di Mariasole Ariot
“tu, se sai dire, dillo, dillo a qualcuno.”
Giuliano Mesa
Esiste una zona d’ombra, nel fondale, un buio di silenzio dissotterrato in anni passati e che ora torna a farsi muto. Se negli anni della riforma basagliana la percezione che i muri venissero abbattuti e che l’abitare la soglia – per usare le parole che Peppe Dell’Acqua ha pronunciato durante l’intervento alla Scuola di Filosofia di Trieste – fosse una direzione possibile, se la percezione era quella di un’apertura dialettica, critica e dialogica che portava anche all’emersione di voci fino a quel punto tappate, oggi i muri sono stati nuovamente eretti, e con un materiale forse anche più denso. La densità dell’ipocrisia, di una patina di chiaro che dice apertura, quando invece, in quella zona d’ombra non detta perché indicibile, il pensiero dominante e le pratiche dominanti, non si sono (solo) fermate: si sono mosse in direzione contraria, girate di spalle e tornate indietro.
Se il termine “salute mentale” circola di bocca in bocca, dalle dimensioni micro a quelle macro, è pur vero che questo, anche da un punto di vista politico, può torcersi in una vera e propria dispercezione all’occhio di chi, da fuori, vede o ascolta: se se ne parla, è perché ce ne si sta occupando.
La realtà, pur con le sue sfaccettature, è però molto diversa: ce ne si sta occupando veramente? E in che modo?
Non è il significante salute mentale che dev’essere messo in discussione, piuttosto l’uso che ne fa un certo potere politico e sociale, che, in alcuni casi, a eccezione di zone interstiziali, può utilizzarlo in una ripetizione incessante negli ovunque, per coprire ciò che sta dietro, ciò che non viene visto, ciò che non si vuole vedere, ciò che non può essere mostrato: ciò di cui in realtà, fuori dalle parole, non ci si sta occupando. Forse solo in termini di sottrazione e cancellazione.
I ricordi di Peppe dell’Acqua e di chi ha vissuto gli anni pre basagliani – il “giro medico” di un professore in camice bianco che illustra con dovizia di particolari i segni osservabili dei malati, destoricizzati e desoggettivati, a una processione di studenti, le sbarre alle finestre, le porte chiuse a chiave, elettroshock e uomini legati ai letti – per chi non ha visto le strutture psichiatriche di questo presente, possono apparire come immagini legate a un passato remoto, ma per chi né ha fatto esperienza diretta o indiretta, quell’immaginario non suscita stupore (piuttosto angoscia e disperazione): il presente è nuovamente questo e si muove velocemente in direzione di un futuro già presentificato.
Reparti psichiatrici che, anche da un punto di vista territoriale, vengono separati, o presentati come separati, demarcati da un confine tra un noi ( malati ospedalizzati per altre patologie) e un voi (malati psichiatrici come oggetto scarto). Reparti a volte nascosti nel retro degli ospedali, in altri ancora nei bassifondi, sotto il livello del suolo.
Corridoi dalle pareti scrostate, le sale fumo impregnate di storie non riconosciute e posaceneri arrugginiti, corpi legati, terapie che, con una sottile manovra che cambia il nome ma non la sostanza, sono tornate in auge (ora terapie elettroconvulsionanti o magnetiche transcraniche, allora elettroshock), una scansione temporale di un quotidiano che sottrae alla persona la dimensione del tempo, per trasformarla in un rituale consequenziale di misurazioni e pratiche organizzate, prestabilite, ripetute nel quotidiano: sveglia, colazione, peso, pressione, defecazione, peso, carrello dei farmaci, l’ora nei corridoi in attesa che le stanze chiuse a chiave – e sbarrate – vengano arieggiate, non stare per terra ma le panchine non ci sono, gli specchi lastre di alluminio, togliere i lacci o le scarpe, la concessione del proprio telefono solo a brevi orari del giorno, non fotografare, non dire, solo 5 sigarette al giorno, controllare la comunicazione, sequestrare quell’effetto personale che poteva dare sicurezza: un profumo, un crocifisso, un braccialetto, una crema da barba: frammenti di “casa” nelle proprie tasche.
Corpi misurati e controllati. Il giro medico in forma di commissione (o confessione), e poi ancora, di nuovo: il carrello delle medicine, la cena, l’ora dell’andate a letto.
E in quel “giro” non una domanda alla persona, non alla sua storia: cartelle di dati clinici osservabili, sintomi, risposta al farmaco, ha dormito, non ha dormito, aumentiamo il farmaco, diminuiamo, cambiamo. Non una persona al centro, ma un cervello-macchina malfunzionante da rimettere a posto. Per una diagnosi data in due giorni.
Il resto è un tempo svuotato, di segno e per cognizione: ridotto all’andirivieni dei degenti nei corridoi alla richiesta spasmodica di una moneta per un caffè, l’ennesimo che possa risvegliare dalla sedazione farmacologica. O i giornali: i giornali del giorno prima, o di mesi prima, persino di anni.
Se per Gabriel Tarde*, il senso di straniazione nel ritrovarsi in un caffè e accorgersi di leggere il giornale del giorno prima – disconnesso quindi dall’attorno, dagli altri – è stato un ironico episodio che ha aperto a successive riflessioni, questo rifilare come scarti agli scarti i quotidiani di un quotidiano passato, fa inchinare la testa con un senso di rossore e vergogna.
Quale pensiero del “tanto non se ne accorgono” – o, se se ne accorgono, “così passano il tempo e non si lamentano”.
Piccoli gesti, anche i più minimi, portano il peso di un’asimmetria non solo di potere, ma anche valoriale della persona ridotta ad oggetto.
Se negli spdc la dimensione è questa, esposta nella sua crudescenza, nelle case di cura private o convenzionate, l’esterno è: il verde degli alberi, le belle strutture imbiancate, la pulizia, la postura più gentile del personale, un certo fare paterno o materno, una differenziazione di forma che però non tarda a mostrarsi nella similitudine della sostanza: resta il rumore dei carrelli, la scansione del tempo con colazione, spuntino, cena, orario della buonanotte, i farmaci, la misura, regole di buona condotta, se ne infrangi una, anche fosse un bacio: espulsione, ammonizione.
Degenti per mesi o per anni inseriti in una macchina psichiatrica che osserva sintomi, li incasella, e li trasforma in etichettature. Talvolta non osserva nemmeno: lo sguardo è cieco, si limita a un fotogramma decontestualizzato.
I pazienti appena entrati, tanto più se sono reduci da degenze in reparti psichiatrici ospedalieri, portano in sé un senso (breve, e che durerà per poco) di meraviglia e gratitudine: qui è tutto diverso – dicono ai familiari, facciamo un sacco di cose.
Queste cose possono essere gruppi psicoterapici o attività ricreative. Nulla di male, certamente. Il problema si pone nella misura in cui questi vengono strutturati e proposti, e nella maggioranza dei casi, sfortunatamente, restano nella sfera della soluzione/assoluzione: insegnare ai pazienti come sia giusto essere, comportarsi, relazionarsi, a prescindere dalla singolarità di ciascuno, dove sbagliano, cosa sbagliano, e come il comportamento e il pensiero possa essere corretto da un allenamento addomesticato alla vita.
Se però non si può negare che in alcuni contesti la figura di uno psicoterapeuta individuale (più raramente di uno psicoanalista), sia prevista e si incarni in una comunicazione con l’altro soggettivato, all’interno di un incontro anche significativo, rispetto alle “attività”, là la zona d’ombra che riduce i soggetti a persone in minore, di serie b, si riapre.
In un passaggio di Asylum, Goffman scrive:
“Negli ospedali psichiatrici c’è ciò che viene ufficialmente conosciuto come terapia industriale o ergoterapia; i pazienti devono svolgere attività, di solito molto umili, come rastrellare foglie, servire a tavola, lavorare in lavanderia o pulire i pavimenti. Sebbene la natura di questi compiti derivi dalle necessità dell’istituto, la spiegazione abitualmente data al paziente è che queste attività lo aiuteranno a reinserirsi nella società, e che la capacità e la buona volontà che dimostrerà, sarà presa come evidenza diagnostica del suo miglioramento”**
Nonostante Asylum sia stato scritto nel 1961, la realtà delle cliniche psichiatriche non è cambiata. Si aggiungono, alle pratiche nominate da Goffman, altri piccoli “premi”: l’ora di cucito, la plastilina, una morbida ginnastica di movimenti lenti e goffi “su misura per chi non è capace”. Tant’è che, dopo un primo periodo di entusiasmo, queste attività, se non obbligatorie, vengono abbandonate presto : perché anche la persona imbottita di dieci pillole al giorno, se anche non in modo verbalizzato, vive nel proprio corpo una dimensione di indegnità, di penuria, di disagio, talvolta il sospetto (fondato) che siano metodiche “a ribasso”, a misura di incapaci, menomati.
Il richiamo alla terapia industriale o ergoterapica torna poi nei luoghi del fuori, le cooperative per persone con disabilità psichica. Lavorare per committenti, prevalentemente con lavori di assemblaggio, di cucito, manuali.
Nella maggior parte dei casi nessuna retribuzione: siamo noi che stiamo offrendo a voi qualcosa, la possibilità di occupare il tempo. Ma questo tempo – che è lavoro – non viene ripagato com’è giusto accada per ogni lavoro degno di questo nome. Il risultato è: restare a carico delle famiglie, là dove spesso il disagio è cominciato, con una tendenza alla cronicizzazione.
Secondo due direttrici, queste modifiche graduali ma sempre più problematiche, da un lato hanno subito una percossa a causa dei gravi taglia alla sanità pubblica (drastica riduzione del personale nei centri diurni e dei servizi di salute mentale, scomparsa degli spazi pubblici che aprivano le porte non solo a un “reinserimento” del malato verso l’esterno, ma anche a un’entrata dell’altro verso l’interno creando così una zona di soglia, trasformazione dei centri attivi in centri maltrattati da un aiuto economico statale che, per la presa in carico di persone in difficoltà ,riescono a dedicare pochi minuti al mese in cui viene valutato solo l’andamento farmacologico in modo sbrigativo – e il concetto di “cura” viene così a scomparire, ma anche una deriva, tanto più pericolosa, in un senso propriamente teorico e clinico della psichiatria italiana: si è tornati a una visione dell’altro non come persona sofferente ma come cervello malato, un altro da raddrizzare e correggere (e qui l’immaginario richiama all’opera citata da Foucault, L’orthopédie ou l’art de prévenir e de corriger dans les enfants les difformités du corps di N. Andry), e che se non si raddrizza, se sfugge alle caselle, diventa un altro (se di altro si può parlare) problematico, non gestibile: griglie, misure, manuali diagnostici sono rassicuranti. La storia del soggetto non lo è: allora la cancellazione, l’ammutinazione di ogni segno al singolare, sintomi declinati a fotogrammi che diagnosticano nell’immediato senza contestualizzazione all’interno di un tragitto esistenziale al singolare.
E’ sicuramente più facile rapportarsi con un paziente iperfarmacologizzato e arreso alla terapia che non a un paziente che dà voce alla sua voce. Diventa ingombrante, un peso. E la voce si spegne, la bocca si cuce.
Ma esiste anche una posizione opposta, ostinatamente contraria a questa, che può però, pur con nobili intenti, esercitare un’altra riduzione e semplificazione: quella del “ in fondo siamo tutti folli”.
No, non siamo tutti folli: abitare la soglia e comprendere il dolore e la sofferenza psichica dell’altro malato deve comunque essere riconosciuta in quanto tale, significa non ridurre il soggetto alla malattia e riconoscerlo in quanto essere al singolare, ma rispettarne e ammetterne la condizione drammatica in cui vive, la qualità oggi sempre più penosa della sua vita, le difficoltà di essere ascoltato anche nel suo silenzio.
*Gabriel Tarde, 1843-1904, sociologo, criminologo e filosofo francese.
**Asylum,Goffman, 1961