Celebrando i cento anni dalla nascita di Franco Basaglia, Salute Internazionale ha deciso che il modo migliore per onorare questa figura fondamentale del Novecento sia quella di chiedere ad alcuni protagonisti che hanno contribuito, e continuano a contribuire, a riflettere e lottare per l’inclusione sociale contro ogni forma di istituzione totale, per i diritti e per una sanità pubblica giusta e universale, a formulare in poche righe un loro pensiero sulla attualità dell’opera di Basaglia.
Virginio Colmegna, Presidente della Casa della Carità, Milano
Lo sguardo e il metodo della deistituzionalizzazione, avviatasi con Franco Basaglia nella istituzione manicomiale, hanno rappresentato la base fondante sulla quale ho eretto, insieme a tanti preziosi collaboratori, realtà ed esperienze di accoglienza e di promozione dei diritti di cittadinanza e, in particolare, il lavoro della Casa della Carità di Milano. All’inizio, per più di una decina di anni, mi sono occupato dei primi dimessi dall’ospedale psichiatrico, vivendoci insieme in comunità. Presto ho capito quanto esperienze di questo tipo, nate per decostruire la logica manicomiale, fossero centrali anche in altri ambiti. Seguendo questa ispirazione, è stato naturale dare avvio all’esperienza della Casa della carità che, fin dal suo esordio, si è impegnata nella cura delle persone più fragili sulla base di impulsi che sono pregni di storia basagliana. Innanzitutto un cambio di sguardo e di messa a fuoco: al centro non c’è più (o soltanto) la malattia o la sofferenza – facili da incrostarsi addosso come stigma o etichetta – bensì la persona, messa nella condizione di potersi riappropriare di un nome, di un volto, di una storia individuale del tutto unica. In questo percorso di ricostruzione di storie soggettive, la dimensione relazionale acquista un significato profondo. Prendersi cura significa, infatti, costruire anche scambi e relazioni e quindi intessere legami sociali e di prossimità. Vi è un legame politico, prima ancora che morale e psicologico, tra il benessere individuale e quello collettivo. Si tratta di un cammino quotidiano di condivisione che consideriamo non solo un gesto importante di responsabilità collettiva, ma anche l’unica via per promuovere diritti e affermare doveri. Oggi abbiamo bisogno come il pane di un pensiero de-istituzionalizzante. Non cessano d’esistere, anzi si riproducono grandi istituti di ricovero e contenitori di abbandono. Antidoto a questa logica contenitiva e repressiva, deve essere il nostro agire quotidiano che, caparbio, deve diventare capace di liberare senso e soggettività.
Ciro Tarantino, Sociologo, Università della Calabria
Durante la conferenza di Rio de Janeiro del 28 giugno 1979, a chi gli paventava il rischio di riassorbimento da parte del potere delle conquiste ottenute in Italia dal movimento di critica dell’ordine psichiatrico, Basaglia risponde che “è molto difficile recuperare la pratica, mentre è molto facile recuperare l’ideologia”. Le modificazioni pratiche oppongono una certa resistenza alle restaurazioni progressive. Di questi cambiamenti reali “io sono un testimone”, dichiara subito dopo. Perché esistono ormai dei testimoni. Di cosa portano testimonianza? Del fatto inoppugnabile che si può fare: “la cosa importante – dice – è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, vent’anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto”. Irreversibile, dunque, non è la destituzione del manicomio, ma la comparsa di testimoni del possibile. “Magari i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma a ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale”.
Ma, complementare al gesto con cui l’impossibile diventa possibile, l’opera di Basaglia contiene un gesto inverso altrettanto radicale. Dopotutto, il Novecento non è certo un secolo che possa stupirsi che l’impossibile diventi possibile: questa è, anzi, la sua cifra dominante. Come ci ricorda Hannah Arendt, il male assoluto di Novecento si è prodotto proprio quando “l’impossibile è stato reso possibile”. Il gesto di Basaglia sovverte, invece, il Novecento perché rivendica una società in cui non tutto è possibile, perché pratica un’etica dell’impossibile, una filosofia del non. Semplicemente, ci sono cose intollerabili. Non è un caso che l’atto inaugurale della sua direzione del manicomio di Gorizia sia un rifiuto, quel “e mi non firmo!” che si narra abbia pronunciato dinanzi al registro delle contenzioni notturne.
Allora, la sua asserzione “il punto importante è che ora si sa cosa si può fare” racchiude un punto almeno di pari portata: ora si sa cosa si può non fare.
Lavinia Bifulco, Sociologa, Università Bicocca, Milano
E’ difficile riassumere in poche parole i motivi della straordinaria attualità di Franco Basaglia. Provo con due parole-chiave.
Muri. Chiunque abbia visto un manicomio sa che i muri sono potentissimi dispositivi di separazione fra dentro e fuori, fra chi non ha diritti e chi li ha, fra morte e vita delle relazioni sociali, fra l’annientamento delle persone e la possibilità di aspirare a una vita degna. La trasformazione basagliana del manicomio ha significato smantellare i muri affinché le persone possano essere curate nei loro luoghi di vita e tornare a vivere in società. Ancora oggi è necessario smantellare muri, non solo nella psichiatria. In molti servizi sociosanitari i muri non si vedono ma sono comunque presenti, nelle forme dei criteri di accesso e di selezione. I muri non solo persistono ma ne vengono costruiti di nuovi in diverse parti del mondo, a cominciare dall’Europa. Pur nella varietà di situazioni, essi operano sulla base di un comune meccanismo che produce esclusioni (ed espulsioni) inaccettabili. L’esperienza basagliana ha molto da dirci su come riconoscerli, e su perché e come liberarcene.
Cura. Smantellare muri implica spostare l’attenzione dalla malattia alla cura, al prendersi cura. Cioè al ventaglio di azioni, non solo mediche, che concorrono a creare condizioni di salute delle persone. La sanità territoriale a Trieste, in cui l’esperienza basagliana si è travasata, è la realizzazione più avanzata di questa impostazione (fino a qualche anno fa, cioè prima del suo smantellamento). Come dicono gli operatori triestini, è l’intera città che si prende cura. Un modo straordinariamente chiaro di declinare l’universalismo del welfare in una pretesa: il ben-essere o è questione di responsabilità collettiva o non è. Questo è avvenuto e può ancora accadere. Si può fare, come recita il titolo di un film di qualche anno fa sulle prime imprese sociali in Italia.