveri” era una conseguenza del fatto che queste persone non erano produttive in una società basata sulla produttività, e se restavano malate era per la stessa ragione, perché erano improduttive, inutili per una organizzazione sociale come questa. […] Detto altrimenti tutto ciò che non produce è malato, non va» [10].
Nello stesso anno, insieme alla moglie Franca Ongaro, scriveva nella voce “Follia/delirio” dell’Enciclopedia Einaudi: «La distanza fra chi ce la fa e chi crolla si allarga, e chi crolla – o non riesce a trovar posto nell’organizzazione del lavoro, diventato l’unico valore socialmente riconosciuto – resta tagliato fuori dal mondo, privo di identità e di diritti. In questa nuova dimensione l’uomo produttivo è formalmente attore «libero» del contratto sociale; l’improduttivo ne resta ai margini e l’unica identità che gli viene offerta è quella di far parte della marginalità improduttiva (che comprende incapaci, deboli, ritardati, handicappati, donne, vecchi, ma anche i disoccupati di cui la produzione non ha bisogno)» [11].
Erano sicuramente altri anni, ma l’eco di queste parole continua a risuonare: si esclude il povero, il subalterno, l’emarginato dal corpo sociale, che deve rimanere puro. È davvero pericoloso tutto quello che sta succedendo: là dove c’è la povertà (il primo sintomo della malattia, disse qualcuno) bisogna agire e costruire politiche sociali. Invece sta accadendo tutto il contrario, come ci fa vedere Wolf con un’attenta analisi: là dove c’è la povertà bisogna trovare il modo per farla sparire facendo sparire le persone. Lo spazio si svuota, perché è più importante uno spazio vuoto invissuto e invivibile rispetto alle persone che lo hanno abitato e che lo voglio abitare. Solo se produciamo abbastanza e abbiamo abbastanza soldi per produrre, allora soltanto in quel momento lo spazio cittadino si aprirà a noi – altrimenti riceveremo daspo, ordini di allontanamento, multe e un bel foglio con scritto «ci scusiamo, ma non rispetta gli standard della nostra città» – così come un tempo si riceveva un «pericoloso per sé e per gli altri o che riesca di pubblico scandalo» e si veniva internati in un manicomio.
Quest’ultimo lavoro di Wolf è un testo necessario. Il teorico Jonathan Culler sostiene che un lavoro teorico per essere tale deve andare contro il senso comune; La buona educazione degli oppressi lo fa: smonta piano piano quelle retoriche di cui anche le nostre orecchie sono intrise per cui il povero, l’immigrato, l’escluso, il subalterno siano dei cittadini permale; fa vedere come sia riduttivo spostare l’asticella a destra quando ci sono state volontà politiche ben precise che ci hanno portato dove siamo arrivati, diffuse tanto a destra quanto a sinistra; ci dice chiaro e tondo di renderci conto che “degrado” e “decoro” sono parole assolutamente senza senso; infine, ci chiede di non cadere anche noi in questi giochi perché la libertà appartiene a tutte e tutti, così come la città.
[1] Traduzione italiana: Zygmunt Bauman, Rifugiarsi nel vaso di Pandora. Ovvero: paura, sicurezza «and the city» in Idem, Vita liquida, Bari-Roma, Laterza, pp. 69-83 (p. 81)
[2] Gianpaolo Sarti, «Stretta anti criminalità in centro città», Il piccolo, 7 luglio 2019, p. 20.. Oltre all’esercito nelle settimane successive si sono aggiunti: guardie giurate armate e vigili urbani in bicicletta
[3] Wolf Bukowski, La buona educazione degli oppressi. Piccola storia del decoro, Roma, Edizioni Alegre, 2019, p. 25
[4] Riporto definizione di norma scritta a quattro mani da Franca Ongaro e Franco Basaglia per l’Espresso nel 1971 in un servizio intitolato Noi Matti, Dizionario della nuova psichiatria: «Norma. Complesso di regole che definiscono i valori di una data società in rapporto al tipo di credenze, organizzazione sociale, livello economico, sviluppo tecnologico-industriale che la caratterizza. Si tratta di un insieme di valori relativi che acquistano peso e significato assoluti solo nel momento in cui vengono infranti (v.: “Deviante”). Essi si traducono cioè in norme giuridiche deputate a sancire la situazione in atto. Di conseguenza, sanciscono il sistema di valori della classe dominante quindi il privilegio della classe che stabilisce i limiti di norma rispetto all’altra, che li subisce»
[5] Bukowski, La buona educazione, p. 91
[6] Utilizzo la terza persona plurale perché in quanto attivista, ex studentessa fuori sede, attuale precaria rientro più facilmente nella categoria dei disordinati
[7] Bukowski, La buona educazione, p. 109
[8] Riferimento all’episodio che ha visto come protagonista il vicesindaco di Trieste in cui si vantava di aver gettato nel cassonetto le coperte di un senza fissa dimora perché sporcavano
[9] Bukowski, La buona educazione, p. 153 (corsivo nel testo)
[10] Franco Basaglia, Analisi critica dell’istituzione psichiatrica, conferenza tenuta a San Paolo all’Instituto Sedes Sapientiae il 20 giugno 1979. Le conferenze brasiliane sono raccolta nel volume: Franco Basaglia, Conferenze brasiliane, a cura di Franco Ongaro Basaglia e Maria Grazia Giannichedda, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000
[11] Pubblicato originariamente, in collaborazione con Franco Basaglia, in Enciclopedia Einaudi, vol. VI, Einaudi, Torino, pp. 262-287. Ora in Franca Ongaro Basaglia, Salute/Malattia. Le parole della medicina, Merano, alpha beta Verlag, pp. 119-147 (pp. 130-131)
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