di Donato Morena, psichiatra (Salerno)

Per quanto riguarda il punto su autonomia e territorio, condivido il giudizio sull’inefficienza e sull’inefficacia del sistema regionale attuale. Mi chiedo però perché la risposta a tale valutazione sia la progressione verso l’autonomia e la gestione territoriale di aspetti che dovrebbero essere garantiti e tutelati dallo Stato? C’è sicuramente una nobile intenzione nella territorializzazione delle cure, che tuttavia trova ostacoli, non trascurabili ormai su tutto il territorio nazionale, nelle distorsioni operate dal potere politico e dagli interessi clientelari privati. E’ mio parere necessario partire da due elementi chiave, da cui poi tutto viene determinato a valle: la meritocrazia e l’autonomia dei dirigenti e degli operatori. E’ limitativo, credo, dibattere sulla dimensione delle strutture organizzative se al vertice, dal grande al piccolo, troviamo al solito persone/personaggi che hanno un solo scopo istituzionale, rispondere a comandi politici.

I contenitori possono avere un loro ruolo nella determinazione dell’operato ma la scelta giusta dei professionisti è determinante e deve essere una pre-condizione a tutto il resto. Nè si può pensare di imbrigliare l’operato dei vertici e degli operatori attraverso dei meccanismi di valutazione delle performance, che sappiamo essere facili da eludere e mistificare.

Perciò, dovrebbe essere nelle intenzioni nazionali garantire un sistema omogeneo, limpido, meritocratico, di scelta degli operatori. Su tale base, poi, è possibile stabilire delle linee di indirizzo operativo, dei sistemi di monitoraggio, delle valutazioni da parte degli utenti ecc…
– Formazione: tutto giusto ma, per ricollegarmi al primo punto, cosa si offre a un operatore che venga formato in modo, direi, così diverso da quanto fanno le Università? Si dirà, sono scelte di campo, bisogna saper dire sì si e no no. E’ un principio che tuttavia non ha dato i frutti sperati in questi anni. I giovani medici che iniziano il percorso formativo universitario oggi hanno due strade: seguire l’ambizione universitaria attraverso un’attività pubblicistica prevalentemente incentrata sulla terapia farmacologica o su interventi evidence-based di breve durata; oppure lasciarsi andare al mare aperto delle ASL, dove corrono il rischio di diventare, bene che va, operatori routinari, insoddisfatti e malmostosi, male che va degli aspiranti politici. Per gli altri operatori la situazione è migliore? Non esprimo qui pareri sulle altre professionalità, mi limito a dire che si dà ormai sempre più spazio a un appiattimento del lavoro su compiti di somministrazione terapeutica (di farmaci, di test, di programmi), spesso senza neanche sapere cosa si sta facendo, come, con quale finalità.
– Contro la solitudine e l’isolamento: trovo l’isolamento che si vive nei centri territoriali e negli ospedali di un gelo estremo, e che questo rifletta ciò che avviene nel resto dei contesti (a)sociali.
La psichiatria è capace e ha la forza di esprimere un valore di ritorno all’umano e al sociale? Durante i due anni di pandemia mi sembra che le voci siano state molto flebili, accontentandosi di qualche iniziativa, al solito in maniera sparpagliata.
C’è la capacità di esprimere un coordinamento che sappia dare indirizzo su cosa e come fare? Che ascolti le voci dei territori e sia capace di farne una sintesi, trovare un soluzione programmatica ai problemi? Avere la forza politica di indirizzare l’operato dei Servizi? C’è la forza di sostituire gli operatori che ambiscono all’immobilità personale e del loro (piccolo) mondo?
Anche da qui nasce il ghiaccio del silenzio, dal vedere che gattopardescamente tutto cambia per non cambiare mai niente.
La parola deve avere un valore, altrimenti è parola vuota, svuotata, che può solo trasformarsi in grido e spegnersi.
– Le parole e il linguaggio. Appunto. Suggerisco di smettere di criticare il linguaggio medico se poi non c’è la forza necessaria a dare un senso a tale cambio di paradigma. Altrimenti si finisce in un’aporia ideologica. Dire a un medico di non parlare di paziente, di diagnosi, di pericolosità, di aggressività, deve avere come presupposto la possibilità concreta di un’alternativa semantica che abbia un valore reale. Sappiamo bene che esiste un principio di responsabilità professionale da cui nessuno può chiamarsi esente e le sentenze giurisprudenziali lo stabiliscono quotidianamente, sempre più anche in ambito psichiatrico. Porre un valore critico alle parole è giusto, ma è fondamentale offrire una soluzione pratica, un’alternativa tangibile, un modo altro di fare. Parlare di “utente” invece che di “paziente” e poi offrire solo una terapia farmacologica e una visita mensile ha senso oppure è malafede (per usare un termine evocativo)? Dire che non si può parlare di “aggressività” e “posizione di garanzia” e poi leggere di condanne ai colleghi è un argomento che allontana o avvicina gli operatori alla nostra strada?
E’ condivisibile mettere in crisi l’uso delle parole e del linguaggio. Ma, non si corre il rischio di sembrare troppo distanti dal reale nell’essere troppo radicali?
Vorrei chiudere con un pensiero che mi frulla nella testa da anni. La speranza, l’attesa messianica, che possa irrompere sulla scena, di nuovo, Franco Basaglia.
E’ una speranza che purtroppo so che non può farsi carne, farsi reale. Mi dà però un senso di ottimismo pensare che forse possiamo diventare noi operatori, unendo le forze e le intenzioni, quella figura di cambiamento di cui ci sarebbe tanto bisogno.
Ho scritto di getto queste righe, senza volontà di polemica se non quella che possa essere una polemica-poietica, giusta per poter aprire una discussione.