[dall’introduzione a Dopo venuti a Trieste. Storie di esuli giuliano-dalmati attraverso un manicomio di confine 1945-1970]
Quando nel 1971 sono arrivato a Trieste, confini orientali non era altro per me che una definizione geografica. Sapevo poco della storia dell’esodo, una storia tanto recente quanto drammaticamente sconosciuta ai più e offuscata dai luoghi comuni, dalle ideologie e dai conflitti. Trieste, per un giovane salernitano, era lontanissima. Un altro mondo. Avevo maturato un’immagine molto manichea. Anch’io ero influenzato dalle contrapposizioni di quel tempo. Tutto si riduceva a pensare che da una parte c’erano i comunisti e dall’altra i fascisti: di là quelli della Resistenza che hanno sconfitto il nazismo e cercano di fondare un paese nuovo, indipendente, una nuova organizzazione sociale, una vita, che è capace di guardare oltre e di qua c’è un paese che sembra bloccato, obbligato nella scacchiera delle politiche internazionali che si stavano formando. Era evidente che l’Europa era ormai tagliata in due: la guerra fredda, a Trieste, col confine sulla porta di casa, assumeva una concretezza inquietante. Dovevo cominciare a orientarmi tra quanto leggevo e quanto mi raccontavano. I rastrellamenti, le foibe, le rappresaglie, gli esodi forzati, i confini che cambiavano, i cognomi sloveni e croati obbligatoriamente italianizzati per decreto ministeriale, i campi di concentramento dove gli italiani internavano i giovani partigiani e quelli dove più tardi verranno internati i comunisti dissidenti, erano oggetti sconosciuti. Dell’esodo, dell’abbandono forzato delle terre, della scomparsa degli italiani, solo più tardi comprenderò tutta la potenza drammatica.
Quando qualche anno prima, era il 1968, studente universitario, avevo viaggiato in autostop lungo tutta la costa dalmata, avevo goduto la bellezza del paesaggio e l’amicizia di tanti giovani studenti jugoslavi. Non mi passava neanche per la testa che stavo toccando con mano una storia che solo più tardi avrei dovuto conoscere. A Trieste sono arrivato insieme a tanti altri giovani, con Basaglia che progettava di proseguire sulla linea di quanto aveva sperimentato a Gorizia. Il cancello di San Gio- vanni una volta varcato ha segnato tutta la mia vita. Il posto di blocco di Rabuiese o di Sezana era un confine tra due mondi. Ero attratto dalle differenze: come saranno le fabbriche, le scuole, gli ospedali, il cinema, la cultura, la democrazia, il socialismo?
Era ll sogno di una cosa: come per i giovani amici friulani di Pier Paolo Pasolini. Eravamo affascinati dal viaggio alla ricerca di un altro mondo privo di discriminazioni, oppressione e sfruttamento. E trovavo davvero delle conferme! Venivo a sapere delle brigate dei giovani comunisti, operai di Monfalcone, che sceglievano di andare volontari dall’altra parte per contribuire allo sviluppo del socialismo. Leggevo del giovanissimo Tomizza che nei primi anni ’50 lavorava ai programmi in lingua italiana di Radio Belgrado. Nelle mie escursioni domenicali, la ricorrente presenza di lapidi e monumenti, a ricordo della lotta partigiana e dell’eccidio di tanti giovani e di tante donne, sembrava rafforzare le ragioni della mia ricerca. Avvertivo tuttavia un vuoto, una sorta di voragine che dovevo assolutamente colmare.
Cominciavo ad apprendere con maggiore dettaglio quanto era accaduto a Trieste e in quelle terre durante la guerra e il ventennio fascista. Mi rendevo conto che per le popolazioni di questi luoghi l’identità italiana assumeva uno spessore e una responsabilità completamente diversi dalla tranquilla spensieratezza del mio essere italiano. Non era facile comprendere quanto era accaduto. Ma le fratture erano evidenti e non ho potuto non sentirmi vicino a chi aveva subito le forme più estreme del nazionalismo, la repressione più orribile dell’occupazione tedesca, lo sconvolgimento e le durezze della lotta partigiana. Dovevo, poi, fare i conti con la persistenza della lingua italiana, di un bel parlare, più veneto che triestino, che mi permetteva di ascoltare quelle singolari storie che riuscivo a rubare quando mi avvicinavo di più a qualche vecchio, a qualcuno che quelle vicende aveva vissuto: dalla Grande Guerra, al fascismo, all’occupazione tedesca, dalla guerra di liberazione, alla costruzione della federazione jugoslava. Ero disorientato, una vertigine, tra confini e identità che mutavano, tra un racconto e l’altro. La presenza veneziana mi restituiva un fascino particolare. Le piazze di pietra bianca, le facciate delle chiese, i campanili, i porti e i moli continuavano a confondere ogni mia recente certezza. Nei paesi dell’interno trovavo campi, coltivazioni, attrezzi che mi riportavano d’improvviso all’immagine del paese dell’Irpinia, dove ho vissuto le estati della mia infanzia con la nonna.
Nelle storie che ascoltavo in manicomio, a colpirmi non era solo il dolore fermo e pietrificato nel momento difficile dell’abbandono del luogo d’origine, ma quella particolare condizione che su questo dolore sedimentava. Una volta in manicomio per resistere all’omologazione, all’unica piatta identità dell’istituzione, le persone non possono che aggrapparsi a quella loro identità sofferente e frammentata. Quasi a coltivarla. L’ascolto delle piccole storie, una sorta di pantografo, mi riportava alle centinaia di migliaia di persone che ora, sapevo bene, erano arrivate, transitate e ripartite da Trieste. Come certamente aveva fatto la mia professoressa d’inglese del liceo. Si chiamava Marina Gelletich. Noi alunni sapevamo che era fiumana. Non sapevamo com’era arrivata a Salerno e dove vivesse. Conoscere poco di lei la rendeva ancora più strana e misteriosa di quanto dicessero il suo parlare, il modo di vestire, di rapportarsi con noi. Che fosse istriana per noi non significava nulla e che forse stava abitando in un campo profughi significava ancora meno.
Conoscenze superficiali, luoghi comuni e tranquilli punti di vista hanno dovuto ricollocarsi. Entrato a San Giovanni, un manicomio come tutti, dove si può leggere la storia del luogo nelle sue dimensioni più estreme e talvolta grottesche, dovevo rendermi conto, per fare il mestiere che mi accingevo a fare, delle storie degli internati e di un’intera città, di un territorio lacerato. Dovevo cercare di sapere cos’era veramente accaduto. Cogliere la singolarità dei vissuti. Per molti si era trattato di una frattura insanabile, una discontinuità, un prima e un dopo che non trovava possibilità di ricomposizione se non, forse, in una forzata rimozione. Non tutti avevano avuto la possibilità o il coraggio di imbarcarsi sul transatlantico Saturnia. Tanti erano rimasti a Trieste accolti dalle politiche di assorbimento del governo di allora, vicini e lontanissimi dalle terre che avevano lasciato.
Ho passato notti intere, durante i turni di guardia, a parlare con gli infermieri e i ricoverati. Ero curioso di conoscere come accadeva la partenza, come avevano affrontato l’arrivo nei campi profughi, ma anche com’era stata la loro giovinezza, i balli, i fidanzamenti, gli sposalizi, le feste patronali, il lavoro nei campi, i modi e le stagioni della pesca. Le conversazioni erano ricche di espressioni dialettali croate, slovene, istriane, triestine. Ascoltare mi rivelava un aspetto che poco mi era stato chiaro. Capivo che molti non andavano via per una particolare scelta di campo ma per un cupo sentimento d’ineluttabilità che sembrava incombere sulle loro decisioni.
Per i ricoverati istriani che di giorno in giorno conoscevo meglio, mi sembrava che l’internamento fosse conseguenza del peso della storia che gravava sulle loro spalle. Rischiavo di ridurre la malattia al destino di essere nato a ridosso di un confine o al peso di vicende storiche e politiche più grandi delle loro vite.
Gli infermieri, che sono stati per me singolari narratori di quelle terre, mostravano con diversi accenti la consapevolezza di quanto era accaduto. Chi più chi meno esprimeva una sua posizione politica. Molti, radicandosi poco a poco a Trieste, dimenticavano il paese abbandonato. Altri non sopportavano il dolore della lontananza e ritornavano spesso. Quasi imbarazzati raccontavano il viaggio. Per tutti il confine faceva percepire una distanza incolmabile. Quei paesi, seppure a poco meno di un’ora di macchina, apparivano ormai irraggiungibili.
Gli internati, quasi tutti, preferivano tacere. Coglievo una sorta di arresto, un’immagine ferma in un tempo che non scorre. Era difficile collocare le loro esperienze, la loro vicenda umana in un divenire che restava indecifrabile e a me estraneo. Sarebbe stata comunque evidente la pochezza della semplificazione, se avessi voluto attribuire all’abbandono della famiglia, della terra, dei sogni di quelle giovinezze spezzate le ragioni della malattia e dell’internamento. La malattia, come sempre, aveva a che vedere con chissà quante cose.
Il racconto che ascoltavo nei viali e nei cameroni di San Giovanni si collocava tra gli anni ’50 e ’60. Erano stati gli anni della mia adolescenza che non avevo vissuto a Trieste: una volta lasciata la tua terra, non incontri più i compagni di scuola, non riconosci nessuno per strada. Così, nella quotidiana vicinanza con i ricoverati, l’oratorio, i rioni, la partita di calcio erano segnali muti. Frequentemente, per esempio, chiedevo delle scuole elementari, della maestra, del grembiule, dei banchi, della refezione, nel vano tentativo di trovare un comune terreno di scambio. Se era evidente la distanza da colmare con i triestini, con gli esuli e i profughi era doppia.
Per i triestini ero forestiero. Percepivo chiaramente la frattura che minacciava la continuità della mia storia e meglio potevo comprendere l’interruzione di quelle vite. Alla frattura della malattia e a quella, quanto mai presente, del muro del manicomio, si aggiungeva l’impossibilità di vivere il dolore della lontananza. I sentimenti, le passioni, gli stati d’animo erano ormai negati dalla diagnosi che sovrastava in- contrastata ogni gesto, ogni parola, ogni pensiero. Quelle persone erano ormai fuori da ogni contesto, fuori dal contratto, fuori dalla storia, costretti a vivere dentro la malattia, aldiquà di un confine che rendeva oramai irraggiungibile la propria terra e insanabile la frattura. Ogni ritorno era negato.
Il manicomio è stato sempre il luogo che sancisce e riproduce la rottura del contratto. Per lo psichiatra il mandato non era altro che questo: confermare l’esclusione. Punto. Per la psichiatria e l’istituzione manicomiale era del tutto superflua la ricerca di un’origine, di una storia sociale, di un brandello di esperienza personale. Avrei potuto non sapere affatto di istriani, dalmati, pugliesi, triestini. Un dettaglio della scheda anagrafica e delle scarne notizie della cartella clinica. Certamente il senso del riconoscimento di un’appartenenza non poteva risolversi nell’accostare all’attributo schizofrenico anche quello di istriano. Nella prospettiva che andavamo scoprendo, il luogo, la terra, le vicissitudini erano gli elementi che restituivano significato e costruivano vicinanza. Molte volte mi sono ritrovato a raccontare la mia storia – chissà in quanti modi diversi e con quanti differenti dettagli! – e forse desideravo che l’altro trovasse con me una qualche comunanza, una possibilità di somiglianza, di scambio. Trovare qualcosa che ci permettesse di riconoscere un modo comune per dire le nostre emozioni. Per esempio parlare delle case popolari, del cortile dove ho vissuto la mia adolescenza. Mio padre era ferroviere e abitavamo nelle case dei ferrovieri e quando trovavo qualcuno come me figlio di ferrovieri, sembrava ci conoscessimo da una vita.
Parlando con gli istriani tuttavia facevo fatica a trovare l’immediatezza della vicinanza. La loro esperienza era lontana. Non era dato immaginare la possibilità del ritorno che potesse stravolgere l’immutabilità dei destini degli internati. E invece, inaspettatamente, tante storie di ritorno, che pure accadevano, facevano esplodere i blocchi della guerra fredda, l’irreversibilità della malattia.
A Trieste, il tentativo di ricomporre le fratture così profonde nelle storie delle persone diventava, di giorno in giorno, un imperativo categorico. Dovevamo ascoltare e favorire il racconto dell’altro. Non bastava mai. Le vie d’uscita si potevano trovare soltanto nella trasformazione, seppure lenta, del quotidiano. Bisognava tornare nei luoghi che da anni le persone avevano lasciato. Era necessario stare insieme per ore e per giornate intere. I piccoli viaggi, le vacanze al mare o in montagna – allora un’assoluta novità – permettevano lenti ma inesorabili avvicinamenti. A poco a poco le persone trovavano il piacere di raccontare la loro vita. Era facile raggiungere la casa di Livio a San Giacomo, non era altrettanto semplice per Giovanni, Ljubo, Boris, Eufemia toccare le pietre della loro casa a Umago, a Vrh, a Pisino, a Rovigno. Questi ritorni non finivano mai di interrogarmi: com’era stato possibile andar via? Com’era stato possibile lasciare la piccola vigna di Buroli, e Cherso, e Parenzo, e Portole, e Giurizzani? E l’azzurro e le pietre bianche? E non andar via per scelta, ma per una dolorosa obbligazione, con la consapevolezza dell’impossibilità del ritorno.