Da Salerno, Luciana Libero, giornalista e madre, ha inviato questa lettera:

Per favore, non parlate di “raptus”, di follia, di mostro. Abbiate pietà e non citate, a vanvera, Hannibal Lecter. Quello che è accaduto in via Martuscelli (vedi), l’orrore di quella madre smembrata e di quel figlio malato merita una sola parola: rispetto. Per una tragedia che può accadere a chiunque, ai tanti che si ritrovano con un congiunto che vede i fantasmi o sente le voci o“dà di matto”. Una tragedia che si accompagna sempre alle consuete parole e che deve necessariamente trovarne di nuove. A cominciare da una: perché? Perché accadono situazioni di questo tipo? Non facciamo altro che chiederci cosa c’è dietro; scrutiamo ogni più piccolo retroscena, le pieghe delle frasi, gli ammiccamenti del discorso, spesso dal buco della serratura. Ma in questi casi no, fuggiamo inorriditi, ci trinceriamo nell’ovvio- il mostro, il raptus, la follia – e non vogliamo sapere niente. Ci basta quello che c’è davanti, non dietro: l’orrore, la paura, l’angoscia di ciò che non si capisce e non si conosce. Non vogliamo capire cosa ci sia dietro quelle carni martoriate, dietro il silenzio di quella madre e di quel figlio, trovato nudo e muto dentro casa. Chi erano, come passavano le loro giornate, chi si occupava di loro, avevano aiuto o erano, come di solito avviene in questi casi, disperatamente, normalmente soli? Dove erano i servizi sociali, il centro di salute mentale, gli psichiatri, le case famiglia, i centri diurni, gli operatori, gli amici? Se ne sono accorti per la puzza di gas e perché il figlio era uscito da solo senza la madre, il che era strano. Ma era strano anche quando usciva insieme con la madre, lui era “strano”, quella famiglia era “strana”. Forse tutti sapevano ma nessuno muoveva un dito. La follia fa paura, e basta. E’ l’ignoto e ciò che non si conosce e non si capisce, semplicemente, si evita. Lo grida al mondo la telefonata rigorosamente anonima, nessuno ha osato bussare a quella porta. E la frase più dura è più spietata è quella riga di cronaca, casuale tra le altre: l’uomo era stato dimesso e affidato da pochi giorni alla famiglia. A quale famiglia? A quella madre che da sola si portava a spasso il figlio quarantacinquenne; era lei, da sola,“la famiglia”? Raccontava lo psichiatra Peppe Dell’Acqua che quando dal centro di salute mentale di Trieste non riescono in nessun modo a rimontare una situazione riconoscono il fallimento e mettono in campo l’operazione “Guerre stellari”. Un gruppo di operatori dedicato ritorna con attenzione sul problema, cerca di ricomprendere, va a vedere che succede e interviene, come in un gioco, come in un film, per costruire il difficile percorso della rimonta. Per prevenire che le persone si perdano tragicamente nel vuoto e nell’oscurità gelida dello spazio siderale. Si sono spesi milioni ma da noi, l’operazione “Guerre stellari”non è scattata; quel figlio, quell’uomo è stato affidato alla “famiglia” e cioè alla povera mamma di settanta anni. E così si è perso nello spazio dei suoi pensieri.

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